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theWise incontra Marco Omizzolo, contro caporalato e mafie agricole

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Michele Maestroni

Marco Omizzolo è un sociologo, ricercatore EURISPES e responsabile scientifico della cooperativa In Migrazione, oltre a essere un giornalista che si occupa, tra i vari temi, di sfruttamento lavorativo, tratta internazionale e caporalato in relazione alle migrazioni. Riguardo a questi argomenti, ha scritto e analizzato in modo specifico la situazione della provincia di Latina e dello sfruttamento delle comunità sikh. Inoltre, è autore di Il sistema criminale degli indiani punjabi in provincia di Latina e La Quinta Mafia (Radici Future Editore).

La sua guerra contro il caporalato e le agromafie l’ha portato a essere una delle maggiori personalità di riferimento contro la lotta allo sfruttamento dei lavoratori nelle campagne. Nonostante sia stato minacciato più volte da chi non digerisce le sue denunce, Omizzolo non si è mai sottratto al suo impegno civile, anzi, continua a mettere a rischio la sua incolumità per raccontare quegli inferni che si nascondo dentro le nostre campagne.

Il caporalato è un sistema di sfruttamento strutturato, ma come e dove? Com’è presente in Italia e in che zone del nostro Paese?

«Partiamo innanzitutto dal dove. Il caporalato è una forma di intermediazione illecita che denota generalmente la presenza sia di mafie che di un mercato del lavoro gestito a livello informale. È diffuso su tutto il territorio nazionale con modalità e intensità diverse – nel Meridione, nelle regioni a tradizionale presenza mafiosa, il fenomeno è più organizzato e più evidente, ma studi EURISPES attestano forme di caporalato anche in regioni come Toscana, Lombardia, Veneto».

E come avviene lo sfruttamento? Qual è la struttura di questo sistema?

«I soggetti protagonisti nel caporalato sono tre. Il lavoratore o la lavoratrice sfruttati; il caporale (generalmente, ma non sempre, è un migrante) che recluta lavoratori e lavoratrici da impiegare nelle aziende del datore di lavoro alle condizioni economiche e lavorative decise da quest’ultimo; infine, appunto, il datore di lavoro, che è generalmente un imprenditore agricolo che ha aziende di piccole, medie e a volte anche grandi dimensioni che producono ortofrutta e lo distribuiscono in mercati non solo locali ma anche internazionali, arrivando a commerciare con i maggiori Paesi europei. Non posso fare nomi, ma ci sono processi aperti con grandi aziende direttamente coinvolte in reati di sfruttamento lavorativo e caporalato».

I campi agricoli come scenari dello sfruttamento lavorativo.

Ha menzionato la mafia. Qual è la natura dei rapporti tra il caporalato e le associazioni mafiose?

«Come ho detto prima, il caporalato è un reato-spia della presenza mafiosa. In alcuni specifici casi, il legame si rovescia e il caporalato porta alla nascita di forme di criminalità organizzata che fanno riferimento a mafie straniere: il caporale diventa un piccolo boss che riesce a gestire la propria comunità di lavoratori attraverso le modalità tipiche dell’agire mafioso. Alcune aziende agricole sono interessate dalle mafie, cioè utilizzano capitale mafioso o hanno al vertice un soggetto mafioso che da sempre utilizza l’azienda per il riciclaggio di denaro sporco, integrandosi a pieno nel sistema agricolo. È uno scenario che riguarda tutte le realtà di criminalità organizzata: la camorra, la ‘ndrangheta, la Sacra Corona Unita. L’ultimo rapporto Eurispes sulle agromafie parla di un giro d’affari di 21,8 miliardi di euro».

Davanti a un simile fatturato, viene da pensare che siano pochissime le realtà aziendali fuori da questo sistema.

«Diciamo che tutta la realtà agricola risente dell’influenza negative delle agromafie. Anche le aziende virtuose subiscono la concorrenza sleale di quelle che utilizzano denaro mafioso, perché queste ultime condizionano il prezzo del prodotto, arrivano prima sul mercato, hanno un costo del lavoro inferiore, eccetera. Quindi anche l’azienda virtuosa, volente o nolente, seppur in modo indiretto, risente della presenza della criminalità organizzata all’interno del sistema».

