«La censura è il miele per gli artisti. Li innalza, li fa diventare simboli, li protegge come uno scudo. Proprio perché l’artista non è un politico, anche se fa politica, contrapporsi alle sue proposte è sempre fallimentare». Così il critico Vittorio Sgarbi si esprime sulla vicenda che ha recentemente coinvolto l’artista d’avanguardia Marina Abramović, la Barcolana di Trieste e il vicesindaco della stessa città, Paolo Polidori, che ne ha attaccato l’opera e invocato la censura – «per restituire», a suo dire, «un evento di prestigio a tutti i cittadini, non solo a quelli con un determinato credo politico». È una polemica che ha dell’inquietante, se è vero che un Paese avanzato come il nostro è stato velatamente colpito nella sua libertà d’espressione – attraverso l’arte, in questo caso, che dell’Italia è il marchio di fabbrica. Ma è soprattutto un’occasione che fa riflettere sulle libertà dell’artista e i suoi confini, e domandarsi se ai contenuti dell’arte si debbano davvero impedire certe interazioni con la sfera politica, con la storia, con la realtà.
Riassumiamo in breve l’accaduto. La Società velica di Barcola e Grignano, l’organizzazione che amministra la Barcolana di Trieste, chiede a Marina Abramović di disegnare il Manifesto per la regata velica del prossimo ottobre. Lei impugna una bandiera bianca che riporta la scritta «We’re all in the same boat», «Siamo tutti sulla stessa barca», un messaggio universale e solidale verso chiunque si imbarchi nei viaggi travagliati, reali o metaforici, della vita. Ma il vicesindaco Polidori non ci sta, e le sue parole bollano l’opera della Abramović come «un manifesto che fa inorridire, diffuso proprio mentre il ministro degli Interni Matteo Salvini è impegnato a ripulire il Mediterraneo». Dichiarazioni pesanti, non solo per i termini in cui sono espresse (“ripulire” è un termine che ricorda i tempi dell’eugenetica), ma anche perché hanno l’effetto di esporre in cattiva luce – paradossalmente – il governo a favore del quale sono pronunciate. Non è in questi termini, di certo, che M5S e Lega hanno pubblicamente invocato la responsabilità collettiva dell’Europa nell’«affrontare insieme le emergenze ambientali e sociali del pianeta». Insieme. Sulla stessa barca, appunto. E non è di certo un messaggio sovversivo nei confronti dell’attuale governo quello che Marina Abramović vuole lanciare. Come si può pensare che un’artista neppure italiana – o comunque non tanto coinvolta nelle vicende del nostro Paese quanto lo siamo noi – voglia fare diretta opposizione alla politica di Salvini nel Mediterraneo con un Manifesto per una regata velica? La solidarietà è un valore universale, che abbraccia anche, ma non solo, i migranti. Che la forza comunicativa dell’opera stia poi nel possibile rimando (comunque privo di schieramento ideologico) al tema, delicatissimo, dell’immigrazione e delle sue tragedie, non è che un trionfo mediatico per la Abramović in quanto artista. Questo fa l’arte: produce diversi significati e direzioni, dà libertà a tutte le interpretazioni. Anche politiche, senza però essere, lei stessa, necessariamente invischiata nella politica (d’opposizione).
Che l’arte, in tutte le sue forme, sia indissolubilmente legata alla storia – e quindi alla politica di ciascun pezzo di storia – lo dimostra il fatto che le cesoie della censura intervengono sempre con tagli puntualmente motivati dalla mentalità e dagli umori del tempo. Ogni singolo contesto storico-sociale ha la responsabilità di dettare le proprie regole del gioco, di dare le carte. L’arte è un patrimonio universale e atemporale, ma quando la si pone in connubio con la censura si ottiene, paradossalmente, l’effetto di darle una dimensione contingente, di fotografarla nell’hic et nunc, nel “qui ed ora” di determinati momenti storici (più o meno) transitori. L’arte d’ogni tempo, in altre parole, ha da sempre dovuto fare i conti con società e sistemi politici che hanno imposto o tentato di imporre le proprie convenzioni. Nel 1564 papa Paolo IV commissionò a Daniele da Volterra il ritocco delle nudità presenti nel Giudizio Universale di Michelangelo, poiché ritenute oltraggiose per il decoro pubblico dalla Congregazione del Concilio di Trento. Più di trecentocinquanta anni dopo, la stessa sorte, con mezzi diversi ma motivazioni simili, toccò a Egon Schiele: nella prima decade del Novecento, il secolo che oggi dovrebbe essere conosciuto come “delle Avanguardie”, l’artista austriaco venne condannato per i suoi nudi, considerati osceni e addirittura pornografici, e uno dei suoi disegni fu bruciato in tribunale. Non è tutto: quando Vienna, per celebrare il centenario della morte di Schiele e di Klimt (anch’egli più volte censurato), decise nel 2017 di organizzare una grande retrospettiva in loro onore acquistando spazi pubblicitari in tutta Europa, la Transport of London (l’azienda che gestisce le metropolitane di Londra) non solo rifiutò le stampe originali, ma anche quelle ritoccate dall’oscuramento dei genitali.
