«Il bimbo, come navigante gettato da onde crudeli, nudo a terra giace, senza parola, bisognoso di ogni aiuto per vivere, ora che appena alle spiagge di luce con faticoso parto fuori dal ventre materno Natura ha gettato, e di luttuoso vagito riempie il luogo, come è giusto per lui cui tanti restano in vita mali da attraversare».
Così argomentava Lucrezio nel libro quinto del De Rerum Natura appena 2100 anni fa, e con sintesi magistrale – e un pizzico di pessimismo cosmico – descriveva le basi ontologiche della responsabilità genitoriale. Un figlio, venuto al mondo, è un essere indifeso: egli non conosce istinto di conservazione, non distingue l’amichevole dall’ostile, non compie scelte in autonomia, non deambula senza adeguato sostegno, non gode di linguaggio e comunicazione, non ha cibo all’infuori del latte materno premurosamente somministratogli. Il proprio figlio insomma, ancor prima di un individuo nuovo, ancor prima di una viva eredità di sé stessi, è la più debole prole in natura, perché – citando nuovamente l’autore latino – «vari crescono gli animali, gli armenti, le fiere, ma non servono a loro sonagli da bimbi, né alcuno ha bisogno di dolce e infantile parlare di buona nutrice, né ricercano vestiti mutevoli secondo stagione del cielo». Ed è proprio l’innata fragilità e incoscienza del pargolo a legittimare il sano paternalismo dei suoi tutori: pur non volendo accostare cinicamente l’innocenza del rapporto madre-figlio alla malizia di quella filosofia politica – il paternalismo appunto – che tratta il cittadino come incapace di perseguire il proprio bene, a livello puramente astratto si tratta della medesima dinamica antidemocratica. Un figlio non guarda al proprio bene, anzi gli rema contro: tanto rifiuta il cibo per capriccio in tenera età, tanto scansa i libri di studio in gioventù definendoli inutili. E chi se non l’attento genitore dovrà tutelarlo, scegliendo per lui il meglio? Cosa se non il rimprovero materno o paterno dovrà imporre al minore la disciplina e la razionalità di cui è sprovvisto fin dalla nascita?
La responsabilità del genitore è il diritto fondamentale del figlio: non a caso l’articolo 315 bis del codice civile recita in apertura che «il figlio ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni». Indubbiamente, la frase conclusiva costituisce una prima clausola di autodeterminazione del figlio (poi meglio esplorata due commi più avanti avanti con «il figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici, e anche di età inferiore ove capace di discernimento, ha diritto di essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano»), ma c’è ben poca scelta quando si tratta di salute fisica o mentale.
Nell’era del populismo e del garantismo, le azioni di “buonsenso” governativo da un lato e le minoranze discriminate dall’altro si moltiplicano pericolosamente, concimate dal guano della politica e della pubblica opinione: leggi raccatta-voti e vittimismo spinto, accomunati dal disinteresse o dalla diffidenza per la scienza, corrompono le fondamenta delle società occidentali. Si è già parlato della deriva no-vax in Italia, dei rischi in termini di sicurezza sanitaria e credibilità nazionale, della poco auspicabile intesa tra governo e “genitori informati”, ma ciò che si è mancato di sottolineare adeguatamente è proprio la spiacevole situazione a cui sono costretti i malcapitati figli: nella crociata indetta per non trasformarli in cavie da laboratorio, si è ben pensato di spersonalizzarli e di sventolarli a mo’ di striscione da protesta. Osservando attentamente questa triste dinamica familiare, possiamo identificare un preciso paradigma comportamentale comune ad alcuni degli estremismi sociali odierni: guardando tanto ai no-vax quanto ai seguaci del veganismo e della teoria gender – quelli più radicali almeno –, si notano somiglianze consistenti abbastanza da poter formulare un unico modello, quello del genitore socialmente impegnato.
Le quattro fasi comportamentali di un genitore socialmente impegnato sono: l’adozione del complesso della vittima rispetto al sistema dominante, la legittimazione delle proprie convinzioni per mezzo di tesi sviluppate da autorità incompetenti o numericamente marginali, l’oggettualizzazione del figlio e, infine, l’ostentazione del proprio operato come valida alternativa.
