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L’arte della guerra di Sun Tzu, un classico degli studi strategici

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Stefano Cavallini

Se per classico intendiamo un testo, un’opera che, nella definizione di Calvino, «non ha mai finito di dire quel che ha da dire», allora L’arte della guerra di Sun Tzu un classico lo è certamente. Poche opere nella storia dell’umanità hanno avuto un impatto così duraturo, sia per gli addetti ai lavori che per i profani, nel campo degli studi strategici. Insieme a Tucidide e Clausewitz Sun Tzu è infatti uno degli imprescindibili nelle accademie militari statunitensi.

Cenni storici e natura del libro

L’autore de L’arte della guerra, o Bingfa, è Sun Tzu, (la trascrizione corretta secondo il sistema pinyn sarebbe Sun Zi, usiamo Sun Tzu in quanto più familiare ai lettori italiani), cioè Maestro Sun. Con questo titolo sarebbe stato conosciuto un comandante di nome Sun Wu, nato nello Stato di Qi e attivo nello Stato di Wu. L’opera nacque come collezione di precetti pratici e manuale per gli ambienti militari e diplomatici di corte. Non ci è pervenuto l’autografo, ma il testo, pur considerando i vari rimaneggiamenti, per coerenza stilistica e concettuale, sembra risalire al periodo degli Stati Combattenti, tra il 403 e il 221 a.C. La Cina dell’epoca era frammentata in una serie di Chan-Kuo, Stati Combattenti (dal punto di vista delle innovazioni in campo militare è in questo periodo che viene introdotta la coscrizione obbligatoria e l’uso della cavalleria). In questo contesto, i sovrani dello Stato di Wu consolidarono il proprio potere e realizzarono le loro politiche espansionistiche cominciando a fare affidamento su figure professionali nel campo militare, come appunto il Maestro Sun, che ebbe modo di dimostrare il proprio valore e guadagnare i più alti gradi della classe militare.

La Cina nel periodo degli “Stati combattenti”. Foto: pierluigi fagan | complessità

Come abbiamo già detto, L’arte della guerra è un compendio di norme e suggerimenti tattici e strategici per il sovrano o il generale che desideri istruirsi sul modo migliore di condurre la guerra. Il libro è diviso in tredici capitoli, andiamo a riassumerne brevemente le idee chiave.

