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Il cinema di Ermanno Olmi: seconda parte

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Anastasia Piperno

Continua, dopo la prima parte, l’esplorazione del cinema di Ermanno Olmi. Dopo aver evidenziato la sottile sensibilità del regista nel cogliere la vita di ogni giorno, spesso concentrandosi su persone di umile estrazione e sui piccoli gesti che compongono la loro quotidianità, è necessario però non fermarsi su questo lato del suo cinema. La rilevanza del regista bergamasco infatti si spiega anche con altri elementi, quali la sperimentazione formale, l’attenzione al tempo soggettivo, il rapporto per nulla dogmatico con il cattolicesimo e, di nuovo, altri aspetti della sua capacità di sondamento intimistico, coinvolgendo considerazioni sul legame inestricabile tra vita e morte.

La vita della mente

La poetica di Olmi potrebbe essere accostata alla riflessione sul tempo fatta dal filosofo Henri Bergson. Da una parte c’è il tempo fisico, quello scandito dall’oggetto-simbolo dell’orologio, un tempo che si misura precisamente e dove ogni secondo ha lo stesso peso. Dall’altra c’è il tempo della coscienza umana, del vissuto, che non può essere pensato allo stesso modo. Si tratta infatti di un flusso continuo e irregolare, dove convivono nella soggettività le memorie del passato, il presente e la spinta verso il futuro. In questo caso un solo minuto può avere più incidenza di un’ora intera, quindi un valore diverso. Se il tempo fisico è nell’hic et nunc, la coscienza umana è un insieme mobile, che contiene un deposito di memorie in cui nulla si perde per davvero. Considerando la preferenza di Olmi per gli ambienti alpini, è proprio azzeccata l’immagine offerta da Bergson per la sua teoria: il tempo interiore, ovvero la durata, è come una valanga, la quale rotolando accumula sempre più neve, ma senza che quella presente da prima venga persa. Il tempo autentico, “reale”, per il filosofo francese non è una successione meccanica di fatti, ma un flusso eterogeneo in costante divenire, dove l’istante nuovo interagisce con quelli già accumulati nella memoria, arricchendo sempre più il presente.

Giovanni (Carlo Cabrini) e Liliana (Anna Canzi) in I fidanzati. Foto: janusfilms.com

