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L’eredità della guerra civile in Siria e il summit di Istanbul

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Carlo Paganessi

La guerra civile siriana entra nel suo settimo anno mentre Germania, Russia, Turchia e Francia si sono riunite presso Istanbul per discutere dei possibili scenari di pace e dell’eventuale assetto istituzionale che la Siria avrà dopo la fine del conflitto, da raggiungersi attraverso mezzi politici e non militari. Si è cercata quindi una soluzione politica e non militare al conflitto per fermare la carneficina che ha provocato oltre mezzo milione di morti, sette milioni di rifugiati interni e 5 milioni di rifugiati all’estero. In tutto questo lo Stato Islamico, per lunga parte del conflitto autentico spauracchio delle potenze occidentali, è quasi sparito dalla carta politica della Siria, confinato in una sacca desertica a sud di Deir Ezzor.

La fine dello Stato Islamico in Siria non ne comporta in alcun modo la fine a livello globale. Ad oggi l’Isis è presente con un controllo attivo del territorio in Libia, Nigeria, Afghanistan e Yemen. Il gruppo fondamentalista è presente con i propri effettivi “sommersi” (quindi non con compiti di comando e controllo del territorio ma di semplice sovversione) in molti altri paesi che vanno dal Nord Africa, all’Europa, all’Estremo Oriente. Nei territori liberati in Siria, tuttavia, i danni prodotti sono enormi e non solo dal punto di vista meramente economico.

Durante la propria fase “territoriale” in Siria lo Stato Islamico ha cercato di creare una società modellata a immagine e somiglianza della comunità di credenti primigenia dell’Islam, ovvero i compagni del profeta Maometto. Il tentativo di riportare i valori e i concetti fondanti della società higiazena del VII secolo ha prodotto un generoso indottrinamento della popolazione, con una particolare enfasi diretta verso le fasce più giovani della popolazione, anche volto ad un diretto inquadramento nei ranghi combattenti dei bambini.

Bambino soldato durante un’esecuzione di ostaggi in Siria. Al Jazeera.

Il “piano di studi” di un bambino medio residente nell’area occupata dallo Stato Islamico era determinato direttamente dal Diwan al Ta’aleem, il Ministero dell’Educazione. Le materie anteguerra come Nazionalismo, storia, disegno, musica, filosofia e studi sociali furono rimpiazzate dalla memorizzazione del Corano, dal fiqh (giurisprudenza), dallo studio della vita del profeta Maometto, dal tahweed (monoteismo) e dalla salat (preghiera). Persino Educazione fisica venne rinominata “allenamento Jihadista” e includeva nozioni sulla manutenzione e l’utilizzo delle armi da fuoco. I bambini che, per un motivo o per un altro, rifiutavano di conformarsi venivano torturati e uccisi.

I bambini che vengono sottratti allo Stato islamico spesso mostrano gli stessi problemi dei bambini che hanno subito forti stress e devono essere inseriti in programmi di rieducazione e deradicalizzazione. Il governo di Damasco non è in grado di provvedere all’istituzione di programmi di questo tipo e spesso questo tipo di problematiche non vengono corrette adeguatamente. In altri casi, questi bambini sono stati portati nei territori assoggettati allo Stato Islamico dai genitori residenti in Europa, dove hanno fatto ritorno e sono stati inseriti dalle autorità dei vari paesi nei suddetti programmi. Chi rimane in Siria solitamente diventa un soggetto a rischio di ricadute e di ritorno nell’alveo fondamentalista.

Veduta di Idlib dall’alto nel Luglio del 2017. Reuters.

Oltre ai danni sociali il conflitto ha lasciato di sé un’inevitabile scia di danni materiali: la battaglia per riprendere Raqqa combattuta dai miliziani curdi dell’YPG e di altre sigle è stata tra le più dure di questi sette anni di conflitto. La distruzione delle infrastrutture necessarie per le operazioni belliche ha cancellato l’economia del paese e saranno necessari notevoli investimenti per ricreare la situazione precedente, già poco rosea a causa delle politiche economiche volte a favorire chi avesse connessioni con la famiglia Assad intraprese nella seconda metà degli anni 2000.

Il vertice di sabato scorso si è concentrato principalmente sulla necessità di trovare un accordo per il cessate il fuoco ad Idlib, dove al momento le forze governative stanno assediando la città nel tentativo di strapparla al controllo delle forze islamiste delle sigle autonome non appartenenti né ad Al Qaeda né allo Stato Islamico. L’assedio rischia di generare una notevole crisi umanitaria a causa della scarsità di cibo che riesce a entrare in città. Durante la conferenza stampa conclusiva il presidente francese Macron ha fatto pressioni su Putin, alleato di Assad, affinché favorisse un cessate il fuoco e sospendesse l’attacco alla città.

Sempre durante la conferenza stampa, Angela Merkel ha auspicato la creazione di un nuovo comitato costituente in grado di redigere una nuova costituzione prima della fine dell’anno che conduca a nuove elezioni libere, al contrario di quelle che si tenevano sotto il regime di Assad, poco più che conferme del potere in vigore. Si è trattato anche di precondizioni per il ritorno dei rifugiati, con la speranza che chi è dovuto fuggire dal paese possa farvi ritorno in piena sicurezza e senza il timore di ritorsioni.

Putin e Macron, presidenti di Russia e Francia. Reuters.

Altro punto trattato durante il summit è la necessità di garantire una situazione sicura alle organizzazioni umanitarie che devono entrare nelle zone maggiormente colpite dal conflitto: in cima ad una lunghissima lista ci sono Idlib e Douma, provate da assedi che proseguono da diverso tempo. Il compito delle organizzazioni umanitarie, tuttavia, deve essere solo quello di gestire l’emergenza e ritirarsi, per evitare una possibile “dipendenza” dei siriani da questo tipo di aiuti internazionali che il paese sarà con ogni probabilità costretto a percepire per diverso tempo prima di risollevarsi, qualunque sia l’assetto istituzionale che il paese si darà.

Al termine del summit rimangono inoltre notevoli preoccupazioni sulla stabilità delle previsioni e sulle promesse che sono state effettuate. Assad si trova ad avere una ampia estensione territoriale che può mantenere solo grazie all’intervento iraniano e russo: questo rende la posizione della Russia predominante nel conflitto e, inevitabilmente, nella gestione dell’assetto post-bellico. La vera domanda conclusiva di questo summit è quanto ci si può fidare di due broker come Turchia (che appoggia i ribelli islamisti) e Russia? La risposta la danno gli interessi che le rispettive potenze hanno nel novero delle proprie relazioni internazionali: Mosca detiene ancora la Crimea e a causa di questo subisce a tutt’oggi delle sanzioni dall’Unione Europea, mentre la Turchia ha recentemente subito una svolta autoritaria che l’ha portata ai margini dello scacchiere europeo e ai margini dell’alleanza atlantica. Quello maturato la scorsa settimana sembra, a tutti gli effetti, un prospetto di tregua piuttosto fragile.

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Carlo Paganessi

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