In occasione dei lavori della conferenza “Italia: i futuri possibili”, organizzata dall’associazione Invenicement con il supporto dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, che si terrà il 15 novembre 2018 e di cui trovate la locandina in calce all’intervista, theWise ha avuto il piacere di scambiare due parole con gli ospiti principali dell’evento, gli economisti Carlo Cottarelli e Michele Boldrin. Referendum Atac, governo, DEF e pensioni sono solo alcuni dei temi sui quali i due economisti si sono soffermati in queste lunghe chiacchierate con Francesco Stati; in questo articolo vi proponiamo l’intervista integrale al professor Cottarelli. Si ringraziano Paride Rossi e Andrea Tosatto per la collaborazione tecnica e la disponibilità.
Le è piaciuta la nostra copertina [pensata da Jacopo Castelletti al momento della nomina di Giuseppe Conte a Presidente del Consiglio, N.d.R.]?
«Sì, l’ho vista! Non ho capito però perché dovrei essere l’uomo più felice del mondo… [ride, N.d.R.]. Non sarò il più felice, ma sono molto impegnato e sicuramente non mi annoio in quello che sto facendo. In questa fase della mia vita mi trovo a girare un po’ per tutta Italia a parlare come un predicatore: non mi lamento!».
Qual è stato il suo ruolo nella crisi istituzionale che ha visto la nascita del governo “gialloverde”? Cosa l’ha spinta a dare la sua disponibilità per un incarico che, in passato, è costato molto alla reputazione di suoi illustri colleghi come Mario Monti?
«In realtà, dal punto di vista istituzionale, il mio ruolo sarebbe stato diverso da quello di Monti. Avrei soltanto dovuto guidare un governo per traghettare il Paese verso nuove elezioni: si sapeva che non avrei avuto la fiducia del Parlamento e che quindi avrei dovuto gestire unicamente l’ordinaria amministrazione dello Stato. Era un compito molto ben delineato, avrei accettato solo per servire la Repubblica e uscire dalla crisi istituzionale: ho sempre sostenuto che se a un italiano viene chiesto di svolgere un ruolo di governo questo debba essere considerato un onore, poi però bisogna essere d’accordo su cosa si voglia fare, e io ero d’accordo sulla necessità di superare quell’impasse politico che si era venuto a creare e che poi si è fortunatamente risolto non attraverso nuove elezioni (il che è stato un bene per l’economia italiana!), ma riaprendo il dialogo e rendendo possibile quel compromesso politico che sembrava impossibile la domenica in cui io sono stato chiamato».
Nel suo libro La lista della spesa dedica un intero capitolo alle partecipate pubbliche: cosa pensa del referendum sul trasporto pubblico Atac che si terrà il prossimo 11 novembre a Roma?
«Sul caso specifico di Roma non ho intenzione di sbilanciarmi molto perché prima di un referendum sembrerebbe una dichiarazione politica di voto! Il trasporto pubblico locale è chiaramente un’area dove la presenza pubblica può essere giustificata. Esistono tante aziende di trasporto pubblico locale gestite in modo adeguato. Certo che viste le performance dell’Atac negli ultimi decenni, qualche dubbio viene. Del resto, ci sono aziende di trasporto pubblico locale gestite molto bene da privati: abbiamo, per esempio, una società in Sicilia che gestisce il trasporto pubblico da decenni in modo efficiente. Il caso di Roma è quasi patologico e un evento come il referendum non fa che testimoniarlo, non mi sembra così strano…».
Cosa ne pensa del rigetto del DEF da parte della Commissione Europea e, più in generale, della manovra in esame?
«Beh, il rigetto era inevitabile, anche perché le stesse autorità italiane hanno riconosciuto come la legge di bilancio violasse le regole europee! Il mio giudizio tuttavia non è tanto basato sul violare o meno tali regole, quanto piuttosto su considerazioni di carattere economico: non porterà a una riduzione significativa del rapporto debito pubblico/PIL, potrebbe anzi addirittura portare a un aumento di questo rapporto e portarci all’esporci a rischi molto elevati. Lo spread è già aumentato, come avevo previsto in passato: ipotizzavo che, lasciando il rapporto debito pubblico/PIL intorno al 2%, i mercati avrebbero potuto reagire “non negativamente”, invece con questa manovra si è andati oltre e, tralasciando il 2,4% del primo anno, se non si considerano le cosiddette “clausole di salvaguardia” (a cui non crede più nessuno) dall’anno successivo il deficit aumenta al 2,8%, in controtendenza con gli ultimi anni in cui si era assistito a una progressiva riduzione del deficit. Questo aumento dello spread frenerà il Pil e difficilmente la crescita sarà quella prevista dal governo. Anzi, la legge di bilancio ci lascia esposti a scossoni internazionali e alle reazioni dei mercati a eventuali rallentamenti nella crescita dell’Europa. Se, in conseguenza di uno shock anche esterno andremo in recessione, il rapporto debito pubblico/PIL aumenterà e questo ci manderà in una crisi profonda, probabilmente peggiore di quella del 2011».
