Italiani, popolo di eroi, di santi, di poeti, di artisti, di navigatori, di colonizzatori e di trasmigratori ma anche di corrotti e di corruttori. Precisiamolo subito, nessuno sta dicendo che l’Italia sia composta unicamente da corrotti né tantomeno che l’italiano medio sia un corruttore. L’essenza del discorso è che la storia d’amore fra il Bel Paese e la corruzione è di vecchia data e, attualmente, pare godere di ottima salute. Un malcostume, questo, che è oggettivamente e obiettivamente sotto gli occhi di tutti, se non bastassero le classifiche nazionali e internazionali diffuse a cadenza regolare (prima fra tutte quella promulgata regolarmente da Transparency International) dove l’Italia rasenta il fondo delle classifiche rispetto alle altre nazioni europee, basti pensare ai fatti di cronaca più o meno recenti: Mafia Capitale, Mose o, per i più nostalgici, Tangentopoli. La politica, o meglio il legislatore, ha tentato più volte di mettere un punto definitivo a questo idillio d’amore intervenendo più volte nell’arco di pochi anni. Oggi, con l’approvazione del disegno di legge che prende il nome di “Spazza corrotti”, si ripropone di farlo nuovamente e definitivamente. Nonostante i costanti miglioramenti avvenuti negli ultimi anni, il “nemico” da abbattere è particolarmente ostico perché espressione massima di un egoismo personale di salvaguardia dei propri interessi a discapito del bene superiore, quello pubblico. Proprio per questo l’obiettivo che si pone il disegno di legge contro la corruzione, di cui l’altisonanza del nome fa seguito al recente Decreto dignità, si dimostra particolarmente ambizioso.
L’attuale impianto normativo e le recenti riforme
In linea generale, per comprendere meglio la tematica che ci coinvolgerà nelle prossime righe appare utile delineare i confini generali del reato di corruzione previsto dall’articolo 9 318 del codice penale. In poche semplici parole possiamo dire che si ha corruzione ogni volta che un privato e un pubblico funzionario si accordano affinché il primo corrisponda un compenso al secondo per un atto facente parte delle funzioni esercitate da quest’ultimo. Entrambe le condotte, lesive del pubblico interesse e del buon andamento della Pubblica Amministrazione, vengono perseguite e sono assoggettate alla medesima sanzione.
Entrando, ora, nel dettaglio della normativa vigente, possiamo affermare che un primo tentativo di dotare il sistema giuridico italiano di una legge globale sulla corruzione, che non si limitasse dunque a meri precetti penali, deve ricercarsi nella riforma del 2012 che oltre a rilevanti modifiche all’apparato repressivo apportava diverse novità sul piano preventivo. Viene introdotto il reato di traffico di influenze illecite andando a sanzionare, nel caso di mancato accordo corruttivo, colui che ha messo in contatto le due parti che potremmo definire come un vero e proprio intermediario. Nella medesima riforma venivano, poi, modificati gli edittali delle pene previste e novellato l’art. 318 c.p. eliminando il riferimento normativo agli “atti” compiuti dal pubblico ufficiale all’esercizio di “funzioni e poteri”. Scopo di tale modifica era quello di assoggettare al reato di corruzione anche quelle ipotesi improprie dove oggetto della stessa non era uno specifico atto ma un generico assoggettamento al corruttore.
La riforma del 2012, tuttavia, ha subito diverse critiche mosse nei confronti della riduzione delle pene, che si traduceva in una più breve prescrizione e, soprattutto, della riformulazione dell’art. 318 c.p. che aveva destato non pochi problemi applicativi per la distinzione fra atti contrari ai doveri d’ufficio ed esercizio delle funzioni che risultavano riconducibili a sanzioni differenti. La Giurisprudenza, considerando ben più grave la mercificazione delle pubbliche funzioni nelle mani dei corruttori, era arrivata a ricollegare tutte queste ipotesi di corruzione nell’art. 319 c.p. le cui pene risultavano oggettivamente più severe. In questo clima un’ulteriore riforma, quella avvenuta nel 2015, è stata un atto praticamente dovuto. Con quest’ultima riforma il legislatore ha riscritto entrambi gli articoli, il 318 ed il 319 c.p., eliminando qualsiasi riferimento all'”atto”. Nella prima ipotesi, dunque, la funzione della pubblica amministrazione serve il privato in cambio di denaro o di un’altra utilità mentre, nella più grave previsione dell’art. 319 c.p., il pubblico ufficiale agisce contro il dovere di imparzialità e correttezza prescritto dalla Costituzione agendo, quindi, contrariamente ai propri doveri al servizio del corruttore. Vengono modificate anche le sanzioni aumentando tanto le pene minime, evitando così il ricorso a sconti della pena, quanto le massime contrastando il noto problema della prescrizione e parimente viene innalzata a 5 anni, rispetto ai 3 precedenti, la pena accessoria dell’incapacità di contrarre con la Pubblica Amministrazione.
