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Casa di bambola: un femminismo di cartone

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Alfonsa Laonigro

«Il mio progetto è di farmi fotografo», scriveva Henrik Ibsen nel 1867. «Farò posare davanti al mio obiettivo i miei contemporanei, uno ad uno». I punti di contatto tra la prosa ibseniana e la fotografia sono, in effetti, almeno due. Come i primi cultori del dagherrotipo, Ibsen credeva di poter ritrarre la realtà in modo oggettivo; e come loro, si ingannava. Non fu difficile dimostrare, già sul finire dell’Ottocento, che le pretese di oggettività nella rappresentazione del reale erano infondate: dietro l’obiettivo, infatti, c’è sempre il fotografo, che impiega lo strumento in modo inevitabilmente soggettivo, scegliendo in prima persona i tempi di esposizione, l’uso delle luci, eccetera. Similmente, a intingere la penna nel calamaio è lo scrittore, che considera i fatti in base a un’ottica preconcetta, a un’ideologia sua propria. Ibsen non fa eccezione: ed è per questo che la sua opera più nota e provocatoria, Casa di bambola (Et Dukkehjem, lett. Una casa di bambola, 1879) si è prestata ad interpretazioni non solo discordanti, ma apertamente contrapposte.

Il testo è del 1879 e così la prima messa in scena assoluta, che ha luogo al teatro reale di Copenhagen. In Italia il debutto avviene solo nel 1891, a Milano: è Eleonora Duse a vestire i panni di Nora, la controversa protagonista dell’opera. Sin dai suoi esordi, infatti, la pièce è considerata un manifesto femminista ante litteram, tanto che in un’edizione scolastica del testo (Bruno Mondadori, 1998) è addirittura accostata a una figura femminile rivoluzionaria come l’Antigone di Sofocle. A causa del suo – apparente? – moto di ribellione, al suo rifiuto dell’identità di moglie e madre, il personaggio di Nora si è appiattito su di un ruolo monodimensionale, mai più messo in discussione, se non da pochi critici illuminati: quello di astro nascente del movimento di emancipazione femminile. E tutto per aver abbandonato il tetto coniugale, sia pure nel 1879.

Nora, secondo l’opinione comune, è dunque la prima femminista moderna. A renderla tale è ovviamente il suo ribellarsi ai dogmi del patriarcato. Questa l’interpretazione più accreditata, storicamente valida e tuttora prevalente, del testo ibseniano; ma, al tempo stesso, la più superficiale. Duole ammetterlo, se si pensa che persino intellettuali del calibro di Gramsci e di G.B. Shaw avallarono, nei loro scritti, l’interpretazione femminista di Casa di bambola; una chiave di lettura che Roberto Alonge, nella sua Introduzione all’opera (Mondadori 2011, 2016) definisce con felice espressione «la leggenda di Nora». Perché di leggenda si tratta. A uno sguardo più attento, infatti, ci si rende conto che la soluzione dell’intreccio narrativo non è così ovvia: c’è più d’un motivo per dubitare che la fuga di Nora dalla vita domestica sia un atto di sincera ribellione. Ma per capirlo serve fare un passo indietro. Senza inquadrare il contesto sociale in cui si colloca l’azione, e senza considerare, come si è detto, il sostrato ideologico della scrittura di Ibsen, è impossibile cogliere le sfumature che rendono Nora – a dispetto della vulgata sull’argomento – un personaggio di difficile interpretazione, ricco di sfumature e tutt’altro che scontato.

La più recente edizione italiana (Mondadori, 2016).

Henrik Ibsen, drammaturgo di origini norvegesi, visse in diverse città dell’Europa centrale. La sua opera si colloca a cavallo tra XIX e XX secolo, nel pieno della Seconda rivoluzione industriale. È bene ricordarlo, perché Ibsen si fece interprete e promotore della nascente ideologia borghese precapitalista. Al centro dei suoi drammi, infatti, c’è sempre un’esaltazione della media borghesia industriale, unico ceto produttivo capace di costruire imperi economici ispirandosi a un’incrollabile etica del lavoro – come descritto da Weber ne L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1905). All’interno di questo orizzonte morale, la donna assume un ruolo ben definito: moglie devota e madre amorevole, tutta dedita alla cura della casa e all’educazione dei figli, e se benestante coadiuvata da personale di servizio (qui i suoi interessi primari si limitano a eventi mondani e pomeriggi a far compere). Lo storico binomio tra cultura e natura, ragione e sentimento si incarna nella dicotomia uomo/donna; il primo, cavaliere d’industria; la seconda, mammoletta graziosa, utile al massimo – se di buona famiglia – come mezzo di rappresentazione del potere maschile o come ascensore sociale per il giovane di umili origini. Una «bambola», appunto, vezzeggiata da uomini viziati – prima il padre, poi il marito – e di loro esclusiva proprietà. Naturalmente, in quest’ottica, le nozze sono un atto di compravendita, i rapporti umani frutto di calcolo. È un «universo di poveri diavoli, costretti a essere meschini perché meschina è la vita». Lo stesso mondo aspro ed egoista, tutto centrato sul profitto e sul potere, che si ritrova tra le pagine di Dickens – non a caso, coevo di Ibsen – e si fonda sul noto principio di Hobbes: homo homini lupus.

