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Revenge: il perfetto mix tra splatter e femminismo

Published by
Elia Brocchini

«Le ragazze non sono abbastanza forti o intelligenti nemmeno per schiacciare un chicco d’uva durante una guerra col cibo!»

«Perché le donne sono sempre così pessime ad essere toste?»

«Le donne dovrebbero stare in cucina».

Questi sono solo tre dei commenti lasciati da alcuni utenti sotto al trailer ufficiale di Revenge, stessi commenti che saranno poi utilizzati per creare il secondo (e geniale) trailer del film. È quindi chiaro fin da subito che il film pubblicizzi sé stesso come un’opera femminista, cosa non inusuale ultimamente ma che non sempre centra l’obiettivo. Questo perché non basta avere una protagonista donna per rendere un film emancipatorio: ciò che è fondamentale è la rappresentazione che si offre delle figure femminili nel corso della narrazione. E Revenge riesce nel suo intento, grazie a delle scelte registiche decise ed efficaci.

Revenge: la rivisitazione di un genere

Revenge può essere inquadrato all’interno dei cosiddetti rape and revenge movies, ovvero quei film che hanno per protagonista una donna che viene stuprata e che passerà poi alla vendetta per punire i suoi aggressori. Anche in questo caso il canovaccio è lo stesso, e la trama vera e propria si svolge nel medesimo modo, tant’è che i personaggi presenti nel film sono solamente quattro: Jen (la protagonista) ed i suoi tre avversari, ovvero l’artefice dello stupro e i due complici, tra cui il fidanzato di Jen, che prenderà le difese dell’amico a discapito della ragazza. Vi sono tuttavia vari piccoli particolari, nel film, che lo rendono quasi unico nel suo genere, distanziandolo dai suoi predecessori. Innanzitutto, la protagonista non è la tipica brava ragazza acqua e sapone che viene stuprata da un gruppo di delinquenti. Jen ha una relazione con un uomo sposato, è consapevole che quest’ultimo faccia parte di un’organizzazione criminale e si trova a suo agio nello stare poco vestita, continuando a ballare e scherzare anche quando arrivano i due amici del fidanzato. Questo è importante ai fini della rappresentazione, perché porta in scena la tipica situazione per la quale troppo spesso sentiamo commenti come “se l’è cercata” nei confronti delle vittime di molestie o aggressioni.

Jennifer con il fidanzato, Richard, all’inizio del film.

Ed è infatti questa la motivazione che Stan, l’artefice dello stupro, darà a Jen una volta che si ritroveranno da soli in camera: «Iera sera ballavi con me, significa che mi volevi». E questo anche di fronte all’esplicito rifiuto da parte di lei. Non meno colpevole è Dimitri, il secondo amico di Richard, che si limita a chiudere la porta e ad alzare il volume del televisore, come se non sentire e non vedere l’atto dello stupro lo rendesse privo di qualsiasi responsabilità in merito. Il colpo di grazia sarà poi dato dallo stesso Richard, che giustificherà Stan dicendo a Jen che lei è «troppo bella», colpevolizzando così di nuovo la vittima. È in questo momento che Jen decide di fuggire, ed è qui che il film prende decisamente ritmo, facendo scattare un doppio inseguimento: i tre uomini cercano Jen per ucciderla definitivamente ed impedirle di parlare, mentre lei progetta di fare lo stesso con loro. I predatori (non a caso in inglese gli stupratori vengono anche chiamati predators, come gli animali) diventano al tempo stesso prede. La trama si svolge fondamentalmente tutta intorno a questo scontro tra i due poli, maschile e femminile, ma riesce tuttavia ad inserire dei dettagli che, se si presta attenzione, torneranno poi utili per comprendere lo svolgersi di azioni successive.

