Che cos’è conoscenza? Il problema di Edmund Gettier

La filosofia della conoscenza è una risposta molto nuova a un problema molto vecchio. L’importanza filosofica della domanda “che cos’è conoscenza?” non dovrebbe stupire: il filosofo si interroga sulla natura delle cose e, in un certo senso, si occupa di conoscerle. Si potrebbe quasi dire che sapere cos’è la conoscenza è fondamentale per conoscere qualsiasi cosa. Questa è la ragione per cui già i filosofi greci del V secolo a.C. si posero il problema di comprendere che cosa è conoscenza e cosa no. Effettivamente, è stata proprio una di queste prime teorie ad affermarsi, consolidandosi poi per circa due millenni di storia del pensiero. Tutto questo fino a quando, circa mezzo secolo fa, Edmund Gettier non infranse questa certezza con un semplice articolo di sole tre pagine.

La teoria tradizionale della conoscenza e il problema di Edmund Gettier

Per prima cosa è importante specificare che esistono molti tipi di conoscenza, e non tutti questi sono analizzabili allo stesso modo. Possiamo dire di conoscere degli individui o delle cose, come ad esempio io conosco il mio amico Andrea oppure conosco bene le rampe di scale del mio condominio. Esiste poi una conoscenza di stampo tecnico, ovverosia il saper fare qualcosa (come saper fare un determinato mestiere o saper suonare uno strumento musicale). Il tipo di conoscenza che si intende analizzare in filosofia, però, è quella di tipo proposizionale. Avere conoscenza proposizionale significare sapere che le cose nel mondo stanno in un certo modo. Per esempio, io so che oggi è sabato oppure so che in tasca ho un telefono.

L’origine della principale teoria della conoscenza viene in genere fatta risalire a Platone e, in particolare, al Teeteto. Come al solito, il Teeteto è un dialogo che vede Socrate impegnato in una discussione filosofica con qualche personaggio di Atene, in questo caso un giovanotto chiamato Teeteto. L’obiettivo proposto nel dialogo è proprio cercare di dare una definizione di cosa sia conoscenza. Il giovane, inizialmente, cade in un errore che affligge spesso i protagonisti dei dialoghi platonici: invece di trovare una definizione dell’oggetto di cui si sta discutendo, ne fornisce alcuni paradigmi. Per esempio, la geometria è un tipo di conoscenza, così come l’arte del calzolaio ne è un altro tipo. Ma il Socrate del dialogo, ovviamente, intende sapere che cosa sia la Conoscenza in generale. Dopo una lunga discussione, Teeteto giunge a formulare che conoscenza è opinione vera con logos. Nonostante anche in questo caso Socrate abbia le sue riserve (il dialogo, difatti, è aporetico), questa intuizione verrà mantenuta nel corso dei secoli, cristallizzandosi in quella che nel mondo anglosassone è chiamata Justified true belief (credenza vera giustificata), più nota in Italia come concezione tripartita.

Accademia di Platone in un mosaico a Pompei
Accademia di Platone, in un mosaico a Pompei.

Cosa significa che la conoscenza è credenza vera giustificata? Significa che si può avere conoscenza di una determinata proposizione, per esempio sapere che “la luce è accesa”, solo se si soddisfano tre condizioni:
1) La proposizione deve essere vera, dunque deve essere vero che la luce è accesa;
2) Devo credere che la proposizione sia vera, quindi devo necessariamente credere che la luce è accesa;
3) La mia credenza deve essere giustificata.

Nonostante ci siano più modi di intendere la giustificazione, in genere una credenza si ritiene giustificata se ci sono buone ragioni per crederla. In questo caso, le mie buone ragioni possono banalmente essere che vedo la luce accesa. Per poter affermare di sapere che la Terra è sferica, deve essere vero che la Terra è sferica e devo credere che sia così. Inoltre, devo avere dell’evidenza a sostegno della mia credenza, per esempio essermi informato su una rispettabile rivista scientifica o aver visto dei fotogrammi che ritraggono il pianeta dallo spazio. Possiamo fare molti altri esempi di questo tipo, ma, generalmente, questa teoria funziona. Questo non dovrebbe stupirci più di tanto: è piuttosto normale pensare che la conoscenza consista in un qualche tipo di relazione con la verità, altrimenti faremmo fatica a intenderla come autentica conoscenza. Sono pochi i filosofi che pensano si possa conoscere il falso. D’altronde, suona molto strano affermare di sapere che “la Luna è fatta di formaggio”, dal momento che tale proposizione è palesemente falsa.

La concezione tripartita della conoscenza, proprio per la sua versatilità, è rimasta praticamente intatta per svariati secoli. Fino alla metà del Novecento, difatti, tale teoria era praticamente accettata da tutta la comunità epistemologica. Questo cambiò radicalmente quando Edmund Gettier decise che era tempo di voltare pagina. La storia del suo famoso articolo, intitolato Is justified true belief knowledge?, è alquanto peculiare. Pur essendo docente alla Wayne State University di Detroit, in Michigan, Gettier aveva pochissime pubblicazioni accademiche alle spalle. I suoi colleghi, per questo motivo, continuavano a fargli pressione affinché pubblicasse qualcosa. Pur controvoglia, Gettier decise di scrivere un brevissimo articolo, e in sole tre pagine riuscì a far collassare una delle teorie più radicate nel pensiero occidentale. La confutazione della teoria tradizionale della conoscenza può essere considerata una delle più importanti svolte nella storia della filosofia contemporanea, ed ebbe un’eco enorme all’interno della comunità degli epistemologi. Dagli anni Sessanta si riaccese improvvisamente il dibattito sulla conoscenza, facendo nascere un nuovissimo ramo della filosofia analitica (la filosofia della conoscenza, epistemology nel mondo anglosassone) che fino a quel momento si era occupata principalmente del problema linguistico.

