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Cristo si è fermato a Eboli: viaggio in una terra senza tempo

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Alfonsa Laonigro

Lucania, 1935. L’intellettuale antifascista Carlo Levi arriva a Grassano, piccolo borgo tra i monti materani. Presto sarà di lì trasferito a Gagliano – ufficialmente nota come Aliano – dove concluderà il suo periodo di allontanamento forzato da Torino, sua città natale. Levi è infatti un personaggio scomodo: la sua attività di contestazione politica al fianco di antifascisti eminenti, come Gobetti e i fratelli Rosselli, non era passata inosservata al regime, che per questo lo condanna a scontare un periodo di confino nel profondo Sud. Così, Levi trascorre circa un anno lontano da casa, dalla famiglia e dagli amici, finché nel 1936 il regime, sulla scorta dell’entusiasmo collettivo per la conquista dell’Etiopia, gli concede la grazia. Ma solo a distanza di tempo Levi richiamerà alla memoria i ricordi del suo «esilio in patria» e li trasformerà in quel romanzo unico che dà avvio alla tradizione del realismo italiano del Novecento, raccolta poi in chiave borghese da Moravia.

La stesura di Cristo si è fermato a Eboli – in cui, invece, non v’è nulla di borghese – inizia nel 1943, a sette anni di distanza da quell’esperienza che tanto aveva segnato lo scrittore torinese. Giulio Einaudi, editore e amico personale di Levi, pubblicherà l’opera nel 1945. Più di trent’anni dopo Francesco Rosi, regista tra i più illuminati del neorealismo italiano, ne curerà la trasposizione cinematografica, interpretata magistralmente da Gian Maria Volontè. C’è dunque un ampio scarto temporale tra l’esperienza narrata (1935-36) e il suo racconto (1943-44). Uno scarto di cui Levi dà subito conto nell’incipit dell’opera: «Sono passati molti anni, pieni di guerra, e di quello che si usa chiamare la Storia». L’autore sembra quasi evocare una frattura irriducibile tra la «Storia» delle nazioni, delle battaglie, dei grandi uomini, degli eventi memorabili, e la «storia» degli ultimi, delle terre aride e dimenticate, di chi non ha nome, di chi fa parte di un mondo «negato alla Storia e allo Stato».

Carlo Levi (Gian Maria Volontè) arriva a Grassano scortato dai carabinieri in «Cristo si è fermato a Eboli» di Francesco Rosi (1979).

L’opera di Levi si regge su un meccanismo tanto semplice quanto originale: raccontare la storia di chi è senza Storia. In ciò consiste la sua «rivoluzione contadina», per usare una felice espressione di Calvino; e in tal senso è possibile ravvisare in Cristo si è fermato a Eboli tratti molto simili al verismo di Verga e De Roberto. La prosa di Levi è esasperatamente concreta: pietre battute dal sole, immense cave d’argilla di un bianco accecante, distese sconfinate di terra senz’alberi. Quello dei calanchi è un paesaggio brullo, desertico, spogliato dalla massiccia opera di disboscamento necessaria a fornire legno e carbone alle industriose regioni settentrionali. Le quali appartengono a un altro mondo, totalmente diverso da quello lucano, e comunque meridionale; le due realtà sono legate da un tratto di penna su un foglio bianco, da quell’Unità d’Italia che, settant’anni dopo il 1861, si ostina a esistere solo sulla carta.

La più recente edizione del romanzo (Einaudi 2014).

Ogni pagina dell’opera di Levi sembra confermare, in effetti, la celebre dichiarazione del cancelliere von Metternich per cui «l’Italia è una mera espressione geografica». A conferma di ciò val bene ricordare, come nota lo storico inglese Mack Smith, che i ministri del Regno d’Italia si astennero sempre, finché possibile, dal recarsi personalmente nel meridione. Sin dall’Unità, e soprattutto in era fascista, la questione meridionale è stata oggetto di un ostinato negazionismo, che ha permeato di sé tutte le legislature del Regno – a dispetto degli sforzi dei meridionalisti come Fortunato, Amendola e Salvemini, non a caso convinti antifascisti – per iniziare ad acquisire dignità solo con l’avvento della Repubblica. E infatti, quando Carlo Levi arriva in Lucania – toponimo ripreso ufficialmente dal fascismo in luogo del più noto «Basilicata», tuttora in uso – la questione meridionale è ancora chiusa fuori dalle stanze del potere. Lo dimostrano le condizioni di vita della popolazione locale, che, all’epoca dei fatti, rasentano la barbarie: a Matera, oggi Capitale europea della cultura, le famiglie vivono ammassate con capre e maiali in grotte buie scavate tra i Sassi. Solo a partire dal 1948 la questione verrà portata in Parlamento, a opera di Togliatti prima e De Gasperi poi; il loro impegno condurrà alla ratifica della legge nazionale sullo sfollamento (1952) che disporrà lo sgombero dei Sassi e la costruzione di nuovi quartieri residenziali. Ma mentre Levi è al confino, e mentre il quadrilatero industriale di Milano, Torino e Genova spinge l’Italia verso il progresso, Matera è una stalla a cielo aperto.