Olmi nel corso della carriera ha dato prova di sperimentazioni su questo frangente, abbandonando spesso una rappresentazione che riprenda soltanto l’ambiente esterno, appunto il tempo fisico, per entrare dentro la coscienza dei personaggi. Allontanandosi dall’etichetta di neorealista tardivo, ottenuta dai primi due lungometraggi Il tempo si è fermato (1958) e Il posto (1961), con I fidanzati (1963) Olmi non dà una narrazione cronologica lineare, ma si serve del lavoro sul montaggio discontinuo appena proposto dal movimento francese della nouvelle vague – in particolare della resa di tempo e memoria di Resnais (Hiroshima mon amour, 1959) – per raccontare il tempo interiore. È celebre ed emblematica la scena del ballo iniziale di I fidanzati: mentre una coppia malinconica siede ai margini del locale, Olmi sfasa il piano visivo e quello sonoro. Sullo sfondo costante della musica della balera, che fa da collante, si affastellano flashback per analogia e contrasto, si vede Giovanni, operaio, chiamato a colloquio dalla sua fabbrica per una proposta di trasferimento in Sicilia; si vede il confronto spinoso con la fidanzata Liliana, e poi il saluto al padre anziano. Gli input del mondo esterno, del presente della sala da ballo, danno luogo a un’evocazione della memoria che smentisce un’idea della progressione narrativa pari a una linea retta, mostrandosi al contrario eterogenea, irregolare proprio come la durata in senso bergsoniano. Il film tuttavia non si costituisce come un’immersione continua e totale nell’interno soggettivo dei personaggi, ma entra ed esce da esso, rimanendo sempre sul confine tra una memoria del personaggio e una rappresentazione invece autonoma e oggettiva. Da una parte vi sono infatti dei flashback, dall’altra talvolta la macchina da presa prende una propria direzione. Un esempio del secondo caso è in una sequenza ambientata in Sicilia: Giovanni, appena svegliatosi, guarda fuori dalla finestra della sua stanza, si vede il paesaggio in soggettiva, dove il sole abbacinante fa socchiudere gli occhi al protagonista. Il montaggio torna ad un’inquadratura sul personaggio esplorante, facendo poi vedere nuovamente l’oggetto del suo sguardo: un’autofficina. Seguono poi tre campi lunghi su mezzi di trasporto, prima due camion, poi un treno, poi una panoramica che segue il movimento di un bus. Lo spettatore è indotto a pensare che l’inquadratura segua ancora il movimento degli occhi di Giovanni, ma la panoramica finisce su un gruppo di persone che lo aspettano alla fermata, e tra queste c’è anche Giovanni. Olmi scivola appunto da un tipo di rappresentazione ad un’altra, attraverso ellissi temporali non dichiarate, che sono costanti in tutto il suo cinema. Questo approccio formale aderisce a un percorso dei personaggi, in cui è proprio il tempo, la sua diversa consistenza in un ambiente totalmente nuovo, a mutare la relazione della coppia, portandoli a evocare il passato nel continuo confronto con un presente straniante, e nella sfida costante della comunicazione a distanza. L’esperimento avviato con I fidanzati continua poi con il mediometraggio La cotta (1967). Qui Olmi segue Andrea, continuando a oscillare tra un tuffo nella vita mentale del ragazzo e una riemersione negli eventi del mondo esterno. L’adolescente milanese infatti subisce una delusione amorosa nella notte di Capodanno, dal momento che la ragazza di cui si è infatuato, Janine, non rispetta un appuntamento preso ad una festa e non si fa più viva. Olmi costituisce persino una dimensione temporale tripla: in primo luogo il presente esteriore, in secondo luogo un evento immaginato da Andrea, mai avvenuto, e in terzo luogo un ricordo di vita vissuta che riaffiora proprio in