  • Il primo capitolo è dedicato ai piani strategici. Secondo Sun Tzu «l’arte della guerra si regge su cinque imprescindibili fattori»: la «legge morale», cioè l’accordo del popolo col volere del sovrano; «il cielo», cioè gli eventi atmosferici e l’avvicendarsi delle stagioni; «la terra», ovvero il calcolo delle distanze, la conformazione e i tipi di terreno, il contesto ambientale; «il comando», ossia le virtù di «saggezza, sincerità, benevolenza, coraggio e rigore» che il comandante deve possedere; infine «il metodo e la disciplina», vale a dire tutto ciò che attiene all’organizzazione dell’esercito, come «le divisioni di rango tra ufficiali, la manutenzione delle strade, il controllo delle spese militari». Al paese o al generale in possesso di queste caratteristiche si potrà certamente pronosticare la vittoria.
  • Uno dei pensieri cardine di tutta l’opera è che «la condotta della guerra si basa sull’inganno». Occorre quindi celare costantemente i propri piani e tenere una condotta opposta alle proprie reali intenzioni: «quando siamo in grado di attaccare, dobbiamo sembrare non esserlo; quando muoviamo le nostre truppe, dobbiamo sembrare inattivi».
  • Un’altra idea fondamentale è quella secondo cui in guerra il combattimento, lo scontro sia, in linea di massima, qualcosa da evitare o da ridurre al minimo. Infatti conflitti prolungati fiaccano gli uomini e logorano gli Stati, perché «non c’è nessun esempio di paese che abbia tratto benefici effetti da una prolungata conduzione delle operazioni militari». La suprema vittoria è quella che si coglie senza combattere, attraverso la superiorità tattica, impadronendosi quindi dello Stato nemico integro e non devastato dalla guerra. Nelle parole di Sun Tzu: «pertanto l’abile comandante sottomette le truppe nemiche senza combattere; si impadronisce delle loro città senza condurre alcun assedio». E ancora «…la cosa migliore è prendere il paese intero ed integro; mandarlo in frantumi e distruggerlo non è così buono». Per ottenere la vittoria il comandante è tenuto quindi a conoscere il nemico, in modo da anticiparne o neutralizzarne le mosse evitando lo scontro, ma più di tutto, e qui l’opera assume un risvolto filosofico, a conoscere sé stesso, perché «se conosci il nemico e conosci te stesso non hai bisogno di temere il risultato di cento battaglie». Dove il “conosci te stesso” sta per l’assoluta padronanza dei mezzi propri e del proprio esercito, fino a formare con questo un tutt’uno compatto, come nel Bushido il samurai dev’essere tutt’uno con la propria spada.
  • L’arte della guerra è profondamente influenzata dal pensiero Taoista, dall’idea della complementarità dell’apparente dualità di yin e yiang. Ciò è evidente nel precetto di opporre vuoto a pieno e pieno a vuoto. Occorre attaccare la debolezza del nemico con la massima forza e sottrarsi agli attacchi nemici, in modo da non subirne l’impeto. l’esercito deve allo stesso tempo essere unito come un solo uomo (per coordinare i movimenti dei soldati Sun Tzu prescrive l’uso di tamburi e bandiere) e mobile e duttile come l’acqua o il «serpente shuai-jan», in grado di adattarsi in tempo reale alle mosse dell’avversario: «se colpisci la sua testa sarai attaccato dalla coda; colpisci la coda e sarai attaccato dalla testa; colpiscilo nel mezzo e sarai attaccato dalla testa e dalla coda insieme». Oltre che alle movenze del nemico, l’esercito deve anche sapersi adattare al terreno, sfruttandone le peculiarità a proprio vantaggio. Per preparare al meglio lo scontro, è bene arrivare per primi sul luogo della battaglia. Sun Tzu elenca poi alcune massime su cui basare la propria condotta: non attaccare mai un nemico che si trovi in una posizione sopraelevata (come sa bene Obi-Wan), preferire i versanti assolati a quelli ombrosi, non attraversare mai paludi, prendere possibilmente posizione sui terreni elevati e porre attenzione al levarsi in volo degli uccelli, perché può segnalare un’imboscata. I dettami di leggerezza, mobilità, rapidità, coordinazione e adattabilità al terreno, al clima e al nemico sono diventati, e sono ancora oggi, il vademecum di ogni movimento armato che pratichi la guerriglia.
  • L’ultimo concetto degno di nota, che viene ufficializzato per la prima volta nella storia degli affari militari proprio da Sun Tzu, riguarda l’utilizzo di una vera e propria intelligence composta da una rete di spie, definite «l’elemento più importante in guerra», di cui si fornisce una esaustiva casistica. Vi sono «spie native, spie infiltrate interne, spie doppiogiochiste, spie votate alla morte, spie destinate a vivere». Se l’insegnamento chiave de L’arte della guerra è “conosci il nemico”, in modo da poter anticipare le sue mosse, e “conosci te stesso”, in modo da condurre la controffensiva con piena consapevolezza, allora la figura della spia diventa fondamentale per realizzare il primo di questi propositi.

Sun Tzu nei secoli: tre casi

Il pensiero di Sun Tzu ha attraversato i secoli e l’importanza dei suoi assunti è stata dimostrata dai numerosi combattenti che, pur non conoscendo necessariamente i principi de’ L’arte della guerra, ne hanno autonomamente riscoperto l’innegabile fondatezza.

Il primo caso riguarda la tattica adottata da Mao Zedong durante la celebre lunga marcia”, una marcia forzata di dodicimila chilometri alla testa della 1a armata comunista dalla regione dello Jiangxi fino a quella dello Shaanxi, dove dopo un anno di combattimenti arrivò con soli ventimila uomini dei centotrentamila iniziali.  Nel suo libello Sulla guerriglia Mao illustra cosa sia la guerriglia ricorrendo alla più antica tradizione del pensiero militare cinese:

«la strategia della guerriglia […] deve essere adattata alla situazione del nemico, al  terreno, alle linee di comunicazione, alla forza relativa degli eserciti in campo, al tempo meteorologico, alla condizione del popolo. Nella guerriglia, bisogna scegliere la tattica di far finta di venire dall’oriente, e attaccare da occidente; evitare il solido, e attaccare il vuoto; […] infliggere un colpo con la rapidità del lampo, cercare una soluzione fulminea».