Partiamo proprio dall’onda anti-vaccini: non volendo riproporre il caso della “furbetta di Esine”, ormai sulla bocca di tutti, prendiamo a esempio qualcosa di meno recente e di non italiano. Siamo a Ottawa, Canada, 2015: Tara Hills, madre di sette figli, è convinta che i suoi bambini siano vittima di un inutile obbligo vaccinale architettato dalla comunità medica nazionale in combutta coi burattini delle case farmaceutiche (citando un suo post Facebook, «We stopped because we were scared and didn’t know who to trust. Was the medical community just paid off by puppets of a Big Pharma-Government-Media conspiracy? Were these vaccines even necessary in this day and age? Were we unwittingly doing greater harm than help to our beloved children? So much smoke must mean a fire, so we defaulted to the ‘do nothing and hope nothing bad happens’ position»). Decisa a fare chiarezza, pensa bene di approfondire l’argomento leggendo il famigerato studio, datato 1998, di Andrew Walker, ricerca in cui si dimostrava (per mezzo di dati parziali e alterati) una correlazione tra somministrazione di vaccini e comparsa di autismo nel bambino. Ormai abbandonata ogni genere di immunizzazione per i propri figli, nel giro di soli sei anni riesce a far ammalare di pertosse l’intera cucciolata. Le sue prime parole da pentita alla stampa furono «I set out to prove that we were right», (letteralmente, «avevo intenzione di dar prova della nostra ragione»). Ripercorrendo il modello del genitore socialmente impegnato, noterete bene come ognuna delle fasi descritte figura nella suddetta vicenda: una madre si convince di essere vittima di un complotto, corrobora le proprie opinioni con dati poco attendibili elaborati da personalità ancor meno affidabili, riproietta le sue convinzioni sui propri figli e finisce ammettendo l’intento (mancato) di aver voluto dimostrare l’indimostrabile.
E a livello di pretese sulla vita dei neonati, nulla hanno da invidiare i genitori vegani. Non volendo però scadere nella semplice enumerazione di casi eclatanti verificatisi su suolo italiano, ci sposteremo leggermente verso ovest, nella penisola iberica, per analizzare un particolare caso di imposizione di dieta vegana ai danni non di un infante ma di una volpe. L’idealismo connaturato al veganismo è affascinante, oltre che condivisibile, poiché fondato sulla convinzione – ormai accantonata da un Occidente disilluso – che cambiare sé stessi sia il primo passo di una grande rivoluzione sociale. Ma come vale per ogni ideologia e religione, il veganismo si apprezza nella misura in cui riesca a propagarsi tramite volontaria conversione. E non è certo la volontarietà il principio guida di Sonia Sae, giovane attivista vegana di Barcellona ormai passata alla storia come la ragazza che tortura la volpe: nel malsano convincimento che la natura stessa debba piegarsi al dettame vegano e che gli illuminati militanti del “mangiare morale” abbiano il compito di sovvertire le catene alimentari, Sonia ha adottato un cucciolo di fennec (o volpe del deserto) relegandolo a una dieta di soli vegetali e integratori proteici, con esiti che definire macabri sarebbe un eufemismo. La dieta naturale di un fennec, come intuibile, è a base di carne: dai roditori desertici ai rettili, dagli insetti ai vermi della sabbia, questo simpatico volpino delle dune ripiega assai raramente sull’assunzione di piante se non in caso di caccia povera. Jumanji, questo il nome dello sventurato carnivoro – ora erbivoro coatto –, dopo neanche un anno dall’adozione ha incominciato ad accusare le prime disfunzioni: rachitismo, letargia, perdita del manto e un disturbo della pelle (che la proprietaria ha per il momento giustificato come reazione allergica della cute al polline). Anche in questa occasione, torna perfettamente il modello del genitore socialmente impegnato: una giovane youtuber vegana, proclamatasi vittima tanto del cyberbullismo quanto delle menzogne del sistema consumistico capitalista, si erge a paladina dell’anticonformismo alimentare e, sostenuta dall’opinione di un anonimo veterinario che le ha consigliato di nutrire un cacciatore desertico con erbe e mangime per gatti (contenente, a suo dire, la giusta quantità di fibre, proteine e aminoacidi essenziali), forza una dieta vegana su una volpe (nel contesto di questo articolo, evidente “surrogato ferino” di un figlio), per dimostrare al mondo che il cambiamento compete tanto ai bipedi quanto ai quadrupedi.