In che modo Gettier riuscì a smuovere la comunità filosofica? Le tre pagine dell’articolo contengono solo due controesempi, tanto brevi quanto fatali. Il primo, quello più esplicativo tra i due, è descritto nel seguente modo: Smith e Jones concorrono per lo stesso posto di lavoro. Il presidente della compagnia assicura a Smith che il posto andrà a Jones. Inoltre, lo stesso Smith ha occasione di contare le monete che sono nella tasca di Jones e osserva che ce ne sono dieci. Smith ha buone ragioni per credere che “Jones otterrà il posto di lavoro e Jones ha dieci monete in tasca”. Da questo inferisce la proposizione “chi vincerà il posto di lavoro ha dieci monete in tasca”. La sua credenza è ben giustificata, dal momento che ha buone ragioni per credere che sarà Jones a ottenere il posto (gli è stato assicurato dal presidente della compagnia) e ha appena contato le monete nella tasca dello stesso Jones. Si dà il caso, però, che il posto di lavoro venga assegnato allo stesso Smith e che, senza che ne fosse consapevole, anche lui ha in tasca dieci monete. Questo rende la sua credenza vera. Ma diremmo noi che Smith sapeva chi è che avrebbe ottenuto il posto di lavoro? Secondo Gettier, evidentemente no, dal momento che la credenza di Smith si è rivelata essere vera in maniera del tutto fortuita. Platone e tutta la tradizione successiva distrutti in sole tre pagine.

Edmund Gettier
Edmund Gettier.

Scenari di questo genere, dopo l’articolo di Gettier, sono diventati molto popolari, al punto che è nata un’intera letteratura incentrata sui cosiddetti casi Gettier. Costruirne uno è abbastanza facile: basta descrivere un caso in cui una persona ha una credenza ben giustificata che però si rivela essere vera per questioni del tutto casuali. Una variamente altrettanto illuminante, e diventata famosissima all’interno della comunità degli epistemologi, è quella di “Henry e i fienili finti”, ideata da Alvin Goldman. Immaginiamo che Henry stia guidando in campagna e, passando accanto a dei fienili, ne indichi uno con il dito. Crede di stare vedendo un fienile e inferisce “quello è un fienile”. Si dà il caso che, a sua insaputa, in quella pianura siano stati piazzati numerosi fienili di cartapesta. Ciononostante, quello che indica Henry è effettivamente un fienile, l’unico autentico in mezzo a tanti fienili finti. In questo modo la sua credenza è vera e giustifica, eppure non siamo portati a considerarlo un caso di conoscenza. Questo perché si tratta di un mero caso che Henry abbia indicato il fienile vero piuttosto che uno di quelli falsi. Sarebbe bastato indicarne uno qualche secondo prima o qualche secondo dopo e la sua credenza sarebbe risultata falsa. Henry, in realtà, non sa che quello è un fienile. Anche in questo caso, dunque, un evidente caso di fortuna epistemica rende la concezione tradizionale della conoscenza del tutto inadeguata.

È possibile risolvere il problema di Gettier?

Negli anni immediatamente successivi alla pubblicazione dell’articolo di Gettier, i filosofi analitici si sono impegnati a confutare o corroborare l’idea che la teoria tradizionale fosse insufficiente. La filosofia della conoscenza è ritornata in auge e, al giorno d’oggi, sta vivendo uno dei suoi periodi più floridi. Questo è anche uno dei motivi per cui i filosofi analitici stanno diventando popolari anche al di fuori del mondo anglosassone. Ciononostante, il problema sollevato da Gettier non è stato ancora risolto in maniera definitiva.

Alcuni autori hanno cercato di difendere la concezione tradizionale della conoscenza, lavorando soprattutto sulla nozione di giustificazione. Altri autori, come il già citato Goldman, hanno pensato di fare a meno della giustificazione, introducendo nuove condizioni. Per esempio, lo stesso Goldman afferma che ciò che mette in luce uno scenario come quello di Henry e i fienili finti è una mancanza di causalità tra la credenza e lo stato di cose nel mondo. In tempi più recenti ci sono state anche proposte molto più ardite, che hanno cercato di superare l’idea di costruire una teoria della conoscenza. Timothy Williamson ha rigettato la possibilità che la conoscenza sia qualcosa di analizzabile, sostenendo che piuttosto sia una nozione da utilizzare per conoscere qualcosa di più degli elementi che la compongono (come la verità o la giustificazione).

La profusione con cui si lavora a questo problema dimostra il rivoluzionario apporto che ha avuto il contributo di Gettier. Il peso di quelle tre pagine, scritte quasi di malavoglia, si avverte in ogni pubblicazione accademica che si confronta sul problema. La lezione che ci ha insegnato Platone tanto tempo fa, il continuo mettere in dubbio le cose per poterle spiegare meglio, mai come ora suona adeguato. Come spesso accade in filosofia, la grandezza del lavoro di Gettier non consiste nell’aver risolto un determinato problema, bensì dall’averne fatti affiorare molteplici.

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