Gian Maria Volontè sul set del film. Tra i protagonisti figurano Lea Massari e Irene Papas.

«Noi non siamo cristiani, – essi dicono, – Cristo si è fermato a Eboli». È dunque questa un’umanità disumana, una congerie di bestie travestite da uomini; a sud di Eboli la civiltà non è mai arrivata, non è arrivata l’industria, il progresso, la politica. Si è rimasti cristallizzati in un tempo al di fuori dal tempo. Contadini e massaie tirano a campare, senz’altra pretesa che di arrivare a fine giornata; c’è «il grano da crescere, i campi da arare», per citare un verso di Luigi Tenco. Nessun margine per altri pensieri, meno che mai per la politica, che è una parola vuota, un’entità astratta, estranea al popolo e indifferente alle sue sventure. Levi non ne fa certo mistero: «per la gente di Lucania, Roma non è nulla: è la capitale dei signori, il centro di uno Stato straniero e malefico». Roma fa da contraltare all’America, terra di emigranti, da tutti intesa nella doppia veste di inferno e paradiso, luogo di fatica e di speranza; ma pur sempre qualcosa di concreto, un albero che dà frutto. Non una terra arida e desolata, com’è Roma in senso politico e com’è Aliano coi suoi calanchi.

Ma tra i vicoli dei villaggi lucani non c’è solo miseria. Ogni gesto, ogni rito, ha un sottotesto di magia e mistero, che rende il Sud «stregonesco» e sconosciuto. Le pagine in cui Levi dà conto di questa realtà sono forse tra le migliori dell’intero romanzo, perché è qui che lo scrittore torinese, già medico e pittore, si fa pure involontario etnologo. Il popolo lucano vive di ritualità sue proprie, e nutre convinzioni che oggi – ma già negli anni Trenta, e anzi sin dall’Illuminismo – non esiteremmo a definire antiscientifiche. Ma anche il razionalismo delle Accademie si è fermato a Eboli: qui ogni paese ha le sue streghe, donne capaci di oscuri sortilegi, di preparare misteriosi filtri per far innamorare, guarire o uccidere. Nessuno se ne meraviglia; anzi, è un fatto ovvio. Di fronte a una realtà tanto curiosa, che sarebbe fin troppo facile liquidare come «selvaggia» e arretrata, Levi ha il merito di non ergersi a giudice, ma di conservare lo sguardo partecipe e attento dell’acuto osservatore, che non teme di lasciarsi stupire. Ecco allora che il lettore trova facilmente, incastonate tra una pagina e l’altra come gemme preziose, piccole notazioni di antropologia culturale: riti e miti tipici del luogo, che raccontano la realtà locale più di ogni rapporto statistico – destinato a rimanere chiuso nel cassetto di qualche ministro – su tassi di analfabetismo e condizioni igienico-sanitarie del Sud. La narrazione di Levi è resa preziosa dal fatto di essere concreta, vissuta in prima persona, sia pure non in presa diretta, ma, come si è detto, in differita, sette anni dopo l’epoca dei fatti. In questo senso, Cristo si è fermato a Eboli infligge un colpo mortale a tutti gli «antropologi da tavolino», coloro che si occupano di studi demo-etno-antropologici lavorando su materiale di seconda mano, raccolto da altri, senza recarsi sul campo.

Carlo Levi (Torino, 1902 – Roma, 1975). Per sua precisa disposizione, l’autore è sepolto nel cimitero di Aliano.

L’equilibrio tra narrazione e descrizione è, nell’opera di Levi, ben bilanciato; il racconto della vicenda è inframmezzato da excursus visivi, pieni di colori, estremamente vividi, che rendono giustizia agli ambienti e ai paesaggi locali. Altrettanto realista è il già citato film di Francesco Rosi (1979), vincitore di due David di Donatello e girato in Basilicata, nel piccolo villaggio di Craco – poi scelto da registi come i fratelli Taviani e, più recentemente, Mel Gibson – e nei comuni di Aliano e Pisticci. Cristo si è fermato a Eboli è dunque un romanzo «di cronaca», che permette di conoscere una realtà molto più vicina, e molto più sconosciuta, di quanto si possa pensare.

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Alfonsa Laonigro

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