La storia del cinema giapponese ha sempre dato un’attenzione particolare al dramma familiare, rappresentato massimamente dal cinema di Yasujiro Ozu (1903-1963). Così anche un certo approccio delicato, un tono sommesso, attento alla sfumatura, è diventato presto un carattere riconoscibile della produzione artistica di questo paese. Hirokazu Kore’eda si inserisce in questo ricco filone nazionale. Come Ozu articola un doppio interesse: attraverso lo sguardo empatico nel privato di un nucleo familiare e delle sue interne dinamiche relazionali, riflette le più ampie problematiche dello sfondo sociale contemporaneo. Il prolifico regista è un habitué dei festival: vinse già l’Osella d’oro per la miglior regia alla Mostra del Cinema di Venezia con il suo lungometraggio d’esordio Maborosi (1995), anche il secondo After Life (1998) vinse premi in più festival internazionali (tra cui quello di Torino), e così ancora avrebbe continuato con una filmografia ben apprezzata fino al recente Ritratto di una famiglia in tempesta (2016). Tuttavia è Shoplifters (tradotto in Italia con Un affare di famiglia) a fargli vincere la sua prima Palma d’Oro al Festival di Cannes 2018. Il film infatti si erge tra i più notevoli di Kore’eda, unendo i ritratti di profonda umanità presenti in modo estensivo su tutta la sua filmografia, ad un’attenzione al controverso morale che in verità è più diffuso nella sua prima produzione (Nessuno lo sa, Distance).
Koreeda cesella uno sfaccettato riquadro umano
Koreeda in Shoplifters si spinge più profondamente nei lacci allentati e nelle zone grigie della modernità, dove notoriamente concetti come «famiglia naturale» hanno perso di incontestabilità per una più ampia considerazione dei ruoli genitoriali, per esempio, come dei ruoli di genere e di cosa sia al fondamento del nucleo familiare, se un legame biologico o una “verità degli affetti”. La famiglia di Shoplifters è peculiarmente anticonvenzionale: lo stesso spazio domestico è diviso da una donna anziana che gode di una pensione regolare, Hatsue (Kirin Kiki) una coppia adulta, Osamu (Lily Franky) e Nobuyo (Sakura Ando), una donna giovane, Sayaka (Mayu Matsuoka) e Shota (Kairi Jo), un ragazzino di undici anni, preso in cura da Osamu e Nobuyo dopo un incontro accidentale, dove Shota vagava abbandonato a sé stesso. Sin dalle prime scene si aggiunge un nuovo componente, la piccola Yuri (Miyu Sasaki), una bambina di cinque anni a sua volta abbandonata e raccolta da questa famiglia. Nessuno di questi individui dunque è legato da un legame di sangue: l’edificazione di questo focolare familiare segue altre vie rispetto al sentiero battuto dalla maggioranza, vie di scelta autonoma da parte dei singoli personaggi di far parte di esso e che eludono molti dogmi e istituzioni. Koreeda riprende un calore affettivo di famiglie di altre opere, come Still Walking (2008) o Little Sister (2015), più tradizionali seppure già rappresentanti le nuove problematiche del moderno, ed estende un palpabile e genuino sentimento anche qui, nella famiglia più moderna di tutte fino ad ora. A far da collante infatti dei singoli membri vi è tanto un reticolato di interessi egoistici quanto un sincero affetto che sarà per tutti i personaggi sorgente di solidi legami più che quelli di derivazione biologica. L’interesse egoistico è in primo luogo nello stesso atto di affrancamento da alcune aspettative sociali per, appunto, una ridefinizione più libera di sé e delle proprie relazioni, da cui il nucleo familiare composito come effetto. Non si tratta di un’azione dichiarata, persino militante, di opposizione al precostituito sociale e alle sue norme, quanto più di un ritaglio silenzioso, furtivo e in alcuni punti clandestino, dove semplicemente si costruisce una vita eludendo l’occhio vigilante delle istituzioni, non in battaglia aperta. Si tratta di un atto di autoconservazione a percorso libero, dove la famiglia scelta è anche il gruppo di persone incontrato nel proprio cammino, quello che riesce a dare calore affettivo nell’ambiente circostante, e in cui si sceglie di rimanere evitando limitazioni astratte e imposte dall’alto. Tutto ciò si adegua d’altronde al titolo originale, Manbiki kazoku, che significa letteralmente “famiglia di taccheggiatori”. Tutti i componenti, infatti, chi più chi meno, compiono regolarmente atti di furto per arrotondare le proprie entrate, perlopiù nei supermercati e nei negozi, con la blanda e sgangherata autogiustificazione che se il materiale esposto non è stato comprato, formalmente non è di nessuno e dunque è potenzialmente di tutti. Anch’essa è