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Curiosità sulla vita degli antichi Romani

Published by
Maria Letizia Camparsi

Per raccontare la vita di una città italiana all’epoca degli antichi Romani, quale esempio migliore di Pompei, i cui resti, assieme a Ercolano, rappresentano un patrimonio ineguagliabile per il loro stato di conservazione? Gli edifici mantengono gran parte del loro aspetto originario perché sono rimasti seppelliti per secoli da uno strato di fango e lava, arrivati a fiumi durante l’eruzione del Vesuvio nel 79 d.C. Così, da quando è avvenuta la scoperta e sono cominciati gli scavi archeologici nel 1748, è diventato possibile capire come i Pompeiani vivessero nell’intimità delle loro case e osservare gli oggetti pervenuti fino a noi.

La condizione femminile

A differenza di altri diritti antichi, presso i Romani era norma che le donne partecipassero alla successione ereditaria del padre al pari dei figli maschi. Alcune tra le donne più benestanti, poi, avevano ville fuori città, o ricoprivano cariche sacerdotali pubbliche. Le donne ricche non erano solo aristocratiche, ma potevano essere anche delle liberte (ossia schiave liberate) arricchite. Nello specifico, a Pompei molte donne gestivano personalmente i patrimoni familiari e lavoravano, sia autonomamente sia come dipendenti. A onor del vero, il lavoro non era visto come un traguardo, ma una necessità a cui doveva piegarsi chi non poteva vivere dei propri beni. Inoltre, anche se non avevano il diritto di votare, le pompeiane seguivano la vita politica e partecipavano attivamente alle campagne elettorali, invitando i concittadini, anche con manifesti, a votare per l’uno o per l’altro candidato.

Particolare di un quadretto ritrovato a Pompei e raffigurante una ricca fanciulla romana.

Matrimonio

In età classica, le uniche condizioni che il diritto romano imponeva per sposarsi erano la cittadinanza romana e la maggiore età (fissata a dodici anni per le donne e quattordici per gli uomini), unite a una convivenza e all’intenzione di essere marito e moglie (maritalis affectio). Bastava che quest’ultima venisse meno per sciogliere il matrimonio. Così, spesso le unioni duravano per un periodo limitato di tempo e finivano con un divorzio, seguito poi da ulteriori matrimoni, specialmente nelle classi alte. Dall’altra parte, era costume solennizzare la nuova unione con una cerimonia, lunga dalla mattina alla sera. Al mattino si prendevano gli auspicii e si compivano i sacrifici; in seguito veniva offerto un banchetto in casa della sposa e, alla sera, questa veniva accompagnata nella casa del marito (in domum deductio), mentre gli amici dello sposo cantavano canzoni sulla sua virilità e gettavano sui due delle noci come augurio di fertilità.

L’abbigliamento

In casa, uomini e donne indossavano una tunica composta di due lunghi pezzi di lana cuciti insieme nella parte superiore, portati a diretto contatto con la pelle e fermati in vita da una cintura. La tunica maschile arrivava fino al polpaccio, quella femminile fino a sotto le caviglie. Le donne indossavano anche una tunica interior, ovvero una sottoveste, sotto o sopra alla quale annodavano una fascia pectoralis, un reggiseno, chiamato anche alla greca strophium taenia. Per uscire, gli uomini indossavano una toga di lana bianca pesante, che avvolgeva il braccio sinistro, così pieno di pieghe e difficile da indossare che i più ricchi avevano uno schiavo dedicato, il vestiplicus. Le donne, invece, indossavano la stola, un’ampia veste di lana lunga fino ai piedi e stretta da una cintura: variavano i colori delle stoffe e una serie di ornamenti e gioielli che abbellivano la figura femminile.

Alcuni dei gioielli ritrovati a Pompei.

Le elezioni e i manifesti elettorali

La popolazione di Pompei ha sempre partecipato attivamente alla vita politica della città. I candidati magistrati, nel periodo pre-elettorale, per essere riconosciuti indossavano una speciale toga bianca, detta candida. I cittadini discutevano animatamente della campagna elettorale in ogni luogo d’incontro e appositi manifesti invitavano a votare questo o quel candidato. Questi ultimi, chiamati programmata, consistevano in esortazioni scritte direttamente sui muri: motivo per cui si sono conservati arrivando fino a noi. Ogni abitante della città utilizzava una parte dei muri della sua casa o dell’edificio di cui poteva disporre, e le pareti venivano predisposte a questo scopo grazie a un’imbiancatura a calce. Il candidato, da parte sua, cercava di essere apprezzato da tutti, ponendo particolare attenzione alle relazioni con gli elettori: si serviva ad esempio di un apposito schiavo, detto nomenclator, che gli sussurrava il nome delle persone che incontrava e che lo salutavano.