associazione ad una fantasia. Immaginazione e ricordo, dunque, si intrecciano continuamente, mimando il flusso coscienziale. In una scena ad esempio Andrea immagina di vedere Janine alla festa con un altro ragazzo, e si figura lei che si volta verso di lui e dice delle parole pronunciate dallo stesso Andrea in passato: «Dai, fammi la corte, ma una corte che duri un po’ di giorni e ci faccia sospirare. E poi il primo bacio, mi piacerebbe darti ancora il primo bacio». Al suono di queste parole si inseriscono brevi ricordi relativi al loro primo bacio. L’irruzione del passato e delle associazioni mentali dei personaggi tornano ancora in Un certo giorno (1969), dove lo stesso atto di disordine della linearità narrativa rispetta lo scombussolamento del protagonista, la cui vita da un giorno all’altro viene segnata profondamente da un incidente automobilistico di cui è colpevole. Il ripiegamento di Olmi nella sua soggettività è una sonda in contemporanea con l’atto riflessivo del protagonista, che rielabora il presente per guardare alla sua vita, alla sua persona, giudicando moralmente il suo passato, pescando nel pozzo del suo deposito personale di memorie ciò che è più significativo per il suo risveglio etico. Qui, come ne La cotta, Olmi cerca di rendere inoltre come l’esplorazione dei nostri ricordi sia fatta attraverso la bussola del desiderio, tornando a volti densi di un significato affettivo per cercare delle risposte ai propri interrogativi, alle proprie mancanze e alla direzione da intraprendere nel presente che chiama ad agire. Mentre il protagonista è colto proprio in questa ricerca interiore attraverso il suo volto, il montaggio inserisce un’inquadratura in movimento delle stanze della sua casa familiare, realizzata con una macchina a mano per mimare l’avanzamento soggettivo e mentale in esse del personaggio, frugando verso qualcosa di indeterminato, finché non appare in un angolo, e poi in primo piano, il volto della moglie. Si registra ancora un diverso piegamento del mezzo cinematografico al senso del tempo in La leggenda del santo bevitore (1988). Al contrario della fonte letteraria, l’omonimo racconto di Joseph Roth, dove l’andamento è vivace, sincopato e sostanzialmente lineare, la trasposizione di Olmi cerca un effetto di rallentamento temporale. L’andamento delle scene è permeato di una sospensione, rendendo un senso di attesa indeterminato da parte del senzatetto Andreas, a cui capita sul fiume della Senna di ricevere una somma di denaro in dono da un misterioso passante. Tenendo al proprio onore, vuole sapere come poter restituire i soldi in seguito al generoso benefattore, ma quest’ultimo gli dice di non darli indietro a lui, ma alla chiesa di Santa Teresa di Lisieux, a cui è devoto. Il clochard dissipa progressivamente il denaro e fa una serie di incontri con persone che hanno segnato il suo passato. Pur tentando di mantenere fisso il principio e la meta della chiesa, si trova sempre allontanato da essa, sia per la debolezza dei propri vizi (come l’alcolismo) sia per l’intervento degli altri. Ogni volta in cui la fortuna del denaro ricevuto – pari ad una grazia divina – si esaurisce, un nuovo evento fortuito incide nel suo cammino, portandolo a riottenere la somma di denaro prima spesa, e così a poter ancora mantenere la sua promessa. Quindi nell’accento lento e malinconico posto da Olmi, il senso d’attesa si esprime come un’attesa quasi rassegnata, parzialmente conscia di un ultimo termine di scadenza per il debito, la morte. La vita, sballottata da eventi casuali, nonostante un continuo rimando ad un principio da soddisfare, è un evento che accade, senza un reale e volenteroso controllo, è l’abbandono ad una corrente.