Oltre agli scioperi dei lavoratori sfruttati e ai tentativi di sensibilizzazione pubblica, come viene combattuto questo mostro?

«La legge più importante è in vigore dal novembre del 2016 è la 199, è una legge contro il caporalato che emerge dopo lo sciopero dei braccianti sikh in provincia di Latina e la morte della bracciante italiana Paola Clemente. È molto importante perché prevede l’arresto del datore di lavoro che sfrutta e il sequestro di tutti i suoi beni utili allo sfruttamento. Una legge da sola non basta, sono necessari altri provvedimenti: una legge contro l’agropirateria, una riforma del processo penale, norme che tutelano di più il bracciante che denuncia l’azienda presso cui è sfruttato e i testimoni di questi crimini».

So che ha vissuto come bracciante infiltrato in una realtà di caporalato nelle campagne pontine. Chi è lo sfruttato e come vive?

«A precipitare nei gorghi del caporalato sono soprattutto uomini e donne socialmente fragili, ed è evidente che i migranti in generale, in questo Paese e in questa fase storica, sono particolarmente esposti in questo senso, senza però dimenticare che nelle nostre campagne vivono anche cittadini italiani ugualmente vittime di caporalato e sfruttamento lavorativo. Quello che si vede e si prova come bracciante sfruttato è la sottrazione della propria dignità: le persone sono costrette a lavorare 14 ore al giorno, tutti i giorni del mese, per un euro e mezzo all’ora (quindi non più di trecento euro mensili), in condizioni di intimidazione quotidiana e subordinazione. Una vera e propria condizione di schiavitù. Sono 100.000 le persone in Italia che sono ridotte a schiave nei lavori agricoli».

Sono realtà barbare che avremmo dovuto relegare al passato ma che purtroppo sono esistenti ancora oggi.

«Sì, perché abbiamo promulgato una serie di riforme e leggi che è andata a indebolire il mercato del lavoro e i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici, mentre hanno rafforzato quei sistemi informali che oggi dominano molte campagne. Non facciamo più controlli e ispezioni adeguate, la legge Bossi-Fini indebolisce molto la capacità di denuncia del lavoratore… Tutto questo ha riprodotto e fatto riemergere il cancro dello sfruttamento lavorativo. Un dossier della Flai Cgil afferma che in Italia ci sono 430.000 lavoratori agricoli soggetti a lavoro nero e vittime di caporalato».

La protesta in piazza dei braccianti sikh.

Il governo attuale come sta affrontando tutto questo?
«Le prime parole di questo governo sul tema hanno affermato la volontà di riformare la legge 199, prendendo così la direzione opposta all’auspicabile, e questo è grave. In più, le dichiarazioni del governo durante la strage di braccianti di quest’estate non sono state dichiarazioni di denuncia di questo sistema criminale. C’è ancora troppa ambiguità, troppa timidezza».

Ha parlato di mafie internazionali, quindi è presumibile che il fenomeno di cui abbiamo parlato fino adesso non riguardi solamente l’Italia ma anche, come minimo, il resto d’Europa. Questa situazione viene fronteggiata dall’Unione Europea e/o da enti sovranazionali?

«Purtroppo no. A livello europeo il tema è sottovalutato, mentre bisognerebbe portare avanti una grande azione collettiva, politica e mediatica, per contrastare questa realtà criminale. Io sono convinto che un’azione combinata innanzitutto delle Regioni, e poi dei governi nazionali e dell’Europa intera sia fondamentale.
Volevo aggiungere che il 9 settembre, io, insieme a tutta la cooperativa In Migrazione di cui faccio parte, la Flai Cgil e la Cgil a livello nazionale, organizzeremo una grande manifestazione vicino a Terracina, in provincia di Latina, contro il razzismo e lo sfruttamento. Si uniranno a noi migliaia di braccianti da tutta Italia: lo scopo è denunciare, per l’appunto, lo sfruttamento, difendere la legge 199 e ricordare a questo governo che l’unica strada percorribile è quella del rafforzamento delle tutele, non del cambiamento o della modifica di esse».

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Michele Maestroni

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