Settembre 2018, la Biennale Cinema di Venezia ospita la settantacinquesima edizione del festival cinematografico più antico al mondo: tuttavia gli illustri e numerosi ospiti, illuminati “aristocratici” della settima arte, sono per la prima volta costretti a condividere spazi e premi col nuovo e pericoloso “terzo stato” dello streaming. Un avversario temibile, questo nuovo intrattenimento multimediale, che racimola imperterrito ascolti e incassi miliardari da un pubblico comodamente sdraiato sul divano. E se già la convivenza di cinema da sala e cinema da casa sembrava difficile e tendenzialmente ostile, l’assegnazione al secondo delle prestigiose statuette risulta quantomeno sacrilega agli occhi del primo: ed è proprio quello che è successo nel corso della più recente edizione della ricorrenza veneziana, competizione che ha visto trionfare come miglior film Roma di Alfonso Cuaron, pellicola firmata e distribuita da Netflix.
Accessibilità, protezionismo e altre scuse
Non hanno ovviamente tardato le proteste del cinema tradizionale: con una lettera indirizzata al direttore della Biennale Alberto Barbera (reo di aver egli stesso acconsentito ad includere i film delle piattaforme streaming nel concorso, così dissociandosi dalla linea di chiusura adottata invece dal festival di Cannes), le varie ANAC, ANEM, FICE, e ACEC protestavano contro la scelta della giuria di aggiudicare un Leone D’oro ad una pellicola non destinata alla visione in sala, imperniando il reclamo su una questione di accessibilità. Ebbene sì, accessibilità, perché a lor dire, in un’Italia che vanta il 71,6% della popolazione connessa a Internet, è iniquo dare visibilità a film con utenza “circoscritta” ai soli abbonati al servizio online. Certo è che protestare in forza dell’accessibilità come criterio per eleggere il vincitore non è proprio la scelta razionalmente più conveniente, visto e considerato che un abbonamento mensile Netflix – con potenziali visioni di film e serie illimitate e la possibilità di condividere la spesa con altri quattro utenti – costa quanto un biglietto al botteghino o la benzina necessaria a raggiungere il cinema più vicino. Per chi a questo punto non avesse ancora denotato una certa incoerenza nelle parole del comunicato, qualche riga dopo ANAC e compagnia si decidono finalmente a tradirsi e a svelare l’arcano: la piattaforma di streaming americana «sta mettendo in difficoltà il sistema delle sale».
Ma allora c’è da chiedersi come sia possibile che il medesimo servizio non abbia destabilizzato proprio l’industria statunitense, visto che l’utenza yankee rappresenta il 44,8% degli abbonati. In fin dei conti c’è un divario di soli 40 centesimi tra il prezzo medio del biglietto italiano e quello americano, quindi cos’è che cambia tra l’uno e l’altro sistema? Forse – e c’è da farci i conti – è proprio la qualità del prodotto autoctono che non regge il confronto con quello estero. L’Italia ha preso la fatidica decisione di fare esclusivamente cinema “individuale”, cioè incentrato sulla sola – e spesso nemmeno ben approfondita – introspezione di un protagonista combattuto tra inerzia e dilemmi esistenziali: niente biopic di personaggi storici, niente war-movies, niente investimento nell’industria della computer grafica, niente esplorazione della cultura del fumetto italiano, niente sprazzi di patriottismo; per un verso o per l’altro, c’è l’univoco sfondo della buia attualità in cui collocare un personaggio stereotipato pensato per essere la personificazione di un qualche delitto da rimproverare alla società.
Sicuramente, gli italiani si abbonano a Netflix anche per sperimentare l’ebrezza di pagare un canone televisivo volontariamente e non perché incorporato nella bolletta della luce, ma la causa reale è da ricercarsi proprio nelle discutibili scelte stilistiche della recente cinematografia italiana, ormai ridotta a faziosa industria dell’analisi sociale, della comicità spiccia e del vacuo moralismo. L’immobilità descrittiva del nostro grande schermo stanca, perché non si ingegna ad articolare storie valide, sceneggiature un minimo complesse, personaggi tridimensionali e guidati da scopi credibili, o valori da promuovere che non siano veicolati dal pentimento di un protagonista criminale. Il tutto sotto lo sguardo difensivo della critica e degli esperti, sempre pronti a cogliere un’inquadratura interessante, ma ora più che mai dimentichi del fatto che i soldi si fanno col portafogli dello spettatore e non con le elucubrazioni del cultore di nicchia.
Finite le idee buone, ma le cattive vanno ancora
Ma volendo dar corda alle accuse dell’ANAC, vediamo quale equilibrio Netflix rischia veramente di smuovere. Domanda lecita: quali sono i format autoctoni che, secondo le statistiche dell’all-time box office, dominano il mercato italiano? La risposta è Zalone (159 milioni di incassi), Cinepanettone (193 milioni di incassi), Verdone (peraltro quello recente, non di certo il classico dei tempi di Brega) e Pieraccioni (117 milioni di incassi); a questi si aggiungano i meritati introiti di alcuni classici della commedia targati Aldo Giovanni e Giacomo. E delle pellicole ricercate, di quelle che competono per premi e concorsi? Nemmeno l’ombra. C’è un Benvenuti al Sud qua e un Perfetti sconosciuti là… ma niente format originali che non siano importati dal cinema francese insomma. Questo a dimostrare che i format di maggior successo (più popolari e, volendo, di inferiore qualità) hanno sèguito a prescindere dal servizio streaming o dalla concorrenza d’importazione americana, perché vantano ormai un proprio pubblico definito e consolidato.
Ed è guardando questi numeri che si comprendono le ragioni della moria qualitativa che attanaglia la settima arte italiana: se al palato dell’acquirente stuzzica solo Zalone, Verdone, Pieraccioni e Cinepanettone – un “one” vale l’altro, potremmo dire – non dobbiamo stupirci della risposta del mercato. Se piace più il format ripetuto rispetto a un’idea nuova e originale, se la volgarità e l’umorismo di terz’ordine surclassano ogni possibile concorrenza, non possiamo poi pretendere tanto la diversità quanto la qualità: ecco che rappers e youtubers assurgono al ruolo di attori in erba scavalcando le fila di giovani che dedicano anni alla gavetta; ecco che Sorrentino piega di qualche grado la camera su un dettaglio per più di cinque secondi e la critica scomoda Kubrick per fare paragoni inappropriati; ecco che, a corto di figure identitarie forti e convincenti, il piccolo e il grande schermo esportano fieramente la peggiore delle stereotipizzazioni italiche, il mafioso 2.0 della suburra romana o della gomorra napoletana.