Guccini non ha la compostezza di De André, l’allegrezza latina di Battisti, l’ermetismo di De Gregori, l’esoterismo di Battiato o l’inventiva funambolica di Paolo Conte. Tuttavia, anche nella produzione del noto cantautore di Pavana possiamo rintracciare un elemento dominante: sua cifra peculiare è il “cantato colloquiale”. Per “cantato colloquiale” intendiamo espressioni o costruzioni sintattiche, anche gergali o di derivazione dialettale, appartenenti al registro quotidiano informale e colloquiale.
Ecco alcuni esempi:
Anche in questo breve elenco si può notare una ricorrenza di alcuni termini: tutte le possibili declinazioni di «coglione» e «tiramento», cioè il tiramento di culo, per i non bolognesi la bizza, il capriccio, il moto di stizza che porta a rispondere sgarbatamente senza motivo. Alcune espressioni sono di derivazione dialettale: «culodritto», che nel dialetto modenese-reggiano significa ‘persona testarda e risoluta’, usato affettuosamente per indicare quei bambini buffamente impettiti e tignosi (non a caso la canzone è dedicata alla figlia Teresa); «busona», in bolognese ‘prostituta’, ma con una connotazione benevola e godereccia; «alla boia d’un Giuda», curiosa locuzione bolognese che è l’equivalente di ‘alla come viene’ e ‘alla carlona’; il già citato «tiramento» e «via andare», formula gergale quasi intraducibile che si potrebbe rendere con ‘…e avanti così’ e simili. Altre contengono costruzioni tipiche del parlato: «cosa vuoi che ti dica», «…cosa mi frega», «…o giù di lì», «…dimmelo un po’ tu», «…roba da mangiare». Altre ancora, la maggioranza, sono esplicitamente volgari. Al di là delle singole espressioni, ampliando lo sguardo, vi sono intere canzoni ascrivibili al registro colloquiale: Eskimo, che si annuncia subito tale con quel «giù di lì» o Vedi cara, che deve il suo tono informale e intimo all’uso della seconda persona singolare e alla sua forma dialogica orfana dell’immaginaria interlocutrice. Non vi è in Guccini la ricerca del termine aulico, dell’accostamento misteriosofico, si predilige l’immediatezza, la concretezza di suono e concetto.
A questa semplicità nella scelta delle parole, Guccini affianca però una grande raffinatezza metrica e ritmica. Si consideri il seguente esempio tratto dalla canzone Asia:
«Terra di meraviglie, terra di grazie e mali
di mitici animali da “bestiari”.
Arriva dai santuari fin sopra all’alta plancia
il fumo della ganja e dell’incenso.
E quel profumo intenso, è rotta di gabbiani:
segno di vani simboli divini.
E gli uccelli marini additano col volo
la strada del Katai per Marco Polo».
Oltre a una chiusura sognante tra le più belle della musica italiana, qui Guccini dà prova di grande capacità compositiva: nell’ultima strofa, un susseguirsi di rime interne concatenate che si conclude con un distico a rima baciata, l’alessandrino si alterna all’endecasillabo, dando vita a una strofa fluida ma granitica, dalla metrica inscalfibile. Questa è l’unica canzone di Guccini che potremmo azzardare definire poesia.
Oltre al linguaggio, la dimensione colloquiale di Guccini emerge anche da altri due fattori. Il primo è la voce, che col passare degli anni è divenuta sempre più arrochita e borbottante. Questa voce così musicalmente ineducata, incapace di virtuosismi vocali o di grandi estensioni, seppure non sgradevole e molto espressiva, immerge l’ascoltatore in una dimensione familiar-popolare fatta di erre strascinate, ammiccamenti sonori dialettali e forestierismi maccheronici. Almeno per un’emiliano, è come sentire cantare un amico, un padre, un vicino di casa. Il secondo fattore è costituito dai temi trattati. Quando Guccini non è autobiografico (e si tratta comunque di un’autobiografismo mai fine a sé stesso e in costante relazione coi contesti storico, sociale, urbano-sentimentale delle canzoni), tratta argomenti o stati d’animo universali, collettivi, che non possono non produrre nell’ascoltatore il manifestarsi di una certa prossimità emotiva, di un coinvolgimento passionale. Si consideri il seguente passo de La Locomotiva:
«e sembra dire ai contadini curvi
il fischio che si spande in aria:
Fratello, non temere, che corro al mio dovere!
Trionfi la giustizia proletaria!»
In questi versi poche immagini bastano a riassumere un intero periodo storico e a far sorgere nell’ascoltatore un moto rivoluzionario di universale fratellanza.
Dunque un cantato colloquiale, ma mai dozzinale, che porta in sé il sapore agro dell’«uva rubata al filare» e segnala un certo gusto per il contrasto, inserito all’interno di composizioni dalla struttura metrica-ritmica elaborata, in cui è evidente il labor limae. Quello di Guccini si rivela un cantare delle radici (da «contadino inurbato»), personali e storiche, evidente nella variazioni lessicali diastratiche e diatopiche e nel delinearsi di una certa inclinazione alla malinconia, che intesse con l’«ipocrita uditore» un’affinità emotiva basata sullo struggimento (anche se non si può certo dire che quella di Guccini sia una poetica “delle rovine”: in Non Bisognerebbe si fuga ogni retorica passatista). La malinconia è intimamente legata alla lentezza, la lentezza alla scoperta di sé, la scoperta di sé alla consapevolezza, e la consapevolezza spesso al dolore. Forse è questa la vera dimensione del cantato gucciniano. Il dolore che porta consapevolezza. E il dolore non lo si agghinda con parole forbite.
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