La recente vicenda di Verona, in riferimento alla tematica dell’aborto, in pochissimo tempo è rimbalzata su ogni social sia per la particolarità dell’argomento sia per le foto delle proteste, con donne agghindate da copricapi e mantelli rossi in stile puritano, che l’hanno accompagnata. Questo fatto, che per dovere di cronaca verrà brevemente riportato, ci permette di interrogarci su una particolare tematica che, ormai, molti di noi danno per scontata ossia quella del diritto all’interruzione della gravidanza e che cade nel quarantesimo anniversario dell’entrata in vigore della legge 194.
Il fatto ha visto protagonista il Comune di Verona che, a seguito di una mozione della Lega, ha approvato una serie di finanziamenti in favore di associazioni Cattoliche di movimenti per la vita o, che dir si voglia, promotrici di posizioni antiabortiste. Tali associazioni, nella pratica, non fanno altro che finanziare economicamente la donna in stato di gravidanza, durante la gestazione e successivamente, al fine di consentire alle stesse una scelta orientata alla non interruzione della gravidanza. A seguito della stessa mozione il Comune di Verona verrà proclamato ufficialmente “Città a favore della vita”. Per comprende al meglio il funzionamento e i meccanismi della legge 194, occorre preliminarmente comprendere quando, ai fini della tutela giuridica, inizi la vita.
In un ottica strettamente civilistica la vita coincide con l’acquisto della capacità giuridica, prevista dall’art. 1 c.c., ossia al momento della nascita. Più precisamente si ritiene che si possa parlare di uomo dal momento del distacco del feto dall’utero materno, anche se non è avvenuta la definitiva espulsione dal corpo della madre. L’inizio della vita umana si ritiene dunque anticipato al momento del parto.
Più precisamente, allora, si opta per far coincidere l’inizio della vita umana con la rottura del sacco delle acque, o meglio, quando le contrazioni della madre assumono il carattere della frequenza e ritmicità che può essere assunto a sintomo inequivocabile della fine della gravidanza. Per quanto attiene, invece, all’ipotesi di parto cesareo, la giurisprudenza prevalente fa coincidere l’inizio della vita con l’inizio dell’intervento chirurgico, più precisamente, con l’incisione dell’utero. Ciò detto, nel sistema giuridico italiano non mancano ipotesi di anticipazione della tutela giuridica al nascituro colorando ulteriormente questa particolare tematica che, più che sul giuridico, dovrebbe analizzarsi sul filosofico. Fra questi interventi rientra appunto la legge 194 che, tuttavia, non consente di elevare il nascituro a soggetto indipendente di diritti, sebbene l’ordinamento italiano lo consideri comunque meritevole di tutela.
Data per assodata questa essenziale definizione, possiamo ora analizzare il contesto storico in cui la Legge 194 è sorta. Prima dell’introduzione di questa legge, avvenuta nel maggio del 1978, l’aborto in Italia era considerato un crimine e veniva pesantemente sanzionato con pene che arrivavano fino a 5 anni di reclusione, nel caso in cui fosse consenziente, e a 12 anni nel caso in cui, invece, l’aborto fosse involontario. Il reato, in particolare, veniva considerato un crimine morale contro la stirpe norma, questa, frutto del clima totalitario in cui il codice Rocco è stato redatto e della condanna, protratta anche dopo l’emanazione della legge sull’interruzione di gravidanza, della Chiesa Cattolica. Le prime proteste, promosse dal partito Radicale e da suoi esponenti che, auto-denunciandosi ammisero di praticare clandestinamente l’aborto, risalgono all’inizio degli anni ’70 e culminarono, nel 1975, in una protesta generale che vide coinvolte più di 20.000 donne e raccolse circa 700.000 firme per l’abrogazione dell’articolo di riferimento al’interno del codice penale. Nello stesso periodo, sull’argomento, si è espressa la Corte Costituzionale che pur mantenendo ferma la tutela della salute della vita, ammetteva lo scontro con altri beni costituzionalmente garantiti come la salute della madre. La Corte Costituzionale dichiarava l’illegittimità costituzionale della norma punitiva nella parte in cui non prevedeva l’interruzione della gravidanza in caso di pericolo accertato e grave per la madre. Il passo logico successivo è stato, appunto, il varo della Legge 194 il 5 giugno 1978.