Un graffito a sostegno di un candidato sul muro di una casa.

Il culto pubblico, il sacrificio cruento e il banchetto sacrificale

La religione romana ufficiale aveva un orientamento essenzialmente politico. Il sacerdozio era una carica pubblica e la vita religiosa, più che rapporto intimo tra il fedele e la divinità, era vista come un dovere del cittadino. Uno dei momenti più solenni del rito pubblico era il cosiddetto sacrificium. L’offerta più gradita era quella animale, consegnata agli dèi secondo una precisa procedura: si versava la mola salsa, una speciale mistura preparata dalle Vestali, sulla testa dell’animale o sul coltello con cui lo si uccideva, e poi si dividevano le carni. Le viscere venivano bruciate per offrirle agli dei, mentre la carne veniva distribuita ai partecipanti, destinando i pezzi migliori alle persone più prestigiose. Al banchetto, inoltre, queste ultime si sedevano al centro e gli altri a fianco, in ordine di importanza, cosicché il rito assunse un grande valore sociale, perché ricordava a ciascuno qual era il proprio posto.

I “pappagalli stradali”

Già nell’antica Roma poteva capitare di essere molestati per la strada, con proposte più o meno osé e più o meno ben accette. Le vittime non erano solamente le donne, ma anche i giovani praetextati, ovvero i ragazzi che indossavano una tunica bianca e bordata di porpora perché non avevano ancora la capacità politica. C’era chi seguiva in silenzio il malcapitato, chi gli bisbigliava complimenti e gli faceva offerte di vario genere e chi cercava di allontanare la “scorta” che lo accompagnava per strada. Questi comportamenti erano descritti già in un editto del II secolo a.C., che aveva costretto il pretore urbano di Roma a prendere provvedimenti a causa della loro frequenza. Vista l’identità della morale sessuale dei Romani e dei Pompeiani, confermata da alcuni graffiti, risulta quindi logico ritenere che ciò avvenisse spesso anche a Pompei.

La prostituzione

Per i Romani la prostituzione non solo non era un crimine, ma aveva anche un ruolo fondamentale per difendere l’ordine morale dei cittadini. Consentendo agli uomini questo tipo di libertà sessuale, infatti, garantiva che le donne cosiddette “oneste” (destinate alla procreazione legittima) restassero tali. Non si sa quale fosse il numero preciso di lupanari, ovvero le “case del piacere”, a Pompei, in quanto l’identificazione si è sempre basata su elementi non probanti, quali immagini o graffiti osceni. Tuttavia, è possibile identificare tre tipi di postriboli: il lupanare sorto con quello scopo sin dall’inizio e formato da stanzette e letti in muratura; quello allestito al primo piano di una casa o in una taverna; quello composto da un solo vano con letto in muratura (cella meretricia). Inoltre questi luoghi solitamente non erano collocati lungo le arterie della città, ma in vie secondarie o vicino a edifici termali.

La prostituzione avveniva sia in modo autonomo, proponendosi lungo strade e negli incroci detti trivia (donde la parola triviale), sia alle dipendenze di un lenone in osterie e bordelli. Le prostitute, chiamate al singolare lupa o scortum, erano riconoscibili dall’abbigliamento succinto, dal trucco abbondante e dal colore sgargiante dei capelli, spesso tinti di rosso o biondi. Attraverso i graffiti, inoltre, alcune di loro esprimevano apprezzamenti sui clienti e si facevano pubblicità, indicando specializzazioni e tariffario. Partecipavano alla vita religiosa cittadina, che prevedeva anche una festa in loro onore il 23 aprile, mentre il 25 dello stesso mese c’era quella dedicata ai colleghi di sesso maschile. Sì, anche gli uomini si prostituivano. E, presso i Romani, il fatto che due uomini avessero rapporti sessuali fra loro non era certo un problema di per sé. Quello che veniva disapprovato era il fatto che un uomo assumesse un ruolo sessualmente passivo.

Un affresco sulla parete di un lupanare.

Pompei, insomma, si profila come uno scrigno di cultura e un modello rimasto miracolosamente intatto, dove è possibile indagare la vita quotidiana e la struttura sociale di una città romana. Aggirandosi tra le vie, è possibile vedere molti oggetti e ornamenti che testimoniano la cultura e gli usi di quell’epoca, mentre alcuni calchi in gesso, presenti nelle abitazioni e raffiguranti i pompeiani periti nel tentativo di fuggire dall’eruzione, esprimono con forza tutta la disperazione di quella tragedia.

Calco in gesso di un pompeiano in fuga.
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Maria Letizia Camparsi

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