più una risposta d’adattamento alla situazione contingente che una posizione consapevole e ferma. In questo atto di sottrazione libertaria entra in circolo anche un fatto di nomi: la ri-definizione si evince anche nel rinominare i più piccoli, con i loro dati anagrafici di provenienza pur esistenti, con nomi scelti da questa famiglia, quindi Shota per il piccolo e Aki, poi, per la bambina, una volta che è davvero intimamente assemblata all’organismo familiare in questione. La donna giovane, che si chiama a sua volta Aki, durante il lavoro in un locale di striptease si fa chiamare Sayaka e questo nome d’altronde le rimane anche nel privato. A padri e madri preesistenti, ancora, Osamu e Nobuyo si propongono come nuovi padri e madri, tanto da incitare – specialmente Osamu – i piccoli a chiamarli così, cercando dunque di coprire quel ruolo affettivo che si attribuisce alle figure genitoriali. Koreeda marca la relatività del dato biologico per i ruoli genitoriali, mostrando in contrapposizione due famiglie, anche agiate economicamente, legate biologicamente ad alcuni personaggi. Una è quella della piccola Yuri, entro cui il “vero” padre e la “vera” madre non sono in grado di crescere in modo sano la propria bambina: vi sono infatti problemi di violenza domestica, dunque non riescono neanche a offrire un comune calore affettivo che si attenderebbe da loro. Yuri, lontana da loro ritrova la serenità e protezione da Nobuyo e gli altri membri del nucleo familiare invece acquisito, mentre un ritorno alla norma, la famiglia di origine, significherebbe un ritorno non effettivamente salutare per la bambina. Un’altra famiglia biologica mostrata è quella a cui è legata formalmente Hatsue, la nonna: quest’ultima è vedova, e il marito defunto aveva un figlio da un precedente matrimonio, il quale poi ha avuto a sua volta due figli dalla moglie. Qui i legami ancora ibridi tra biologico e acquisito sono comunque attraversati da un freddo calcolo e formalità, spogli di un’affettività sincera, e dove le visite periodiche di Hatsue sono a interesse economico, mascherato dal rinnovamento del ricordo del defunto, atto in verità pretestuoso per riscuotere un denaro dal figliastro fatto passare agli altri personaggi ignari come “pensione”. Il confronto in atto è anche economico: questa famiglia di taccheggiatori è il risultato di un altro fattore, cioè lo svantaggio sociale. Koreeda non tratta semplicisticamente e moralisticamente la questione del furto, preferendovi ancora la considerazione a trecentosessanta gradi. Al di là dell’accenno di inquadramento del furto da parte dei personaggi già presentato prima, l’atto del rubare è un espediente-limite di una situazione molto precaria, che riflette il fragile equilibrio del nucleo familiare protagonista. Osamu, Nobuyo e gli altri sono infossati nel mondo del precariato. In questo Koreeda si riattacca d’altronde alla sensibilità realistica di un’altra ala di cinema giapponese, al di là dell’area del dramma familiare, che guarda alle classi sociali più basse, ritraendo di nuovo empaticamente il groviglio di problemi, asperità che si porta dietro. L’approccio umano, ma fondamentalmente disincantato qui presente è una peculiarità rispetto ad altre recenti opere del cineasta giapponese. Il furto rientra in un quadro più ampio di considerazione della precarietà del lavoro. Non potendo né in fondo volendo aspirare alle professioni riservate al ceto borghese, ognuno dei personaggi cerca di sbarcare il lunario con lavoretti colmi di insidie, dagli infortuni sul lavoro nel caso di Osamu, ad esempio, alle condizioni non ottimale e ai tagli al personale nel caso dell’ambiente lavorativo di Nobuyo. A ciò si aggiungono inoltre alcune attività sull’orlo del fallimento, le stesse da cui poi alcuni personaggi decidono di tanto in tanto di compiere alcuni piccoli furti. Spariscono anche alcuni – ormai superati – dogmi di genere, per cui è importante che il paterfamilias si faccia carico nella maniera più importante del sostentamento della famiglia, per una collaborazione proveniente da tutti i membri della famiglia, livellante e senza scrupoli di ruoli predefiniti. In balia dunque di tali instabilità, Osamu e Nobuyo rivestono un ruolo genitoriale controverso, seppur assunto generosamente su di sé. I modelli di padre e madre che i piccoli hanno bisogno di proiettare su queste figure sono messi a dura prova: infatti Osamu insegna alcuni “trucchetti del mestiere” di ladro a Shota, e poi a Yuri, in un fine sostanzialmente egoistico di moltiplicazione del materiale possibile ricavato da questo atto illegale.
