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Caso Khashoggi: il finto riformismo dell’Arabia Saudita

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Cecilia Valente

A pochi giorni da uno dei summit economici più importanti dell’anno, il Davos nel deserto, l’Arabia Saudita è tornata al centro dell’attenzione diplomatica e mediatica per il caso della scomparsa e uccisione del giornalista saudita Jamal Khashoggi, avvenuta lo scorso 2 ottobre presso il consolato dell’Arabia Saudita a Istanbul, in Turchia. Voce dissidente e scomoda per il regime di Riad, Khashoggi era noto a livello internazionale per le sue posizioni critiche nei confronti soprattutto del principe ereditario dell’Arabia saudita, Mohammed bin Salam (MbS). Nel 2017 l’uomo, da sempre attivo nella vita politica del suo paese, era stato costretto ad allontanarsi dall’Arabia Saudita e si era stabilito a Washington, diventando giornalista presso il Washington Post. La sua scomparsa ha immediatamente destato dei sospetti, visiti i suoi rapporti poco amichevoli con il regime saudita, e le indagini stanno pian piano confermando un quadro piuttosto preoccupante.

I fatti

Jamal Khashoggi viveva da circa un anno a Washington, dove svolgeva la sua attività giornalistica presso il Washington Post. Aveva conosciuto da poco, durante una conferenza, una donna turca, Hatice Cengiz con la quale aveva deciso di trasferirsi in pianta stabile in Turchia e di sposarsi. Per il matrimonio, dunque, il governo turco aveva richiesto al giornalista alcuni documenti che attestassero la validità del suo divorzio dalla precedente moglie. Documenti che avrebbe potuto fornirgli il consolato dell’Arabia Saudita presso Istanbul.

Secondo la ricostruzione dei fatti fornita dalla compagna dell’uomo, alle 13:00 dello scorso 2 ottobre, Jamal Khashoggi si è recato presso il consolato del suo paese accompagnato da Hatice Cengiz, rimasta però fuori dall’edificio, per ritirare i documenti necessari. Alle 16:30 circa, non vedendolo uscire, la donna ha avvertito le autorità turche facendo immediatamente scattare l’allarme per la scomparsa. Fin da subito è stato chiaro che non si trattasse di una semplice scomparsa e il 6 ottobre sono state le stesse autorità turche a dar voce ai sospetti, dichiarando di essere convinte che il giornalista fosse morto.

Manifestanti davanti al consolato saudita ad Istanbul.
Fonte: time.com

Le indagini sono attualmente in corso e i sospetti maggiori delle autorità turche ruotano intorno a un gruppo di sauditi che sarebbe arrivato in territorio turco proprio il giorno della scomparsa: alcuni degli uomini sono stati identificato e sarebbero riconducibili alle forze speciali saudite. Gli inquirenti parlano di audio e video in loro possesso che testimonierebbero il fatto che Khashoggi non è mai uscito dall’edificio, ma che anzi è stato torturato e ucciso e il suo corpo fatto a pezzi e trasportato su un van nero. Altre prove potrebbero arrivare dall’analisi dell’Apple Watch che il giornalista indossava quando è entrato nel consolato e che potrebbe aver salvato i dati sul Cloud collegato al telefonino della vittima.

Dunque, nonostante non ci siano ancora prove sufficienti, i principali imputati dell’uccisione del giornalista sono gli uomini collegati all’Intelligence saudita che avrebbero ovviamente agito sotto il mandato della casa reale e, in particolar modo, del principe ereditario MbS.

Le reazioni dei leader mondiali

Intanto, i leader politici ed economici mondiali attendono con il fiato sospeso una qualche svolta nelle indagini che suggerisca quali misure prendere nei confronti dell’Arabia Saudita. La notizia della scomparsa e della morte di Khashoggi è stata ripresa immediatamente dai media globali: all’iniziale cautela da parte dei governi occidentali si sta pian piano sostituendo l’impazienza di sapere chi c’è davvero dietro all’omicidio. Francia, Germania e Regno Unito in una dichiarazione congiunta hanno chiesto al governo turco di portare avanti “un’indagine credibile” sul caso, mentre Donald Trump ha fatto sapere di essere “pronto a punire Riad” nel caso l’ipotesi di colpevolezza del governo saudita sarà confermata. Da Riad, intanto, si dicono disposti a reagire alle eventuali misure punitive che verranno prese nei confronti del paese.

Dunque, perché l’Arabia Saudita avrebbe dovuto mettere a rischio le relazioni diplomatiche con i suoi principali partner occidentali per reprimere un oppositore?  A chi fa comodo l’uccisione di Jalam Khashoggi? Senza alcun dubbio, alla famiglia reale saudita. Il primo sospettato per essere il mandatario dell’omicidio è infatti MbS, la stessa persona che è stata spesso acclamata dai media occidentali come portatore di politiche riformiste e che predica un Islam moderato.