Il disegno di legge “Spazza corrotti”
Chiarito dunque l’humus oggetto della futura riforma tentiamo, per quanto possibile, di analizzare i campi d’azione del disegno di legge preannunciato da una lettera aperta “ai corrotti” da parte del ministro del lavoro e da una conferenza stampa dell’attuale Presidente del Consiglio. I punti conosciuti, infatti, non sono l’intero disegno di legge che, allo stato dei fatti, non è stato pubblicato interamente. Partendo da quello che, nel diritto penale, funge da protagonista, si prospetta l’aumento delle pene nel minimo da 1 a 3 anni e nel massimo edittale da 6 a 8 anni di reclusione. Si prospetta inoltre la soppressione dell’attuale reato di millantato credito che verrà, a seguito della riforma, ricompreso nel più aspro reato del traffico di influenze. Nella pratica, dunque, chi prometterà di essere in grado di influenzare un pubblico ufficiale verrà punito, indipendentemente dall’esistenza o meno delle relazioni con quest’ultimo, ai sensi dell’ipotesi più grave prevista dall’attuale art. 346 c.p..
Uno dei punti su cui il Governo fa maggior affidamento, nel senso propagandistico del termine, è quello di prevedere la possibilità di utilizzare agenti sotto copertura nei reati di corruzione. In particolare la figura a cui si fa riferimento è quella dell’agente provocatore, ossia una persona che inciterà i sospettati a commettere il reato al solo fine di documentarlo e, successivamente, permetterne la punizione. Sullo stesso piano ma, con forti connotazioni critiche, si pone il c.d. daspo, cioè la pena accessoria dell’incapacità di contrarre con la Pubblica Amministrazione. Istituto, invero, già esistente nell’attuale normativa che verrà però aumentato da 5 a 7 anni per chi è condannato ad una pena inferiore ai 2 anni mentre, nei casi in cui la pena sia superiore, questa pena diventa a vita. Questo è uno dei punti che, giustamente, ha creato più scompiglio e discussione e ciò in quanto appare in netto contrasto con i dettami costituzionali del fine ultimo della pena. Nel nostro ordinamento, infatti, la sanzione penale non ha quale scopo quello punitivo ma, invece, quello riabilitativo e l’erogazione di una pena a vita, quindi, non consente l’espletamento di tale funzione essendo unicamente diretta a punire il colpevole. In casi simili, come l’ergastolo o il regime carcerario duro nei delitti di mafia, vi sono appositi istituti come la libertà condizionale o la collaborazione di giustizia che mitigano la perpetuità della pena. Nel caso in esame non compare, allo stato dei fatti, alcuna previsione in merito. Un ulteriore aggravio, sempre sotto un’ottica strettamente punitiva, riguarda la confisca dei beni che costituiscono il profitto o il prezzo del reato. La modifica proposta riguarda l’art. 322 c.p. e dovrebbe prevedere che la confisca, in caso di già avvenuta condanna in primo grado, sopravviva ad un eventuale estinzione del reato dovuta ad amnistia o prescrizione.
Al contrario, da un lato premiale, vengono proposti una serie di sconti di pena e clausole di non punibilità incitando e premiando, così, la possibilità di pentirsi. All’uopo viene infatti previsto uno sconto della pena per chi, entro sei mesi dal reato e prima che questo sia oggetto d’indagine, collabori con la giustizia restituendone il provente e fornendo informazioni utili alle indagini. Allo stesso livello si pone una causa di non punibilità per chi denuncia e fornisce informazioni utili ad assicurare alla giustizia la prova del reato ed eventuali responsabili. Il disegno approvato dal Consiglio dei Ministri si conclude con una serie di norme inerenti la trasparenza nei i partiti politici di cui l’estrinsecazione più rilevante riguarda l’eliminazione della possibilità di anonimato per chi fa donazioni a partiti, fondazioni ed altri organismi politici. Obiettivo di tali manovre sarà dunque assicurare la tracciabilità dei finanziamenti nella politica al fine di prevenire, anche qui, ipotesi di corruzione.
L’adozione di un provvedimento del genere era nell’aria già da prima della “conquista” di Palazzo Chigi da parte del M5S, posto che la linea giustizionalista ha da sempre connotato idee e propaganda di questo partito politico. Il disegno, così come presentato, appare diretto in maniera univoca ad assicurare una maggior repressione o, meglio, un tentativo di estirpare la malerba costituita da un crimine così profondamente radicato nel tessuto sociale italiano. Il principale problema, tuttavia, appare già chiaro dalla semplice analisi dello stesso disegno che, successivamente alla sua prima approvazione, ha suscitato profonde critiche dalle opposizioni e da parte della stessa maggioranza ma che è stato accolto di buon viso dalla magistratura che si vede, di fatto, attribuiti nuovi poteri e potenzialità. L’agente provocatore, figura già prevista da normativa europea piuttosto datata, in Italia ha trovato applicazione in ambiti molto ristretti come le indagini per mafia o per terrorismo. Il suo uso sporadico, come è facilmente immaginabile, è collegato a dubbi etici e morali su una figura che spinge altri soggetti, unicamente sospettati, a delinquere. Per quanto riguarda invece il famoso daspo, come già ampiamente spiegato, esso friziona con i principi costituzionali della funzione riabilitativa del reo. Alla luce di questi punti è possibile affermare, con certezza oggettiva, che il disegno di legge verrà profondamente mitigato e modificato dal Parlamento cui spetterà il prossimo vaglio prima di divenire, effettivamente, legge.