Dalla Primavera di Praga sono passati cinquant’anni. Cinque decadi in cui gli avvenimenti della crisi magiara sono scivolati lentamente in fondo alla lista delle commemorazioni, rimossi dai radar del discorso pubblico. Sugli studenti, gli intellettuali e i cittadini protagonisti di quel 1968, al di fuori del circuito accademico e di alcune rievocazioni televisive, è calato il silenzio. Oggi i movimenti studenteschi sono scomparsi, gli intellettuali emarginati, la società civile sfilacciata. Tuttavia è proprio davanti all’odierna desertificazione del dibattito culturale che il tornare a parlare di quel sommovimento autenticamente popolare riacquista senso, non per sterili finalità celebrative, ma per riappropriarsi di una nuova consapevolezza resistente in seno alla società civile.
Il contesto del Sessantotto globale
Prima di approfondire il ruolo degli studenti cecoslovacchi nella Primavera di Praga è opportuno fornire una panoramica di quale fosse la condizione studentesca in America e in Europa. In America il 1968 non sembrava iniziare sotto i migliori auspici: vi erano stati gravi disordini nei quartieri più poveri di molte città, abitati soprattutto da afroamericani, e la guerra in Vietnam continuava a prosciugare finanziamenti e vite umane a un ritmo sempre più elevato. In reazione a queste due sgradevoli realtà sociali, la segregazione dei neri e la guerra del Vietnam, nacque il movimento studentesco, che agiva parallelamente ai movimenti per i diritti civili non violenti, guidati da leader come Martin Luther King e Ray Abernathy, e a quelli che invece professavano la violenza in quanto unico mezzo di lotta efficace, come i Black Panters o la SNCC di Stokely Carmichael.
Presto gli studenti (e non solo quelli universitari, la protesta toccò anche gli istituti superiori e inferiori) cominciarono a organizzare imponenti marce e manifestazioni, a occupare le facoltà e improvvisare assemblee e sit-in, dedicandosi anche a progetti elaborati che esulavano dallo spontaneismo tipico del 1968, come ad esempio la Mississipi Freedom Summer; il cui scopo consisteva nell’accompagnare gli elettori neri del Sud, che fino ad allora non avevano mai votato, a registrarsi nei seggi.
Nel mentre, in tutto il mondo, lo schema si ripeteva: gli studenti protestavano in Messico, Giappone, Polonia, Jugoslavia, Cecoslovacchia, Francia, Germania, Italia, con le stesse modalità (assemblee pubbliche, pubblicazione di volantini ciclostilati, scritte sui muri, manifestazioni e occupazioni che spesso sfociavano in violenti scontri con la polizia) e spesso gli stessi slogan: «Ho, Ho, Ho Chi Minh, NLF is gonna win».
Benché in paesi e contesti così diversi, che fossero comunisti o figli della middle-class borghese americana, i giovani esprimevano in definitiva gli stessi bisogni e la stessa condivisa avversione per l’autorità: In Francia, unico paese insieme all’Italia e alla Cecoslovacchia dove gli studenti avevano ottenuto l’appoggio degli operai e degli intellettuali, questi misero effettivamente in crisi la politica di De Gaulle, che da quell’anno avrebbe visto la sua leadership politica indebolirsi sempre più. In Polonia, dove gli studenti vennero tacciati da Goumulka di essere agitatori neo-stalinisti e pigri, svogliati borghesi, e in Cecoslovacchia, le proteste vennero represse duramente, nel primo caso dalle forze di polizia, apostrofate «Gestapo» dai giovani, nel secondo da Novotný prima, e dai sovietici poi. In Jugoslavia, grazie alla consumata scaltrezza di Tito, che si dimostrò compiacente verso il movimento, questo non riuscì a incidere in maniera significativa. In Italia, caso unico, le energie rinnovatrici del 1968 vennero gradualmente assorbite dai gruppuscoli extraparlamentari a “sinistra della sinistra”, che monopolizzarono il dibattito e si assestarono su posizioni conservatrici, se non propriamente neo-staliniste sicuramente di matrice cinese. Per quanto riguarda la Primavera di Praga ad esempio, essi condannarono contemporaneamente l’invasione sovietica della Cecoslovacchia e il “nuovo corso”, che vedevano come una restaurazione del capitalismo, sostenendo tesi che, nella parole di Vittorio Foa, «si era pensato di mandare al macero», e dimostrando una disaffezione ideologica, quando non proprio un diretto disprezzo, per le democrazia formale. Critici anche nei confronti del Pci, come ben sintetizzato da Benedetto Spriola in Togliatti e il comunismo antirivoluzionario, essi «rivolgevano al partito […] un’obiezione sostanziale: di aver lasciato per strada la rivoluzione, di essersi chiusi in una linea riformista priva di sbocco e destinata a far subire una serie ininterrotta di capitolazioni ulteriori».
