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Blood on the Tracks: l’album di Dylan diventerà un film

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Vittorio Comand

Lo ha annunciato Luca Guadagnino in un’intervista pubblicata sul New Yorker il 15 ottobre scorso: il regista italiano dirigerà un film basato su un disco di Bob Dylan, Blood on the Tracks, realizzato nel 1975. Dopo il successo ottenuto l’anno scorso con Chiamami col tuo nome e la presentazione del remake di Suspiria all’ultima edizione della Mostra del cinema di Venezia, Guadagnino è già immerso in nuovo progetto cinematografico. L’idea è partita da uno dei produttori di Chiamami col tuo nome, Rodrigo Teixeira, il quale ha messo in contatto Guadagnino con lo sceneggiatore Richard LaGravenese affinché realizzassero una pellicola basata sul celebre album di Dylan. Per capire meglio cosa aspettarsi da questo nuovo progetto del cineasta italiano, andiamo quindi ad analizzare il contenuto di Blood on the Tracks, uno dei più celebri lavori della discografia del cantautore americano.

L’iconico profilo di Bob Dylan sulla copertina di Blood on the Tracks.

La nascita di Blood on the Tracks

Nel 1974, Dylan si trova in un momento molto delicato della sua vita: la relazione con la moglie Sara Lownds è ormai agli sgoccioli e la lontananza dovuta al tour con la Band appena conclusosi non fa altro che peggiorare il rapporto fra i due. A quel punto, Dylan inizia a frequentare un’impiegata della Columbia Records, etichetta a cui è appena tornato dopo due anni sotto la Asylum. Inoltre, Dylan coltiva l’hobby della pittura seguendo le lezioni dell’artista Norman Raeben a New York. L’incontro con Raeben si rivelerà fondamentale per il cantautore, che inizia così a scrivere utilizzando un approccio più introspettivo, maggiormente in grado di descrivere i suoi sentimenti più reconditi e allo stesso tempo capace di raccontare una vicenda da diversi punti di vista. Inizia così a lavorare su nuove canzoni, di cui ultimerà la stesura nell’estate del 1974.

Le prime sessioni in studio si svolgono fra il 16 e il 19 settembre del 1974 sempre a New York, presso gli A & R Studios: nonostante prima volesse un accompagnamento maggiormente elettrico, Dylan alla fine opta per un arrangiamento acustico scarno, molto simile a quello dei suoi primi dischi. A meno di un mese dalla pubblicazione del disco, prevista prima di Natale, Dylan fa ascoltare in anteprima quanto registrato al fratello, David Zimmerman, il quale però insiste che ci sia qualcosa che non va e intima al cantautore di tornare in studio. Verso la fine di dicembre Dylan reincide cinque dei dieci brani del disco a Minneapolis, rendendo i brani meno monotoni con l’aggiunta di più strumenti e rischiarando l’atmosfera molto cupa creata dalla versione originale. Il disco viene pubblicato il 20 gennaio del 1975.

Blood on the Tracks è stato definito un album da separazione, per il tema di fondo dell’amore che finisce che si presenta insistentemente e per la situazione personale di Dylan al momento della composizione dei brani. Lo stesso Jakob Dylan, figlio di Bob e Sara, ha dichiarato che ascoltare l’album gli riporta alla mente le discussioni dell’epoca dei suoi genitori, ma il padre ha sempre negato che ci fossero elementi autobiografici nel disco in questione, sostenendo invece di essere stato ispirato principalmente da alcuni racconti di Čechov.

Lato A

Blood on the Tracks si apre con Tangled Up in Blue, singolo pubblicato in anteprima il 17 gennaio, nonché uno dei brani meglio riusciti dell’intero disco: in questa traccia il concetto di tempo si dissolve, con il presente, il passato e il futuro che coesistono nello stesso momento. Il soggetto del brano cambia in ogni strofa e l’utilizzo esclusivo di semplici pronomi nel testo al posto di nomi propri rende la vicenda narrata, allo stesso tempo, sia di difficile lettura che universale. Questo schema narrativo e metrico si ripresenta continuamente in tutto il disco. Ciò che sembra filtrare dal criptico testo è che si parli di un amore tormentato, ancora vivo ma interrotto dalle circostanze, dove sono appena abbozzati, in ordine sparso, alcuni momenti della relazione.

Simple Twist of Fate presenta una formula identica al brano precedente: a cambiare drasticamente è l’accompagnamento, realizzato solamente da chitarra, basso e armonica, in quanto è una delle cinque canzoni che non sono state modificate a ridosso dell’uscita da Dylan. Già nei primi due brani si coglie la grossa differenza fra le due sessioni in studio: le tracce registrate a Minneapolis contengono maggiori dettagli, sono più sofisticate e hanno dei toni più ammorbiditi, principalmente grazie all’innesto dell’organo elettrico, mentre quelle di New York, così spoglie ed essenziali, mettono a nudo l’animo del musicista in tutta la sua fragilità.

A chiudere il lato A del disco ci sono You’re a Big Girl Now, straziante ballata in cui gli arpeggi di chitarra si intrecciano con le delicate note di un pianoforte, Idiot Wind, sfogo disperato e polemico che si conclude però con una nota di indulgenza, e You’re Gonna Make Me Lonesome When You Go, confessione a cuore aperto di tutto il dolore causato dalla fine di un’amore.

Lato B

Meet Me in the Morning, un lento e lamentoso blues, genere che per eccellenza affronta la sofferenza e la malinconia e, di conseguenza, assolutamente coerente con l’atmosfera di Blood on the Tracks. C’è invece un cambio totale di prospettiva nella lunga e incalzante Lily, Rosemary and the Jack of Hearts, brano country di ambientazione western dove due donne si innamorano di uno straniero appena arrivato in città. Il brano è assai semplice dal punto di vista armonico e melodico, ma è la trama del racconto a essere particolarmente intricata e a snodarsi fra colpi di scena e beffe del destino. La successiva If You See Her, Say Hello è la struggente dichiarazione di un innamorato che, pur soffrendo terribilmente, si fa da parte e lascia che la sua donna faccia ciò che la rende felice. Il sincero lamento di Dylan si riversa sempre più forte, fino a culminare in un disperato grido d’aiuto nel finale.

La vera perla di questo lato è però Shelter from the Storm: la visione di una donna in mezzo a una metaforica tempesta riesce a salvare il protagonista; dopo breve tempo però l’io narrante si ritrova nuovamente perduto, abbandonato dalla sua salvatrice. In questo brano, in cui si può leggere un probabile richiamo alla donna angelo stilnovista (come suggerirebbe Tangled Up in Blue, quando cita un «Italian poet from the thirteenth century»), vi è un’assoluta e consapevole vulnerabilità da parte di Dylan, principale vittima di se stesso e solo ad affrontare il mondo con la sua chitarra. Nonostante la sofferenza che imperversa per tutto l’album, Dylan decide di chiudere Blood on the Tracks con una nota rosea: Buckets of Rain non parla di separazione, anzi, è una dolce promessa di amore incondizionato. Una fioca luce di speranza dopo una lunga notte di disperazione.

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