La legge prevede, innanzitutto, che l’intervento normativo non è uno strumento di controllo delle nascite. Sui provvedimenti diretti essa prevede, poi, l’istituzione di appositi Consultori Familiari. Questi ultimi provvedono a fornire informazioni circa le tutele previste a livello regionale e nazionale per le done in stato di gravidanza, propongono particolare interventi nel caso di problematiche inerenti alla gravidanza contribuendo a dissuadere l’interruzione della gravidanza soprattutto quando questa fonda su ragioni economiche, sociali o familiari.
Questi Consultori, previsti e regolamentati in maniera moto dettagliata, sono in realtà fra gli elementi più criticati della stessa, non per la loro natura, ma per la loro trasposizione sul piano reale. Essi infatti scarseggiano di personale e di formazione, inoltre non sono soggetti ad alcun controllo circa la loro funzionalità e, nonostante i diversi interventi specifici del legislatore, sono in un lento declino che ha comportato la chiusura di diversi centri portandone il numero ben sotto la soglia ipotizzata dalla legge.
Viene poi prevista l’interruzione volontaria della gravidanza entro i 90 giorni dal concepimento qualora il protrarsi della gravidanza comporti un serio pericolo per la salute della donna, psicologica o fisica, in relazione al suo stato di salute, sociale, familiare, economico. L’interruzione è inoltre possibile nel caso di malformazioni del feto o, ancora, se il concepimento è avvenuto in particolari circostanze. Questo termine può trovare proroga, superando quindi i 90 giorni, in taluni casi particolari individuati dalla Legge. Questi casi sono quelli in cui sia messa in pericolo la vita della madre in modo diretto o a seguito di malformazioni e anomalie del feto. In questi casi la donna può rivolgersi ad un consultorio o ad un centro medico poi, in base all’urgenza, può essere autorizzato l’immediato intervento o la consegna di un documento che invita la donna a soprassedere. Decorsi sette giorni, la donna se ancora ferma nelle sue posizioni, può rivolgersi a un centro per procedere con l’intervento.
La Legge prevede infine l’obiezione di coscienza che può essere invocata dal personale medico e dal personale ausiliare ma solamente per le attività dirette l’interruzione della gravidanza, non per quelle preparatorie o successive. Le spese della procedura vengono interamente poste a carico delle Regioni rendendo, così, gratuito l’accesso alla tutela. La Legge non manca comunque di prevedere due diverse sanzioni penali nel caso di interruzione colposa della gravidanza o della pratica della stessa in assenza del consenso della madre.
Nonostante siano trascorsi 40 anni dall’adozione della Legge 194 la polemica può dirsi tutt’altro che spenta. I diversi referendum proposti per la sua abrogazione infatti ne fanno, probabilmente, la norma più criticata nell’ordinamento italiano a cui deve aggiungersi, oltre che far pensare, quanto recentemente avvenuto a Verona. Con tutta probabilità, l’adozione del provvedimento a opera del Comune di Verona, null’altro è che mera propaganda, ciò nonostante l’intento critico che l’ha mossa nonché le condivisioni favorevoli alla stessa riportano in auge un divario, probabilmente incolmabile, del popolo italiano su questa tematica. Vale la pena dire, inoltre, che la Legge in esame non è esente da imperfezioni come abbiamo osservato l’istituto dei Consultori Familiari andrebbe revisionato. Un altro punto di criticità è dato dalla previsione dell’obiezione di coscienza che, attualmente, si attesta su una media nazionale del 70%.
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