Non ingannino però le similitudini, oltre la cortina di ferro la protesta assumeva un altro significato. Consideriamo Parigi e Praga: Praga era sicuramente la città più “occidentale” dell’Europa dell’est e apparentemente i manifestanti cecoslovacchi si battevano per gli stessi motivi dei loro corrispettivi europei e americani: più diritti, più democrazia e libertà, il rifiuto dell’autorità. Si potrebbe quindi essere portati a pensare che in definitiva si trattasse di un unico grande movimento studentesco. Non fu così. Secondo Anna Bravo, la differenza tra la protesta in una città occidentale, ad esempio Parigi, e una orientale, Praga, era «sostanziale». «Il comunismo caro ai primi» non era «il comunismo/Stato dei socialismi reali, né quello dei partiti di sinistra». Era «un comunismo inventato, un patchwork» in cui si mischiavano insieme «concetti e temi di origine le più diverse». Le esperienze cui ci si richiamava, andavano «dalla rivoluzione culturale maoista alle esperienze del Terzo Mondo, dalla Comune di Parigi a Guevara a Trockij». In parole povere, paradossalmente, per chi non lo viveva ma lo predicava, come le formazioni della sinistra extra-parlamentare italiane, il comunismo rispecchiava l’ideale della società desiderabile, per chi invece viveva in reali regimi socialisti, come i polacchi e i cecoslovacchi, il comunismo era almeno qualcosa di imperfetto, da riformare. Questa differenza sarà ben sintetizzata da Kundera, secondo cui il maggio parigino era «un’esplosione di lirismo rivoluzionario», mentre la Primavera di Praga era «un’esplosione di scetticismo post-rivoluzionario».
Tuttavia, se era pur vero che vi furono sostanziali differenze, era altrettanto vero, e più importante, che al netto dei localismi vi fu un sincretismo di idee e pensieri comune a tutti, sviluppatosi in modo spontaneo, e che la spinta di fondo fu la stessa. Semplificando brutalmente, i francesi ambivano al comunismo, qualunque cosa significasse, i cecoslovacchi combattevano per riformarlo, ma ciò che entrambi davvero desideravano era più libertà. Da Praga al Messico i giovani ascoltavano la stessa musica, si vestivano allo stesso modo, anelavano alla stessa rivoluzione sessuale.
«Vogliamo la luce!»
Dedichiamoci ora ad approfondire la parte che ebbero gli studenti durante la Primavera di Praga, prima e dopo l’intervento sovietico: nella seconda metà degli anni sessanta in Cecoslovacchia, come in tutta Europa e negli Stati Uniti, il mondo studentesco era in fermento per i recenti rivolgimenti governativi, ma la prima manifestazione degli studenti fu priva di risvolti politici di qualsiasi genere e avvenne quasi per caso, senza essere stata programmata. Nel collegio universitario di Strahov, un quartiere di Praga, spesso mancava l’acqua e veniva sospesa l’erogazione della corrente elettrica. Inoltre vi vigeva una disciplina severissima, che limitava al minimo i contatti con l’esterno. Il 31 ottobre 1967, all’ennesima sospensione della corrente elettrica, millecinquecento studenti improvvisarono una fiaccolata per le strade della città al grido di «vogliamo la luce». La manifestazione fu la miccia che innescò il dissenso studentesco: la dura repressione della polizia, che fece irruzione nel collegio e picchiò indiscriminatamente gli studenti, lungi dal soffocarla, non fece altro che aumentarne l’eco e contribuire alla sua politicizzazione. Le dichiarazioni in difesa della polizia del Comitato Centrale certamente non contribuirono a smorzare la tensione. «Vogliamo la luce» divenne così, da semplice richiesta neutra, uno slogan politico contro il regime di Novotný.