In un’ottica prettamente paternalistica e antidemocratica appunto, non c’è alcuna differenza tra il trattamento subito da Jumanji e quello dei vari bambini ricoverati negli ospedali italiani (si notificano episodi di denutrizione per cause legate a dieta vegana a Firenze, Belluno, Treviso, Milano e Genova). Ma le assonanze sono anche di tipo scientifico: lungi dallo screditare in toto la dieta vegana, a suo modo salubre e completa, è fondamentale rimarcare la necessità fisica del bambino (soprattutto se minore di sei anni) di consumare carne e altri derivati animali, perché non esiste alimentazione sana che precluda l’assunzione diretta e non integrata di zinco, ferro tipo eme (contenuto in carne e pesce), vitamina D, vitamina B12 e omega-3. Tutte sostanze vitali eppure divenute sacrificabili in nome di principi discutibili e scientificamente scorretti, come ad esempio “l’uomo nasce onnivoro, non ha bisogno di uccidere per sopravvivere”. Ciò che tuttavia sfugge all’estro del genitore vegano è che l’uomo è diventato Uomo (inteso come essere bipede, verbale e intelligente) solo grazie alla carne: secondo un importante studio di due biologi evoluzionisti dell’Harvard University, Katherine Zink e Daniel Lieberman, i nostri pelosi antenati, qualora fossero rimasti esclusivamente vegetariani, sarebbero inciampati in qualche discreto rallentamento evolutivo. La carne conteneva, a parità di proporzioni, un maggior numero di calorie; richiedeva una masticazione del 39/46% meno faticosa di quella richiesta da frutta e verdura; stimolò l’inventiva dell’ominide nell’impiegare utensili rudimentali tanto per tagliarla quanto per cacciarla: a livello di sviluppo psicologico infatti, la carne imponeva alla scimmia il confronto con una problematica tutta nuova, ovvero che il cibo, non più appeso al ramo di un albero, potesse tentare la fuga. Che poi l’uomo adulto moderno sia in grado sostenere in piena tranquillità un’alimentazione vegana è indiscutibile, ma da qui ad affermare che un bambino, negli anni della crescita, possa sopravvivere di soli carboidrati, vegetali e amore familiare…
E dulcis in fundo, i queers (letteralmente gli strambi, e perciò non etichettabili), sostenitori e promotori dell’ultimo ritrovato del socialismo forense americano: l’identità di genere. Con la suddetta formula si vuole indicare una terza categoria identificativa di tipo sessuale (di fianco al sesso biologico di appartenenza e alla sessualità di indirizzo) limitata però alla sola dimensione psicologica dell’individuo: in altre parole, l’identificazione mentale di sé stessi con un sesso o modello personale non convenzionale.
A livello teorico, ciò per cui la comunità internazionale dei queers (indicati dalla “Q” finale nella sigla LGBTQ) combatte è la tutela delle identità di genere e il riconoscimento di queste come categorie paritetiche al sesso biologico. Prestando particolare attenzione alla richiesta di tutela, è necessario rilevare un paradosso logico dovuto alla natura stessa dell’identità di genere: se il sesso e la sessualità sono categorie scientificamente definite (XX e XY da un lato, eterosessualità, omosessualità e bisessualità dall’altro), il terzo criterio di classificazione, poiché non più basato sul delineamento di un semplice profilo psicosessuale bensì di un modello comportamentale che trascenda il genere (arrivando a toccare anche i criteri di temperamento e emotività), può produrre – potenzialmente parlando – infinite classi o identità. E qual è una delle principali forme di tutela richieste dalle comunità gender? Il rispetto categorico dei – nuovi – pronomi di persona, pena l’accusa per il trasgressore di molestia sessuale. Il dilemma giuridico in cui si incappa non è facilmente aggirabile: se potenzialmente esistono infinite identità che introducono a loro volta infiniti complessi grammaticali, allora o si opta per il riconoscimento giuridico di un numero limitato di identità (come sta appunto accadendo nello stato del New York che riconosce solo 29 classi) discriminandone arbitrariamente infinite altre, o si ricorre all’over-saturazione dei codici implementando di volta in volta i nuovi casi.