Verrebbe da chiedersi se questo medesimo scagliarsi contro ciò che provoca, che scuote, che scandalizza, anche a secoli di distanza, sia indice di una mancata evoluzione mentale parallela a un invece affermato sviluppo artistico. Forse sì, a giudicare dall’ironica risposta della capitale austriaca, che lanciò i manifesti ufficiali con i genitali coperti da una larga banda bianca, sormontata dalla scritta: «Ci scusiamo, questi dipinti hanno 100 anni ma sono scandalosi ancora oggi». Quel che è certo è che per ogni governo o società che detta regole, non importa quanto limitanti o progressiste esse siano, ci sarà sempre un artista che risponderà con le proprie.
Scrive il pittore Giuseppe Veneziano, frequente bersaglio dei censori per la promiscuità religioso-profano dei suoi soggetti: «Insistere oggi sul fatto che la provocazione sia inutile nell’arte sarebbe come negare una parte della storia del secolo scorso. Il problema, infatti, non è tanto quello di realizzare delle opere gradevoli che ci aiutino a superare le brutture del mondo, quanto piuttosto delle opere che siano importanti per il loro tempo, che riflettano in qualche modo la realtà che le circonda». Anche gli artisti dunque, esattamente come i governi dei Paesi a cui appartengono, fanno in un certo senso politica: provocano, destano scalpore, usano violenza verbale (a volte anche fisica), cercano di sovvertire l’establishment, i tabù, le convenzioni sociali e gli ordini prestabiliti. Eppure, tutto ciò non basta ad affibbiare loro la più scontata etichetta di ‘politici’, di feroci oppositori al partito dominante.
Gli artisti si schierano contro il potere in quanto tale, specialmente se soffocante e oppressivo; non hanno lo stendardo di uno specifico movimento nel mirino. Sono la voce delle proteste degli umili e dei bassi profili, i paladini della libertà d’espressione. Ridurre a ideologie politicamente sovversive i loro simbolismi, i significati universali e astratti delle loro opere, non è soltanto limitante, ma controproducente. Prima di tutto, perché la censura di un’opera non la priva del suo messaggio, che viene perseverato a prescindere dalla sua strozzata diffusione. In secondo luogo, perché ha potenziale per diventare un potentissimo mezzo di promozione, amplificando la portata dell’opera stessa e confermando l’abilità di un artista di cogliere nel segno. La censura quindi, se nelle prime fasi rappresenta il successo di un governo autoritario, a lungo termine non fa che rivelarne l’impotenza. Non è un caso che il presidente turco Erdogan si sia spesso lamentato del fatto che, tra tutti gli aspetti della vita nazionale su cui egli esercita il pieno controllo, l’unico in cui il suo governo conservatore e fortemente islamizzato non è riuscito a lasciare un segno permanente è proprio quello della cultura e delle arti. La capacità degli artisti di operare in contesti in cui la politica e i mezzi di comunicazione sono sotto l’occhio vigile e ferreo del governo ha rappresentato in ogni tempo una straordinaria risorsa per la presa di distanza critica. Ha offerto terreno fertile per legittimare la messa in discussione in campo politico e sociale nelle culture più censurate, e per lanciare una devastante sfida alle convenzioni tradizionali in quelle più liberali. «La storia», nelle parole di Veneziano, «ha dimostrato che […] questi artisti hanno avuto ragione, e se la società si è evoluta, ciò è accaduto grazie anche al loro contributo».
Tornando quindi al manifesto della Abramović, l’arte nella sua schiettezza ha il dovere di essere bersagliata dai dissensi essendo per sua natura aperta ad interpretazioni contrastanti, ma non le si può impedire di convivere con la politica, né deve essere ridotta a essa. Come gli artisti non possono fare i politici, così i politici non possono chiedere agli artisti di farsi da parte. Se il dissenso diventa censura, la politica diventa politica del consenso, che elimina l’approfondimento, la riflessione, la capacità critica insiti nei messaggi e nei contenuti che l’arte vuole trasmetterci. La censura è, spesso, sinonimo di paura. Dare legittimità al dubbio e voce alle ingiustizie non è eversivo nei confronti della linea politica dominante, come Polidori crede e vuol far credere. E l’immagine della barca è tanto vecchia quanto il latino «essere legati alla stessa macina», un’espressione che ricorda l’uguaglianza di tutti i cittadini, non «uno slogan sovietico e un’immagine da Corea del Nord». Non è propaganda, ma solidarietà. E la solidarietà, almeno quella, sradichiamola dalla politica.
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