Il dissenso degli studenti covò per quasi un anno, fino a diventare manifesto durante l’occupazione delle truppe del Patto di Varsavia. La figura di Masaryk, primo presidente della Repubblica Cecoslovacca, divenne simbolo tutelare dell’opposizione perché rappresentava la riappropriazione di un passato e di un patrimonio comuni, ceco e slovacco insieme. Di questi si sottolineava e riattualizzava l’immagine nobile di “padre” della patria, il patriottismo, l’unità tra cechi e slovacchi in funzione anti-sovietica (e in parte anti-comunista) e la prospettiva umanistica, che sembrava confluire naturalmente nel proposito di Dubček di creare un “socialismo dal volto umano”. Per le strade erano venduti distintivi col volto di Masaryk, che i contestatori affiggevano alle giacche e alle magliette.
Durante l’occupazione: gli scioperi
Nella notte tra il 21 e il 22 agosto, le truppe del Patto di Varsavia entrarono in Cecoslovacchia. Nei giorni immediatamente successivi all’intervento dei sovietici vennero introdotte alcune misure autoritarie che allarmarono gli studenti: la principale era una legge che proibiva la costituzione di nuove organizzazioni ad eccezione del Fronte Nazionale. Si voleva in questo modo limitare il raggio d’azione di organismi come il Kan (associazione dei senza partito), o il K-231 (associazione dei perseguitati in base alla legge 231/48). L’unica associazione non facente parte del Fronte Nazionale per cui non venne applicata la legge fu l’Unione degli studenti universitari di Boemia e Moravia (Svs). La ragione era che questa associazione aveva un peso politico non indifferente e rappresentava una porzione di società con cui si voleva evitare ogni contrasto.
L’elezione di Michal Dymáček, rappresentante della corrente di centro, alla testa dell’Svs inaugurò una stagione di scioperi e mobilitazione di massa. Il 28 ottobre 1968, per l’anniversario della fondazione della Repubblica, i giovani dettero vita a una massiccia manifestazione dai forti connotati patriottici e anti-sovietici, protestando soprattutto contro il Protocollo di Mosca. Il 6 e il 7 novembre, l’anniversario della rivoluzione di ottobre, vi fu un’altra manifestazione, ugualmente antisovietica, repressa dalla polizia e dalla Milizia popolare. Come era stato per Strahov, l’azione della polizia non fece altro che aumentare la reazione degli studenti, che si concretizzò nella fondazione di un Comitato d’azione studentesco, a cui era stato affidato il compito, insieme ai consigli di facoltà e all’Svs, di organizzare un’iniziativa per il 18 novembre, la Giornata internazionale degli studenti.
Giorno dopo giorno, la partecipazione degli studenti alla contestazione aumentava sempre più: la percentuale degli studenti “impegnati” era raddoppiata, dal 30% di agosto al 60% di ottobre, di cui il 15% si descriveva come radicale.
Tra i vari giornalisti e uomini di partito accorsi da tutto il mondo, in quei giorni anche Umberto Eco si trovava a Praga. le sue parole, riportate da Anna Bravo in Parigi/Praga: dalla differenza alla separazione, sono una testimonianza della “guerriglia soffice” messa in atto dagli studenti e dalla popolazione in reazione all’invasione sovietica. Egli vide:
«arrivare strombettando autocarri carichi di cappelloni (e dico cappelloni in senso tecnico, ragazzi coi capelli alla moschettiera), brulicanti di bandiere cecoslovacche, che inneggiano a Dubček. Qualcuno saluta col pugno chiuso. […] Il primo carro fermo all’angolo,attorniato da una folla che si punta l’indice alla fronte e chiede al russo sulla torretta se è matto. Ci sono ragazzini occupati a lordare il carro di scritte. La sigla ‘sssr’ è lavorata in modo da far risaltare la ‘ss’. ‘Russian go home’ è scritto in tutte le lingue, stelle rosse e svastiche sono appaiate. I soldati sostengono che a Praga c’è il colpo di stato fascista, la gente ride».