Lo sguardo del bambino ha una significativa importanza per il regista in quest’opera: riprende la tradizione del shonen mono, i film di «storie di ragazzi», genere che assunse vigore negli anni Trenta, in cui i valori società contemporanea sono passati al vaglio degli occhi ancora intaccati dei più piccoli, non desensibilizzati da alcune domande morali. Shota infatti, per via della sua età, teme di più lo sguardo giudicante delle autorità. Non casualmente alcune inquadrature riprendono il punto di vista di uno specchio dall’alto nei locali dove avvengono i furti: hanno come oggetto i bambini che rubano, e che sono consci di essere guardati tramite un’occhiata di traverso. Quegli specchi non solo rilevano una pressione pur esistente dell’ambiente circostante, e che rischia di sfaldare la famiglia protagonista, ma sono spia delle stesse preoccupazioni di Shota che guarda sé stesso e i suoi cari da un’ottica più esterna e ne comprende i lati pur fragili. Koreeda infatti attraverso il suo personaggio mette ulteriormente in discussione quanto possa essere sufficiente il solo calore affettivo per tenere unita una famiglia. Nonostante l’ambiente confortevole offerto nel proprio domestico, lo stile di vita precario adottato, che comporta forti limitazioni e il costante bisogno di eludere i controlli di enti sociali, non permette ai singoli adulti che desiderano farsi chiamare “padre” e “madre” di tenere un comportamento di dignità intaccata agli occhi dei loro figli acquisiti, andando talvolta contro la loro incolumità, com’è nel caso dell’esposizione ai pericoli di un atto illegale o del non poterli esporre a enti sociali che effettuerebbero verifiche, quali la scuola, l’ospedale e altri. Nell’età dello sviluppo come nel caso di Shota, dove l’acriticità infantile in verità svanisce per lasciare posto a prime considerazioni più lucide e complesse sulla propria vita familiare e gli adulti stessi, il personaggio ha difficoltà a definire “padre” Osamu ad esempio, proprio per i dubbi che cova, rimettendo in ballo considerazioni non scontate sulle richieste che gravano al ruolo genitoriale al di là della libertà dello stile di vita, in altre parole dei valori che questa figura, con le sue scelte, trasmette persino inconsciamente. In verità quella dei bambini è una sensibilità non poi così innocente e pura, ma già danneggiata dall’abbandono dei genitori precedenti, alla stessa maniera di Yuri, che è ferita dal comportamento dei genitori biologici e necessita di un suo tempo per fidarsi di quelli nuovi, per riporre in loro una sicurezza affettiva.
Le figure genitoriali di riferimento sono anticonvenzionali e non facili anche per altri aspetti. Koreeda ad esempio mostra attraverso la figura di Osamu una figura adulta maschile meno diffusa nell’immaginario sociale promosso. In quest’ultimo l’etica del lavoro in verità è molto forte ed è questione di orgoglio per la propria immagine, di conformità rassicurante e di un senso pronunciato della collaborazione collettiva, più importante dei desideri egoistici del singolo (si veda il film del 1964 La donna di sabbia di Hiroshi Teshigahara, dove l’importanza del lavoro per l’individuo giapponese come fattore di integrazione sociale è molto evidente, anche se espressa attraverso il simbolo più che un quadro realistico). Osamu si mostra poco interessato al complesso di elementi sopracitati, a differenza ad esempio di alcuni personaggi di Ozu, archetipi di un’altra epoca, e agisce invece con un individualismo, appunto, ben più assimilabile forse ad una morale occidentale, che pure sta facendo sempre più parte del Giappone attuale creando interessanti dinamiche co-presenti. Ciò riconferma l’accurata lente sulla modernità posta da Koreeda, che colora poi anche le relazioni sentimentali dei personaggi come nascenti da situazioni, contesti non ortodossi, dove anzi vi è stata una mercificazione del corpo femminile. Sayaka conosce un suo interesse sentimentale e verace nel locale dove lavora, vedendolo in un cliente «diverso dagli altri» e così anche Osamu e Nobuyo si sono felicemente trovati in un contesto analogo. Dunque si accenna anche all’ubiquità potenziale di un altro tipo di amore, non soltanto familiare, fuori da un contesto giudicato rispettabile agli occhi della società e non per questo meno verace e benefico.
L’intento ultimo di Shoplifters pertanto è quello di mostrare una certa fluidità relazionale ed emotiva, di far vedere la profonda umanità insita in ogni personaggio e le articolate dinamiche che lo hanno portato ad agire in un dato modo, fuori da facili diti puntati e nette prese di posizioni, fuori anche da facili ideologie volte ad esaltare la figura degli svantaggiati come più genuini di altri. La naturalezza dei personaggi si riflette nell’approccio caldo dell’autore, che si dimostra ancora in grado di restituire con autenticità una vasta gamma di sentimenti e emozioni umane in una sorta di infinitesimale realismo degli affetti, rimanendo ancorato al tessuto più fedele alla vita.