Rutger Hauer – famoso per aver interpretato l’androide Roy Batty in Blade Runner (1982)- è Andreas in La leggenda del santo bevitore. Foto: la cooltura.com

Il mestiere delle armi (2001) è l’esperimento sul tema del tempo e del montaggio più radicale. Olmi accosta frammenti narrativi di legame misterioso, e l’intero film, che si muove continuamente di analogia in analogia poetica, soggettiva, acquista un suo senso più unitario e compiuto soltanto nel suo finale, che riprende circolarmente l’inizio. Si tratta di uno dei soggetti a tema storico di Olmi, che narra degli ultimi giorni di vita del condottiero Joanni De’ Medici, un soldato italiano al servizio dello Stato Pontificio durante le guerre d’Italia nella prima metà del XVI secolo. Qui il tempo misurabile, fisico e della dimensione pubblica, storica, viene mostrato attraverso una scansione di date, ma Olmi innesta e sovverte continuamente questa progressione con, di nuovo, il senso intimo di durata dei personaggi, con ricordi personali e digressioni, che si fanno carico di una valenza universale, di un contenuto che sfocia nel simbolo metafisico rispetto alla concretezza dell’evento storico e dello stesso “mestiere delle armi”, le cui particolarità sono pure raccontate. Gli accostamenti compiuti da Olmi qui sono molti ricchi e diversi, pur rispettando un gruppo di temi comune: alcuni sono il legame tra l’umanità espressa dallo sguardo di un bambino e l’elmo del soldato, simbolo di un uomo divenuto macchina da guerra, oppure il legame tra eros e thanatos (morte), dove il primo è generatore esuberante di vita e la seconda è ancora un termine che piomba, inevitabile, che coglierà tutti e indistintamente. Quest’ultima è un’oscura consapevolezza presente anche in Lunga vita alla signora! (1987), dove si può interpretare il volto della signora anziana che presiede ad un banchetto, coperta da un velo nero e in cui si intravedono tratti smunti e antichi, come un’allusione ironica alla morte, oltre che al potere di natura materiale e politica.
Così se il passato confluisce nel presente, così anche la morte confluisce costantemente nella vita. Virgilio Fantuzzi ha dato una rilettura interessante e teologica al cinema olmiano [1], che è di spiccato interesse anche per uno spettatore non religioso, adattandosi bene ad una più universale filosofia di vita. Si può infatti leggere la sua filmografia sotto il focus privilegiato dei riti di passaggio, dove una piccola morte – la fine di uno stato precedente, di una condizione conosciuta – è necessaria per dare luogo a una nuova fase vitale. La separazione de I fidanzati si può leggere in questo modo ad esempio, ma anche la delicata fase di transizione dalla scuola al primo lavoro ne Il posto, dove la morte delle illusioni adolescenziali è necessaria per entrare nella realtà adulta. Fantuzzi richiama anche un passo del Vangelo di Giovanni, 12, 24: «Se il seme di frumento non finisce sottoterra e non muore, non porta frutto. Se muore, invece, porta molto frutto». Quest’immagine può ricordare quella della morte del bulbo come condizione necessaria alle crescita di un fiore all’interno della dialettica hegeliana, il cui autore aveva d’altronde dedicato molta attenzione al Vangelo. Lo stesso Olmi dà una propria metafora della rinascita: «Rinascere significa mettere in discussione quello che sei stato fino a quel momento per essere, da domani, un uomo nuovo. Rinascere è recuperare la libertà che solo l’innocenza può dare. Del resto, qualcuno ha detto: se non tornerete bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Se non sfruttiamo le occasioni di rinascita che ogni giorno ci vengono offerte, non saremo mai felici» [2]. L’innocenza qui auspicata è una valorizzazione della propria libertà personale, di contro agli inganni della parte più corrosiva della società contemporanea, in linea con la denuncia attuata ne Il posto o in Un certo giorno e vista nella prima parte. Per di più una società sana, per Olmi, è una società in cui la vita si è riconciliata con la morte, da legarsi al rapporto dell’uomo con la natura. Si spiega il profondo divario tra l’ambiente rurale di L’albero degli zoccoli, regolato sui ritmi naturali che già prevedono un ciclo di nascita e morte, e invece il contesto urbano e artificiale da Il posto a Milano ‘83, dove l’uomo mostra una concezione molto più antropocentrica, impedendosi un rapporto di armonia con la natura. Per l’autore bergamasco – e cattolico – la natura è il creato, un ente originato e regolato dunque non di certo dall’uomo, si tratta di un ente da rispettare – parte del suo cinema difatti è chiaramente ecologista – facendo parte del suo senso del sacro.

Il sentimento religioso è quindi nel ritmo vitale, nell’attenzione al gesto quotidiano che implica un vivere grato il dato ordinario e umile, ma non è affatto nel luogo delle istituzioni ecclesiastiche. Ben lontano dall’essere una figura di intellettuale voce della Chiesa, Olmi se ne distacca del tutto. Importante sotto questo punto di vista è l’impresa coraggiosa del film Cammina cammina (1983), dove Olmi si confronta con l’episodio biblico dei Magi, rivisitandolo. Anticlericale e anti-istituzionale, il regista inserisce questo dialogo: «Costruiremo templi per celebrare la venuta di Dio nella terra», «Voi, nelle vostre Chiese, celebrerete soprattutto la morte». I templi sono la tomba della fede, e in questo Olmi può essere accostato ad un senso del sacro ortodosso, come per il collega Pier Paolo Pasolini, che a sua volta ritrova il sacro e i simboli cristologici ben al di fuori delle istituzioni dominanti, in mezzo alla gente umile di borgata.

[1] Il cristiano muore ogni giorno e ogni giorno rinasce, in Ermanno Olmi: il cinema, la televisione, la scuola, a cura di Adriano Aprà, Marsilio, 2003.
[2] Ermanno Olmi, Charlie Owens, Gremese, 2001.

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