Ognuno per sé, dunque. È curioso che, a livello drammaturgico, le manifestazioni più esplicite del proprio spietato individualismo si verifichino in uno dei luoghi deputati alla convivialità: il salotto. Casa di bambola è interamente ambientato nel salotto borghese degli Hemler, e lo stesso accade in opere ben più recenti, come Le dieu du carnage di Yasmina Reza (di cui si è già parlato qui). È in salotto che Nora, priva di ogni riguardo per l’amica vedova, le sbatte in faccia la propria felicità coniugale. È in salotto che Torvald Hemler, suo marito, esulterà per essere uscito indenne dalla losca faccenda in cui Nora era implicata, senza curarsi di lei. Arriviamo così al punto fondamentale della vicenda: Nora, per leggerezza e per amore di Torvald, ha commesso un illecito le cui conseguenze ricadono anche su di lui. Tuttavia, ella si aspetta che il gentil marito sia pronto ad accorrere in suo soccorso, lancia in resta, come un cavalier servente; questo il «miracolo» che Nora si aspetta in cambio della sua totale devozione di moglie e madre. Ma rimarrà delusa: scoperto il fatto, il caro marito-padre-padrone si vede perduto ed è pronto a ripudiarla. Tornerà sui suoi passi, perdonandola, solo dopo aver ricevuto la lettera che li metterà entrambi – lui per primo – fuori pericolo.

Eleonora Duse (1858-1924) è Nora (Milano, 1891).

Lieto fine, dunque? Niente affatto: l’equilibrio coniugale degli Hemler è irrimediabilmente compromesso. Nora ha scoperto che Torvald non è l’uomo che credeva: nell’ora più buia, lungi dal prendersi ogni colpa pur di scagionarla, si era detto pronto a metterla alla porta. Un affronto inaccettabile. E infatti Nora sceglie di abbandonare il marito, incredulo e attonito, senza voltarsi indietro.

Qui si apre il grande interrogativo sotteso all’intera opera. Nora, si è visto, abdica al suo ruolo di moglie perché delusa dall’inettitudine e dalla codardia del marito. Questo il punto di partenza, da cui si aprono due scenari possibili: per Nora, Torvald è colpevole di essere stato un marito-padre-padrone, o piuttosto di esserlo stato troppo poco? Secondo l’interpretazione di Alonge, Nora non parte alla ricerca di sé stessa, bensì di un vero uomo, di un cavalier servente davvero pronto a sacrificarsi per lei. Essa ambisce dunque, in quest’ottica, non a uscire dal suo ruolo di moglie-bambina-bambola, ma piuttosto a rimanervi, forte del sostegno di un uomo davvero disposto a «prendersi tutto sulle spalle», come Torvald ripeteva di saper fare. Un’interpretazione in netto contrasto con la già citata «leggenda di Nora», la consolidata opinione che fa della protagonista del dramma ibseniano una suffragetta ante litteram. Se Nora desiderasse essere libera, osserva sensatamente Alonge, per prima cosa cercherebbe di appropriarsi dell’unico strumento di emancipazione possibile: il lavoro. Essa stessa è consapevole che è così che si diventa liberi: lo dimostra in un punto saliente del dramma, quando afferma, rievocando il breve periodo in cui aveva guadagnato qualche soldo come copista, che in quei giorni le era parso «di essere un uomo». Forte e indipendente come un uomo, orgogliosa del sudore della propria fronte: eppure, dinanzi alla suprema occasione di libertà, Nora non è nemmeno sfiorata dall’idea di conquistare sé stessa mediante il lavoro. Si limita a sostenere di aver bisogno di un periodo di riflessione, necessario a diventare «una creatura umana» al pari degli uomini. Sa già come farlo, ma non pensa al lavoro come mezzo di riscatto quando abbandona Torvald. Inoltre, il fatto che questa decisione sia dovuta all’inettitudine del marito lascia ragionevolmente supporre che il suo obiettivo sia di trovarne un altro, pronto a colmare le lacune del precedente, e a tutelarla nel suo ruolo di «bambola», a cui forse, tutto sommato, era affezionata.

Lunetta Savino interpreta Nora in una scrittura inedita e rivisitata del dramma, dal titolo «Casa di bambola – L’altra Nora» (Leo Muscato, 2007).

Così, il femminismo di Nora non è altro che una sagoma di cartone, un giocattolo, una casa di bambola. Questa chiave di lettura – che si rifà alle interpretazioni del già citato Alonge, di Georg Groddeck e del regista teatrale Beppe Navello – è senz’altro provocatoria rispetto all’interpretazione tradizionale del dramma di Ibsen, e non ha pretese di esaustività. Tuttavia, può essere interessante notare come, a fronte di una lettura attenta – e magari integrata da saggi critici di diverso orientamento – sia possibile cogliere sottintesi e sfumature che rivelano lati nascosti, spesso insospettabili, di un’opera.

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