Di un gusto tutto italiano è quella destrezza nel porre ai margini scrittori che sono degni invece di estrema considerazione. Cedono sempre il passo in maniera coatta ai grandi miti della letteratura, i cui meriti non sono minori rispetto agli autori che pur minori si considerano. Così in questa sede si racconterà di uno scrittore moderno e della sua modernissima opera, che tuttavia non trovano un posto, se non interstiziale, del tutto inadeguato alla loro grande portata: Fogazzaro e il suo Malombra.
Mentre in quella Milano di metà Ottocento imperversa l’entusiasmo per I Promessi Sposi, accade che molto più sommessamente due letterati di caratura apparentemente minore di quella di Manzoni, vengono a contatto: Tarchetti Ugo, da un lato, e Fogazzaro Antonio, dall’altro. Le loro esperienze letterarie in realtà non convergono: Fogazzaro non partecipa al movimento della Scapigliatura di cui il suo amico è principale esponente, eppure in alcuni momenti della sua opera l’influsso di Tarchetti esiste, in maniera più o meno evidente in virtù dell’attenzione del lettore. Non si potrebbe di fatto parlare di Malombra di Fogazzaro senza fare almeno un accenno alla Fosca di Tarchetti. Innanzitutto il richiamo nei nomi delle opere è quantomai evidente: la zona d’ombra, il buio quanto l’ignoto, sono i rimandi a quell’oscurità e mistero che intriga e affascina i protagonisti Giorgio e Corrado Silla. Molto più che semplici vicende amorose, molto più che un naturale dramma sentimentale, questi sono percorsi verso lo svelamento di una realtà inquietante. Il Silla di Fogazzaro è, alla stessa stregua di Giorgio di Tarchetti, un finto eroe, un anti-eroe, Ma se Fosca è l’approdo di Tarchetti, Malombra per Fogazzaro è più un incipit di un percorso con dei risvolti del tutto differenti. La personalità di Silla viene interamente condensata in tre parole: inadatto a vivere. Da tenere presente che è forte l’identificazione tra l’autore e il personaggio in una spiccata corrispondenza biografica. Dell’uno e dell’altro la caratteristica principale è quella di essere scrittori valenti che tuttavia non trovano consenso al di fuori. Ma se la caratterizzazione del personaggio maschile del romanzo è del tutto in linea con i tempi e le correnti letterarie coeve, non si può certo dire lo stesso del personaggio femminile, Marina di Malombra, che dà il nome all’opera.
Marina di Malombra, figlia del conte di Malombra e rimasta orfana di entrambi i genitori, è affidata allo zio Cesare d’Ormengo, presso il quale va a vivere. Le attitudini e le passioni di lei mal si coniugano con quelle di suo zio, che non riesce a capire la sua attenzione alla letteratura moderna, alla musica, all’arte. Su di lei, il peso del soffocamento – quello intellettuale – ostacolato dalla presenza del suo tutore. Ma anche la condanna all’isolamento, alla vita condotta in un luogo che non apprezza, con una presenza che le è tutt’altro che piacevole.
Questo tipo di fissità a cui è condannata, termina nel momento in cui Marina ritrova, nascosta nel pianoforte della sua stanza, una lettera. Quella lettera in cui Cecilia, prigioniera del padre di Cesare d’Ormengo, accusa la solitudine a cui è costretta invocando vendetta nei confronti della stirpe d’Ormengo e allude al reale motivo causa della sua prigionia – diverso, si intende, da ciò che si vociferava in paese: una presunta malattia di ordine psichico, un’incurabile follia.
Da questo punto in poi Malombra sarà testimonianza continua della follia che invece pervade Marina dal momento in cui legge la lettera. Si convince di essere lei stessa Cecilia, di dover lei stessa vendicare una vita parallela alla sua, di solitudine e segregazione. E se in un primo momento oppone resistenza nei confronti di questa sovrapposizione di persone, alla fine cede definitivamente. E così il conte non è più suo zio, ma suo marito che la tiene prigioniera, e Corrado non è già solo Corrado, ma la reincarnazione di Renato, amante di Cecilia e dunque anche suo.
La sintomatologia isterica di Marina viene descritta con estrema cura e talvolta in maniera quasi asettica, forte Fogazzaro di un linguaggio medico gestito con destrezza, lungi dall’utilizzo di perifrasi liriche o patetiche, dal dramma della follia greca. Si aprono, nel crollo psicologico di Marina, quegli orizzonti psicanalitici che si andranno effettivamente formando nel secolo successivo. La sua identificazione con Cecilia, in questo senso, altro non è che un tentativo di fuga nei confronti di una pace che però, d’altro canto, sa benissimo di non desiderare realmente.
La creazione di una Marina così costituita, Fogazzaro la deve essenzialmente alla scienza ottocentesca e allo spiritualismo, cosa di cui lui stesso offre testimonianza in una lettera a Salvadori:
«Io fui sempre uno spiritualista ardente ed ebbi da fanciullo in poi una forte inclinazione al misticismo; ne appaiono traccie, credo, in tutto quello che ho pubblicato. Quindi è naturale che io non abbia riso mai delle credenze spiritiche. Esse non contraddicevano in sostanza alla mia fede religiosa e rispondono alle intime tendenze dell’animo mio. Vi ero dunque disposto a priori e ne pigliai avidamente conoscenza per mezzo di un amico mio che vi aderiva egli pure per via di ragionamento, senza averne fatta esperienza personale […] Le notizie ch’io tengo dello spiritismo mi persuadono che non tutto è illusione ed inganno e che seguono veramente molti fatti inesplicabili con le leggi naturali a noi note. Io sono dispostissimo a crederli opera d’intelligenze invisibili, ma non ho trovato in esse alcun lume, alcuna rivelazione scientifica, né morale, né religiosa, che imprima loro il carattere di quel mondo superiore che l’anima desidera e spera».
La modernità dell’opera è del tutto indiscutibile. Corrado è esattamente l’uomo moderno: si antepone all’uomo novecentesco, che anticipa, diventando il prototipo del personaggio narrativo che prenderà sviluppo in seguito alla psicanalisi. Marina è moderna, invece, nel suo camminare sull’orlo del baratro per tutta la narrazione, che trema dell’imminenza del suo crollo.