Il 21 novembre gli studenti compendiarono le proprie ragioni nei cosiddetti Dieci Punti, un documento in cui condannavano l’intervento sovietico, chiedevano l’attuazione delle riforme del Programma d’azione, l’eliminazione della censura entro sei mesi, ed esprimevano la volontà di collaborare con la classe operaia. Pur considerando la massiccia partecipazione, lo sciopero del 18 non riscosse il successo sperato perché rimase circoscritto alla galassia studentesca. Nonostante questo però l’evento ebbe la sua importanza, perché anche se non si concretizzò l’asse con gli operai, esso coinvolse gli insegnanti, le direzioni di facoltà e gli studenti medi e dimostrò alla società che gli studenti potevano lottare per qualcosa di più che non fosse la difesa dei propri interessi di classe.
Per rafforzarsi, gli studenti cercarono appoggio nel loro alleato naturale, gli operai. Le facoltà contattarono i comitati aziendali del Movimento sindacale rivoluzionario (Roh) e l’Svs si accordò con l’Unione sindacale ceca dei lavoratori metalmeccanici. Queste alleanze riflettevano la volontà di creare una piattaforma istituzionale per dar vita a un sistema politico che superasse il meccanismo in atto, basato sul fronte Nazionale e sul ruolo guida del Partito Comunista. Questo comunicato del Comitato degli universitari comunisti ben esprime le ansie e le preoccupazioni degli studenti cecoslovacchi:
«Il comitato universitario del Pccs e l’attivo dei dirigenti dell’organizzazione di base del Pccs con tutta la gravità del caso avvertono: non il nuovo brutale intervento dall’esterno, ma la rinuncia alla sovranità e il pieno ripristino del regime anteriore a gennaio è la catastrofe che incombe su di noi. […] Le tendenze pericolose citate si manifestano in maniera più marcata negli ultimi discorsi pubblici del compagno Husák. Ripetiamo: una politica così formulata non troverà e non può trovare appoggio nel corpo degli studenti e dei docenti universitari. I nostri intellettuali e i nostri giovani la considerano la via che inevitabilmente porterà al tradimento dei principali fondamentali del programma d’azione, degli interessi del socialismo e delle nostre nazioni. Non la sosterranno mai. […] Il comitato universitario del Pccs e l’attivo dei dirigenti chiedono con insistenza alla direzione del partito di proseguire nella politica del dopo gennaio non solo a parole, ma con i fatti [in corsivo nell’originale, N.d.R.]».
Il partito comunista non dette seguito alle richieste del Comitato degli universitari comunisti, che rimasero lettera morta. Da parte degli studenti, ma anche degli operai e dei cittadini in generale cominciò a venire meno la fiducia in Dubček (che a causa dell’occupazione aveva le mani legate) e crebbe il clima di disillusione rispetto alla possibilità di continuare il processo di democratizzazione e resistere all’occupazione sovietica. Tuttavia un nuovo evento sembrò risvegliare ancora una volta le coscienze intorpidite: il suicidio di Jan Palach. Il 16 gennaio 1969 lo studente di Filosofia dell’Università Carlo si suicidò, dandosi fuoco. Il suo atto non fu tanto contro un preciso schieramento politico (il partito comunista), né un popolo in generale (i russi, di cui anzi apprezzava la lingua e la cultura), né la sola presenza sovietica, altrimenti avrebbe potuto attuarlo già in agosto, bensì contro l’avvio della “normalizzazione” e la lenta capitolazione di Dubček. Nelle sue parole è evidente la volontà di battersi per obiettivi realizzabili e concreti:
«In considerazione del fatto che i nostri popoli si sono trovati sull’orlo della disperazione, abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di risvegliare la gente di questo paese…Il nostro gruppo è composto di volontari, che sono decisi a darsi fuoco per la nostra causa. Io qui ho avuto l’onore di estrarre il numero 1 […] e quindi di essere la prima torcia. Le nostre richieste sono:
1. L’immediata abolizione della censura
2. Il divieto di diffondere “Zprávy”
Se le nostre richieste non verranno esaudite entro cinque giorni, cioè entro il 21 gennaio 1969, e se il popolo non interverrà mostrando un appoggio sufficiente (cioè con uno sciopero a tempo indeterminato), divamperanno altre torce […]».