Il finto riformismo di MbS

Mohammed bin Salman, principe ereditario dell’Arabia Saudita.
Fonte: CNBC.com

Mohammed bin Salman, figlio dell’attuale re saudita Salman, dopo aver scalato i ranghi della famiglia reale, si è fatto nominare principe ereditario dell’Arabia Saudita nel 2017. Attualmente è la figura di maggior rilievo della politica saudita e ricopre anche la carica di Ministro della Difesa. Nel 2016, come Presidente del Consiglio per gli Affari Economici e di Sviluppo,  aveva lanciato il progetto Vision 2030. Un piano economico volto a diversificare l’economia saudita e slegarla dall’andamento del prezzo del petrolio: prevede una serie di riforme di liberalizzazione economica, di incentivi ai settori dell’intrattenimento e del turismo, ma anche un aumento di tasse e tariffe su beni di lusso e pedaggi autostradali.

Le prime riforme effettuate, come la riapertura dei cinema che ha messo fine ad una censura cinematografica durata 35 anni, o il diritto per le donne di guidare, sono state accolte dall’occidente come importanti segni di riformismo sociale. Qualcuno parlava addirittura di “primavera saudita”, non tenendo però conto di quello che sta accadendo realmente all’interno del paese. Le intenzioni del principe ereditario non sono certamente quelle di democratizzare il paese o renderlo più occidentale. A una liberalizzazione in campo economico, infatti, si affianca una pesante repressione dei diritti civili e di chiunque provi ad intaccare il suo potere o si opponga al regime. Appena un anno fa, nel novembre 2017, decine di politici sauditi sono stati arrestati dall’appena costituita “commissione anti-corruzione” e trattenuti per settimane in un Hotel della capitale, trasformato per l’occasione in una “prigione di lusso”, affinché restituissero dei presunti beni sottratti allo Stato.

Come dimostra il caso Khashoggi, la lotta del regime contro i suoi oppositori non si è conclusa con quella retata, ma continua quotidianamente. MbS si è dimostrato disposto a usare qualsiasi mezzo per eliminare la voce di chiunque critichi il regime. L’obiettivo è dunque quello di creare uno stato totalitario dove la figura del principe sia assimilabile a quella dello Stato stesso e dove nessuno abbia la possibilità di intaccare il suo potere centrale.

A cosa sono servite dunque le riforme portate avanti negli ultimi anni dall’Arabia Saudita? A mettere fumo negli occhi del resto del mondo. MbS ha bisogno che il suo paese abbia un’immagine presentabile da sottoporre alle potenze globali nei vari tavoli di trattativa. E la sua strategia ha funzionato, in parte: l’Arabia Saudita è sempre più tenuta in considerazione dai leader mondiali, soprattutto per le questioni economiche. I media occidentali hanno inoltre accolto la finta ondata riformista con grande positività, non tenendo conto di ciò che realmente si nasconde dietro la facciata progressista e moderata.

Cosa succederà adesso?

Cruciale per l’Arabia Saudita è dunque mantenere dei buoni rapporti con le potenze mondiali e, in particolar modo, con gli Stati Uniti, suo principale alleato in occidente. Dopo gli anni dell’amministrazione Obama, in cui i rapporti tra i due paesi sono stati ai minimi storici, anche a causa della conclusione dell’accordo sul nucleare iraliano, le relazioni diplomatiche sono migliorate notevolmente con il nuovo inquilino della Casa Bianca. Donald Trump, per sottolineare il cambio di tendenza con la precedente amministrazione, ha fatto il suo primo viaggio all’estero proprio in Arabia Saudita e ha più volte parlato in termini positivi del principe ereditario MbS.

Mohammed bin Salman e Donald Trump.
Fonte: limesonline.com

Gli interessi in gioco sono sicuramente molteplici, ma un punto chiave dei rapporti tra i due paesi è la loro comune ostilità nei confronti dell’Iran. L’Iran è infatti il nemico storico dell’Arabia Saudita, in quanto è l’unico stato della regione realmente in grado di giocarsi la leadership medio-orientale. Per adesso, la situazione diplomatica sembrerebbe portare vantaggi ad entrambi i paesi: Trump, dopo aver annullato l’accordo sul nucleare iraniano, ha bisogno di un appoggio forte in Medio Oriente per spingere l’Iran all’isolazionismo, mentre l’Arabia Saudita può godere di un partner internazionale potente come gli Stati Uniti per far valere i suoi interessi nell’area. Per cui, fino ad adesso il presidente statunitense ha sempre tentato di far passare inosservate tutte le forzature interne che stava mettendo in atto Mohammed bin Salman, evitando di parlare della questione democratica o del rispetto dei diritti umani nel paese.

Con la recente scomparsa del giornalista dissidente Jalam Khashoggi, la situazione è però cambiata. Se i governi mondiali, nonostante le dichiarazioni minacciose, si stanno ancora muovendo con cautela, la vicenda sta avendo ripercussioni immediate sull’economia saudita. Alcuni imprenditori, tra cui il fondatore della Virgin Group Richard Branson, hanno già dichiarato di voler interrompere i loro piani di investimento in Arabia Saudita. Mentre altri importanti attori economici – governi, imprenditori, testate editoriali – stanno seriamente pensando di boicottare il cosiddetto Davos nel deserto, il summit economico programmato a Riad dal 23 al 25 ottobre prossimi.

È chiaro che il caso Khashoggi non può essere considerato una normale controversia tra uno Stato e un suo cittadino, ma, dato il suo sviluppo, è destinato ad avere ripercussioni diplomatiche ed economiche globali in una area geopolitica estremamente delicata come il Medio Oriente.

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