Un altro elemento interessante del film è il modo in cui viene gestita la trasformazione di Jen, nel momento in cui lei decide di percorrere la strada della vendetta. Molto spesso al cinema, per mostrare il cambiamento di una donna verso un atteggiamento più autoritario, tosto o professionale, avviene ciò che si definisce “mascolinizzazione del personaggio”. In parole povere, la donna va ad abbandonare tutte quelle caratteristiche universalmente riconosciute come femminili, come ad esempio il trucco, oppure degli abiti che mettano troppo in mostra le proprie forme, in favore di elementi più tipicamente maschili, come i capelli corti o un utilizzo di colori non troppo sgargianti. Il problema di questo tipo di rappresentazione è che trasmette un messaggio sbagliato, ovvero che una donna per migliorarsi o essere presa sul serio debba sembrare un uomo, lasciando da parte le cose “da femmina”. In questo caso, invece, Jen mantiene in toto la sua femminilità e, come una moderna Lara Croft, combatte con lo stesso tipo di abbigliamento che era solita portare prima: pantaloncini e top molto succinti che mettono in mostra le sue forme.

La nuova Jen sarà principalmente caratterizzata da due simboli: da una parte l’aquila che le rimane tatuata sull’addome, emblema della forza e soprattutto della libertà ritrovata dalla ragazza, e dall’altra l’orecchino rosa a forma di stella che porta da prima dello stupro, a simboleggiare un legame che rimane vivo con la “vecchia” Jen e il suo spirito più femminile. Da notare come durante tutto il film il corpo della protagonista non venga mai oggettivato, in quanto è lei stessa a volerlo mettere in mostra. L’unico momento nel quale sembra vergognarsi della sua nudità è proprio quando si accorge che Stan la sta spiando contro la sua volontà, dimostrando che ciò che fa la differenza non è il corpo più o meno vestito ma il modo in cui lo si guarda. Inoltre, sempre parlando di nudità, è interessante vedere come durante il film siano ben più presenti scene di nudo totale maschile rispetto a quello femminile, tanto che nel combattimento finale tra Jen e Richard quest’ultimo sarà completamente nudo. Una scelta coraggiosa, poiché sappiamo che nel mondo del cinema il nudo maschile continua ad essere un tabù – al contrario di quello femminile, ormai completamente sdoganato.

La nuova Jen pronta per la vendetta.

Non solo azione ma anche cura della parte tecnica

Spesso ciò che accade in questo tipo di film è che la parte action vada a sovrastare tutto il resto, dimenticando o prestando poca attenzione ai dettagli più tecnici come la fotografia, il montaggio o la scenografia. In questo caso, invece, le due parti riescono a convivere in un perfetto equilibrio. Da una parte l’azione non manca e, se siete amanti del sangue, non rimarrete delusi dai fiumi che scorreranno. Revenge mantiene infatti la sua identità da B-movie grazie a contenuti spiccatamente splatter e che strizzano l’occhio ai fan del genere, avendo però cura anche del reparto tecnico. L’estetica del film è davvero ben studiata ed avvolgente. I colori sono caldi ed accesi, perfetti per descrivere la località nella quale si svolge la quasi totalità del film, ovvero il deserto. Ma anche la casa di Richard, nella sua semplicità, viene ben caratterizzata grazie ad un arredamento  dal gusto quasi pop-art e due vetrate, una blu ed una rosa, che richiamano lo scontro tra i due sessi che si svolgerà nel corso del film. Non da meno è il montaggio che sembra riprendere le teorie di Ėjzenštejn sul cosiddetto montaggio delle attrazioni, ovvero un montaggio mirato a produrre una certa emozione nello spettatore, anche a costo di rompere la linearità della narrazione. Ed è quello che vediamo un paio di volte nel film, quando Jen sta puntando col fucile il suo aggressore e ci vengono mostrate immagini di iguane o altri animali, totalmente estranei alla narrazione in atto ma che servono per dare l’idea di viscidume ed animalità del personaggio tramite l’accostamento delle figure. Il montaggio, la regia ed in generale la parte estetica sono fondamentali in un film come questo che riduce al minimo i dialoghi, puntando tutto sull’azione. In sostanza, Revenge è un film che può essere apprezzato da un pubblico variegato. Perfetto se cercate un film all’insegna del sangue e dell’azione, ma anche capace di produrre spunti di riflessione su temi purtroppo quotidiani e su stereotipi che sentiamo fin troppo spesso anche nella vita di tutti i giorni.

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Elia Brocchini

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