Il suo gesto ebbe una grandissima eco in tutto il paese e avviò una diffusa mobilitazione degli studenti universitari e delle scuole superiori che si concretizzò in manifestazioni di giovani di tutte la classi sociali a Praga e in altre località. Si riallacciarono i contatti tra gli studenti e gli operai e si cominciò a parlare di una nuova grande manifestazione contro l’occupazione da svolgersi dal 20 al 22 gennaio. Nelle facoltà universitarie si svolsero assemblee in cui si discuteva animatamente di Jan Palach, del contenuto della sua lettera e dei Dieci Punti redatti lo scorso novembre. Altre iniziative rilevanti degli studenti in seguito al gesto di Palach furono le manifestazioni che si tennero a Ostrava e České Budějovice e lo sciopero della fame iniziato dagli studenti di Pedagogia di Praga. Come contromisura il governo organizzò una grande mobilitazione di forze armate e polizia, come non si vedeva dall’agosto 1968. Ciò intimorì gli studenti, che per paura di vedere chiuse le proprie facoltà rinunciarono ad altri interventi radicali.
Meraviglioso fallimento
Il 25 gennaio i funerali di Jan Palach, a cui parteciparono cinquecentomila persone, diventarono l’ultima, grande manifestazione politica anti-sovietica, prima del lento spegnimento della tensione creativa degli studenti e della società tutta. Ormai completamente delusi anche da Dubček, gli studenti, in disaccordo ora anche col partito, non riuscirono più a organizzarsi efficacemente e a unire le proprie rivendicazioni a quelle dei lavoratori e dei cittadini che stavano lentamente cedendo alla “normalizzazione”, e abbandonando l’idea di mantenere vivo il processo riformista di democratizzazione.
Il 21 e il 28 marzo 1969, dopo la “crisi dell’hockey”, la doppia vittoria della nazionale cecoslovacca su quella sovietica ai campionati mondiali di Stoccolma, vi fu un ultimo sussulto. Per le strade migliaia di cittadini si riunirono in manifestazioni spontanee e il movimento studentesco riprese per un momento vigore. La “crisi dell’hockey” rappresentò l’ultima fiammata di dissenso civile e studentesco: dietro la sua spinta gli studenti radicali cercarono di organizzare scioperi ed entrare in contatto con gli operai per contrastare “la politica di capitolazione” del partito comunista, ma senza risultato. Gli studenti stavano diventando come la maggior parte della popolazione, sfiduciati e apatici. Secondo Kieran Williams, essi erano «sostanzialmente anti-sovietici, ma prudenti. Valutavano la situazione da un punto di vista eminentemente realistico e non erano disposti a prendere rischi senza la certezza di un successo tangibile».
Neanche l’elezione di Husák alla carica di Segretario generale del Partito riuscì a scuoterli. Gli stessi riformatori sembravano ormai rassegnati. Il dissenso aveva esaurito la sua spinta propulsiva e giungeva al termine. Nonostante la forza dirompente delle loro rivendicazioni, la tensione rivoluzionaria degli studenti finì per spegnersi lentamente, fagocitata dalla plumbea e opprimente macchina statale.
Tuttavia il loro sforzo non fu vano, perché la loro mobilitazione creò un prezioso precedente replicabile e dimostrò che era possibile per un popolo unito opporsi a una super-potenza e liberarsi dalle proprie passioni tristi. Essi fallirono, ma meravigliosamente.
Bibliografia e sitografia
- Mark Kurlansky, 1968, l’anno che ha fatto saltare il mondo, Mondadori, Milano, 2004
- Guido Crainz, Il sessantotto sequestrato, Cecoslovacchia, Polonia, Jugoslavia e dintorni, Donzelli Editore, Roma, 2018
- Vittorio Foa, Questo Novecento, Einaudi, Torino, 1996
- Benedetto Spriola (a cura di), Togliatti e il comunismo antirivoluzionario, Edizioni Cremonese, Roma, 1975
- Santi Fedele e Pasquale Fornaro (a cura di) La Primavera di Praga, quarant’anni dopo, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, 2009
- Francesco Leoncini (a cura di) Alexander Dubček e Jan Palach, protagonisti della storia europea, Rubbettino Editore, Viale Rosario Rubbettino 10
- Luigi Scoppola Iacopini (a cura di), Praga 1968, la «Primavera» e la sinistra italiana, Bordeaux, Roma, 2014
- Golia Golan, The czechoslovak reform movement, Cambridge University Press, London, 1971