Secondo lei sono necessarie misure come una ristrutturazione del debito pubblico italiano, per esempio tramite investitori italiani, senza però intaccare la funzione creditizia delle banche nostrane?
«La ristrutturazione del debito è un’operazione con la quale il governo cambia i termini con i quali ha contratto un prestito [esempio: devo pagarti fra un anno, invece ti pago fra 10, N.d.R.]; la Grecia ha fatto un’operazione simile, ma questo comporta non solo una grossa perdita di credibilità da parte dello Stato, ma anche una tassa su chi ha investito sui titoli di stato (se hai prestato 100 e lo stato ti restituisce solo 60, hai pagato una tassa di 40). Una cosa del genere potrebbe avvenire soltanto in una situazione di grave crisi, e questo in Italia è più complicato perché i titoli di stato sono detenuti prevalentemente da investitori italiani (70% circa) rispetto a quelli stranieri (30% circa), quindi i costi di un’operazione simile ricadrebbero prevalentemente sulle tasche dei risparmiatori nazionali generando effetti negativi sull’economia italiana. Si potrebbe piuttosto pensare a una patrimoniale, una tassa sulla ricchezza più trasversale, che colpisce tutte le forme di ricchezza, non solo quella detenuta in titoli di stato. Tuttavia ritengo che, al momento, la situazione italiana non sia critica al punto tale da richiedere misure di questa portata».
Come interverrebbe sulle pensioni? C’è un modo per salvaguardare conti pubblici ed equità intergenerazionale?
«Quando sono stato Commissario per la revisione della spesa, dovendo occuparmi di una spesa che comprendeva circa 760 miliardi di euro, non potevo ignorare un’area che comprendeva circa 260 miliardi come quella della previdenza sociale. Esiste al momento una forte iniquità generazionale dovuta al fatto che chi è andato in pensione con il metodo retributivo ha avuto somme molto più generose rispetto a chi usufruirà interamente del metodo contributivo: avevo proposto un ricalcolo sulla base del secondo metodo per le pensioni al di sopra di una certa soglia (ipotizzavo circa 50 o 60.000€ come minimo). In ogni caso, le passate riforme delle pensioni sono state dovute a profondi cambiamenti demografici: l’invecchiamento della popolazione rendeva tali riforme inevitabili».
Mohamed Yunus, premio Nobel per l’economia e ideatore del “microcredito”, ha fortemente criticato l’istituto del reddito di cittadinanza. Qual è la sua opinione a riguardo?
«A mio avviso, quello che dovrebbe garantire lo Stato è un “punto di partenza” uguale per tutti, quella che io chiamo una “opportunità” di cittadinanza, basato sul merito; ciò include una ottima educazione per tutti, a prescindere dallo stato sociale di nascita e dall’area geografica di appartenenza. Sono per il merito, ma ciò non vuol dire che non debba esserci una redistribuzione parziale. Aver successo nella vita richiede merito ma anche un po’ di fortuna: i primi, in media sono non solo i più bravi ma anche i più fortunati. Il che giustifica un po’ di redistribuzione ex post. Tuttavia, il reddito di cittadinanza italiano, come proposto, risulterebbe il più generoso in Europa rispetto al reddito pro-capite, e questo potrebbe creare un disincentivo nella ricerca di un impiego, e sarebbe troppo generoso anche in termini di condizione per il suo mantenimento nel tempo (in Italia si potrebbero rifiutare due lavori prima di perdere il diritto al reddito di cittadinanza). Detto ciò, occorre vedere come sarà scritto il provvedimento».
Ultimamente ha partecipato a diverse iniziative rivolte ai giovani: che speranze ripone nella generazione degli Under30, specie alla luce dell’assenza di misure contro la disoccupazione giovanile adottate da questo esecutivo?
«Beh, prima di tutto spero che i giovani rimangano in Italia [ride, N.d.R.]! Mi auguro che i ragazzi partecipino attivamente al dibattito politico, soprattutto sui social, ormai nelle mani più delle persone di mezza età che loro: non possono lasciare lo spazio di questi strumenti a chi ha interessi generazionali diversi. Sta inoltre passando il messaggio che bisogna fidarsi più di chi ha “vissuto” rispetto a chi ha studiato duramente per laurearsi, come se si svilisse il valore dei titoli di studio, e questo è un po’ un problema. Non sono un esperto nell’uso dei social, non ho mai pensato a una strategia per convincere i giovani a partecipare, posso solo fare del mio meglio durante i dibattiti cui prendo parte invogliandoli a interagire sul web, e in questo mi è molto d’aiuto il mio profilo twitter».