Passando invece al piano pratico, riemerge anche qui il tema del falso paternalismo. Tre dei più importanti principi ricorrenti nella teoria gender sono la transessualità, la fluidità di genere (letteralmente l’intercambiabilità mentale dei sessi biologici) e la neutralità di genere (la mancanza di una posizione definita nello spettro psicosessuale). Se le prime due sono da considerarsi come concetti appartenenti principalmente all’universo genitoriale dei queers, l’ultima si configura spesso come una triste imposizione sui figli di questi. È il caso della famiglia inglese dei Draven: Louise (nella coppia il padre, nato uomo ma ora sotto trattamento ormonale per diventare donna) e Nikki (nella coppia la madre, biologicamente donna ma psicologicamente maschile o femminile secondo il momento) sono i genitori di uno splendido bambino cresciuto neutralmente rispetto ai due sessi convenzionali. L’applicazione del principio di neutralità di genere si ripercuote sulle acconciature, sul vestiario e sull’intrattenimento ludico del minore: per il raggiungimento della neutralità, non si scelgono abiti unisex o giocattoli come le costruzioni (l’intrattenimento asessuato per eccellenza, visto e considerato che è l’inventiva del bambino stesso a dettare le forme della composizione), bensì si oscilla periodicamente tra capelli lunghi e capelli corti, tra completini azzurri e completini rosa, tra modellini di macchine a bambole personalizzabili; insomma, si alternano due estremi convenzionali per far sì che sia il bambino stesso ad operare una sintesi non convenzionale, eleggendo di ogni lato le cose migliori. Ecco ripalesarsi il modello del genitore socialmente impegnato: una coppia di queers, percependosi intrappolata nella gabbia dei sessi (interpretati come semplici costrutti sociali a limitazione della personalità individuale), avvalendosi del fazioso assunto che una società binaria non sia di per sé in grado di sviluppare adeguatamente lo spirito critico del proprio figlio, sottrae al ragazzino la dicotomia sessuale umana per sostituirla con un’osmosi di elementi opposti, potendo così finalmente firmare le proprie interviste con la frase «Proud to be Britain’s first gender fluid parents».
Ciò che addirittura preoccupa di più è l’ormai diffusa tendenza di assecondare il desiderio prematuro dei minorenni di cambiare chirurgicamente sesso (spesso prima ancora del conseguimento del decimo anno di vita), soprattutto ora che la New York di Bill de Blasio è diventata pioniere nel riconoscimento del terzo genere X (l’agognato accostamento di sesso biologico e identità di genere) direttamente sui certificati di nascita, una scelta tanto utile al cambiamento di sesso retroattivo quanto alla compromissione premeditata del futuro genito. Qualcuno potrebbe obiettare che il terzo genere X sia al contrario la concretizzazione della libera scelta anziché dell’imposizione genitoriale, proprio perché si dà tempo al bambino di comprendere la propria natura: ma d’altra parte, le cose non si risolveranno nemmeno creandogli un complesso psicologico ogni volta che si trovi di fronte alle due porte dei bagni della scuola.
L’intento di questo articolo era quello di formulare un modello comportamentale comune a tre diverse dinamiche sociali, un ragionamento che dimostrasse la ricorrenza di temi e atteggiamenti al fine di evidenziare un paternalismo che ha ben poco a cuore il bene del bambino. Ma non per questo si vuole escludere la comprovata esistenza di vegani e queer dalla condotta più moderata e meno ingerente tanto nei confronti degli adulti quanto in quelli dei minori. Piuttosto è intenzione dello scritto sottolineare l’ipocrisia e la conseguente pericolosità di quegli individui pronti a mascherare i propri capricci ideologici per lotte sociali, senza remora di rendere i figli martiri.
Per consultare il testo dell’articolo 315 bis del codice civile (diritti e doveri del figlio), cliccare qui.
Per consultare il testo della Proposta di legge 11 luglio 2016, n. 3972 per l’introduzione degli articoli 572-bis e 572-ter del codice penale, concernenti il reato di imposizione di una dieta alimentare priva di elementi essenziali per la crescita a un minore di anni sedici, cliccare qui.
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