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Intendere il concetto di verità

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Alessandro Rosa

La riflessione sul concetto di verità è molto comune anche al di fuori degli ambienti prettamente filosofici. Sarà capitato a tutti di assistere a un dibattito e di domandarsi quale posizione fosse quella vera. In generale, quando abbiamo qualche incertezza su una determinata proposizione non stiamo facendo altro che chiederci se sia vera o meno. Ma data l’enorme quantità di cose che oggi vengono spacciate per vere anche quando palesemente non lo sono, sembra imprescindibile tornare a riflettere sul tema della verità. Si tratta di una tematica antica quanto la filosofia, ma negli ultimi anni sta ritornando in auge, principalmente per motivi sociopolitici. Non è un caso che la XIX edizione del festival della filosofia di Modena quest’anno si sia concentrata proprio sulla nozione di verità, dove si è anche parlato del fenomeno, più sociologico che filosofico, della post-verità. Prima, però, bisognerebbe fare un passo indietro e tornare a chiederci: «che cos’è il vero?»

Analizzare il concetto di verità

Avvicinandoci al nostro oggetto di indagine, ci accorgiamo fin da subito che la verità è un concetto molto diverso da tutti gli altri analizzati in filosofia. Già i medievali, a partire da San Tommaso, avevano intuito che la verità (assieme a unum e bonum) è un concetto unico, in quanto non è esprimibile in altro modo. Quando diciamo che qualcosa è vero gli stiamo conferendo una proprietà che non può essere resa con nessun altro termine. Per questa ragione il “vero” è una delle fondamenta di molte teorie filosofiche, in primis quelle sulla conoscenza. In secondo luogo, la verità è un concetto invisibile. Dire “è vero che oggi piove” equivale a dire semplicemente “oggi piove”. La locuzione “è vero che” sembra essere soltanto un appesantimento linguistico del tutto evitabile. Eppure, nel momento in cui vogliamo sapere se oggi piove o meno, non possiamo fare altro che chiederci se è vero che oggi piove. Ecco ricomparire la verità! Per quanto paradossale possa sembrare, il primo fine della verità è essere funzionale al dubbio. Infine, bisogna specificare che la verità è un concetto molto difficile da categorizzare, dato che si muove a metà strada tra il piano metafisico e quello linguistico. Di fatti, noi asseriamo che qualcosa è vero, ma appunto lo asseriamo di un qualcosa. Dunque la verità ha l’arduo compito di mettere in rapporto la lingua con l’essere.

La locandina del Festival di filosofia di quest’anno.

Soprattutto per l’ultima ragione, il più antico modo di intendere la verità è stato quello della corrispondenza. Si tratta di una concezione classica che troviamo già in Platone e Aristotele. Un’ottima definizione è quella contenuta nel IV libro della Metafisica: «il falso sta nel dire che quello che è, non sia, e quello che non è, sia; e il vero nel dire che quello che è, sia, e quello che non è, non sia». La teoria è piuttosto semplice e intuitiva: la proposizione “oggi piove” è vera solo se ciò corrisponde allo stato di cose della realtà, dunque se effettivamente oggi piove. Solo nel Novecento verrà effettivamente usato il termine “corrispondere” per indicare il rapporto tra lingua ed essere, ma il nocciolo dell’idea sta tutto nella definizione aristotelica. Nonostante la praticità, la teoria della corrispondenza è stata più volte criticata, talvolta anche da filosofi antichi. Il più famoso tra questi è probabilmente l’argomento del regresso della verità: per stabilire che una proposizione sia vera è necessario formulare una teoria, la quale a sua volta deve essere vera, ovvero deve corrispondere alla realtà. Ma anche quest’ultima deve a sua volta basarsi su un’altra teoria e dunque si innesca un circolo vizioso da cui sembra difficile uscire. Questo argomento veniva già messo in luce dagli scettici antichi, tra cui il famoso Sesto Empirico, secondo il quale l’unico modo per uscire da questo cortocircuito era sospendere il giudizio (concetto sintetizzato col termine epoché). Una critica più attuale è l’argomento olistico: non possiamo considerare né gli enunciati né i fatti come singole unità separate, ma come insiemi. Effettivamente sembra difficile pensare a una proposizione che si riferisca a un solo e unico fatto. Per esempio, la verità della proposizione “la seconda guerra mondiale è iniziata nel 1938” fa riferimento a molti fatti contemporaneamente (l’invasione della Polonia, le dichiarazioni di guerra ufficiali, gli scontri armati, ecc.). Diventa complicato capire qual è il singolo fatto che renderebbe quella proposizione vera. Anche per questa ragione si è molto criticato l’uso del termine “fatto” per indicare la realtà. Che cos’è un fatto? Quanti fatti ci sono al mondo? Come possiamo parlare di fatti se non sappiamo descriverli? Un famoso aforisma di Nietzsche recita: «Non esistono fatti, solo interpretazioni», indicando che la strada più praticabile sarebbe quella del relativismo assoluto.

Con questi problemi in mente, già tra Settecento e Ottocento alcuni filosofi cercarono nuovi modi di intendere il concetto di verità. Strettamente connesso alla visione olistica, una delle teorie più affermate negli ultimi due secoli è il coerentismo. Come si può intuire dal nome, secondo la teoria coerentista la verità di un enunciato deriva dal rapporto di coerenza che l’enunciato ha con le altre verità note. I coerentisti prendono atto del fatto che non possiamo guardare le cose senza pregiudizi, ponendoci al di fuori di ciò che già riteniamo vero. Dunque la verità di una specifica proposizione dipenderà da quanto bene si adatta (quanto è coerente) con il sistema di verità che abbiamo adottato. Ciò riflette bene come noi, quotidianamente, assorbiamo nuove informazioni. Poniamo il caso che qualcuno voglia convincerci che la Terra sia piatta. Noi confronteremo la proposizione “la Terra è piatta” con tutta l’evidenza accumulata durante la vita. Trovando le due cose incompatibili tra loro concluderemo che è la proposizione è falsa.

La definizione stessa di coerenza però è insidiosa. Da una parte rischia di essere troppo inclusiva, dato che prendendola alla lettera considererebbe come vere tutte le proposizioni relative alla narrativa (romanzi, film, videogiochi ecc.). Dall’altra parte sembra escludere a priori credenze che di per sé sono vere, ma incompatibili con sistema di verità adottato al momento. Pensiamo per esempio al passaggio dal sistema geocentrico a quello eliocentrico: inizialmente l’idea copernicana venne rifiutata perché contraddiceva il sistema di verità privilegiato dell’epoca, ignorando (volutamente o meno) l’evidenza che la supportava. Si tratta di una problematica per niente distante dal nostro tempo: se le teorie scientifiche moderne rappresentano il canone di verità, qualsiasi voce fuori dal coro deve essere automaticamente esclusa? Posto che la voce fuori dal coro si pronunci con una base di evidenza valida, un sistema così dogmatico sarebbe quanto di meno scientifico possibile.

C’è poi tutto un filone di pensatori, definiti pragmatici, convinti che non abbia molto senso continuare a riflettere sul concetto di verità in questi termini. Piuttosto bisogna pensare a al vero come ciò che è utile: una proposizione vera è una proporzione che ha “successo”. In altre parole, significa pensare alla verità in termini di azione. Secondo Charles Sanders Peirce credere che una proposizione sia vera significa essere disposti ad agire di conseguenza. Se penso che sia vero che oggi piove, prima di uscire prenderò l’ombrello. Anche nel caso in cui non piova, presupporne la verità mi è utile, perché se effettivamente piove la mia proposizione ha avuto successo. William James, inoltre, aggiunge che non è necessario essere in grado di avere un confronto con la realtà per credere che qualcosa sia vero. Buona parte delle nostre credenze sono vere nella misura in cui semplicemente “funzionano”: io credo che l’Australia esista anche se non l’ho mai vista. Il mio credere che l’Australia esista mi è utile perché mi consente di avere una buona cognizione del mondo (ciononostante, c’è qualcuno davvero convinto che l’Australia non esista). Ovviamente anche la teoria pragmatica non è esente da problemi. Il concetto di utilità è molto vago e ambiguo. Anzitutto utile per chi? Un politico può imporre la sua verità perché questa è “utile” al benessere del paese? E cosa fare quando l’utilità del singolo si scontra con tutte le altre utilità? È davvero utile ritenere che esistano molteplici utilità in conflitto tra di loro? Questi e altri interrogativi vanno a inserire al rapporto che c’è tra verità ed etica, ma anche verità e politica (concentrandosi particolarmente al significato di verità in una democrazia).

Martin Heidegger.

Cambiare prospettiva: fare esperienza del vero

Le tre teorie proposte si prefiggevano il compito di analizzare il concetto di verità per trovarne una definizione univoca. Tuttavia, la questione può anche essere affrontata in modo diverso, potremmo dire in maniera continentale piuttosto che analitica. Il filosofo tedesco Martin Heidegger è l’autore di uno dei più radicali cambiamenti di prospettiva sul tema della verità. Nella visione heideggeriana la verità non deve più essere intesa come una determinata proprietà che lega il linguaggio alla realtà. Piuttosto bisogna considerare il vero nella sua esperienza totalizzante, esperire in prima persona la verità. Il lavoro di Heidegger è anzitutto un lavoro sull’etimologia del termine “verità”. La parola greca è a-letheia. Il trattino è obbligatorio per sottolineare il focus sull’alfa privativa, che porta a intendere il termine come “ciò che non è nascosto”, o meglio, “ciò che è dis-velato”. La verità, dunque, non è altro che il disvelamento dell’essere che si dischiude all’uomo. Secondo Heidegger per comprendere bene la verità dobbiamo riflettere sull’uso di questa parola: la verità non è una corrispondenza tra linguaggio e realtà, la verità non si “trova”, ma si svela all’uomo. L’angoscia implicita nell’esistenza dell’uomo, angoscia provocata dalla consapevolezza della propria finitezza, può essere squarciata solamente dal raggio della verità.

Chiaramente l’approccio di Heidegger è molto diverso da quello formale che intende comprendere la nozione di verità; eppure ci fa riflettere sull’aspetto più importane del concetto. Non significa che non è possibile ricercare una definizione più concreta e sistematica della nozione di verità. Ci fa capire, piuttosto, che la verità è molto difficile da intrappolare in uno schema rigido di definizioni e teorie, dal momento in cui siamo perennemente immersi nell’idea che qualcosa sia vero o falso. E nessuna riflessione a riguardo può fare a meno di confrontarsi con questo aspetto cruciale della verità.

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