Difficile immaginare un compendio più esaustivo degli insegnamenti del maestro Sun. Le nozioni di adattabilità al nemico, al clima, al terreno, di rapidità, del vuoto e del pieno sono tutte presenti in queste poche righe.

Un quadro dell’artista Quan Shanshi raffigurante la “Lunga marcia”. Foto: chinadaily.com

Passiamo ora al secondo caso: l’11 settembre 2001, come tutti ricordiamo, due aerei si schiantarono contro le Torri del World Trade Center. Il terrorismo, che fino ad allora si era manifestato solo in lontani teatri di guerra, colpì l’America nel cuore del suo territorio. In reazione Bush scatenò la cosiddetta “guerra al terrorismo”, invadendo l’Iraq, cioè facendo esattamente quello che si aspettava Bin Laden, come si può desumere da questo comunicato diffuso da Osama Bin Laden alla fine del 2004, in cui spiegava i suoi piani dopo l’attentato:

«tutto ciò che dobbiamo fare adesso è inviare un paio di mujahidin nel punto più a oriente possibile e dir loro di agitare uno straccio con su scritto al-Qaeda: i generali USA correranno immediatamente fin là, causando all’America perdite umane, economiche e politiche senza guadagnare nulla che sia degno di nota… In questo modo stiamo portando avanti la nostra strategia di dissanguare l’America fino a mandarla in bancarotta».

Considerando che organizzare l’attentato alle Torri Gemelle è costato circa cinquecentomila dollari e che nel 2008 la cifra spesa dagli Stati Uniti nella war on terror ammontava a settecento miliardi di dollari, si può dire che il proposito di Bin Laden sia perfettamente riuscito. Al contrario di Mao, che sicuramente lo conosceva, non sappiamo se Bin Laden abbia letto L’arte della guerra, ma sicuramente ne ha applicato perfettamente il primo precetto, quello dell’inganno.

La spesa militare degli Stati Uniti nel 2008. Foto: seekingalpha.com

L’ultimo caso è un caso di non applicazione dei dettami di Sun Tzu. Nel 1958, quasi incredibilmente dato il loro numero esiguo (appena venti), i barbudos di Castro riuscirono a sgominare le forze governative di Fulgencio Batista, liberando Cuba. Che Guevara arricchì la teoria della guerra rivoluzionaria di una propria personale elaborazione basata sulla dottrina del foco, vale a dire l’appiccamento ad opera di alcuni insorti di un piccolo focolaio rivoltoso che, spargendo falistre sovversive (nelle zone rurali), avrebbe poi fatto divampare l’incendio rivoluzionario. Possiamo leggere nel suo manuale Guerra de guerrillas:

«all’inizio, c’è soltanto un gruppo più o meno armato, più o meno omogeneo, che si dedica esclusivamente a nascondersi nei luoghi più impervi e inaccessibili, prendendo contatto solo occasionalmente con i contadini. Un colpo fortunato, e la sua fama cresce; qualche contadino […] e qualche giovane idealista si associa al nucleo, che acquisisce maggior audacia […] stringendo maggiori legami con la gente. […] continua l’afflusso di reclute, il foco si è ingrossato […]. Qualche tempo dopo si approntano accampamenti provvisori […]. Alla fine si sceglie un luogo inaccessibile, inizia una vita stabile, e vengono create le prime piccole manifatture: un laboratorio per la produzione di scarpe, un altro per sigari e sigarette, un’officina per le armi, un panificio, degli ospedali, se possibile un’emittente radio, una tipografia, ecc. Ora la banda partigiana ha un’organizzazione e una nuova struttura. […] viene lanciata un’offensiva nemica, ma è sconfitta; aumenta il numero di fucili disponibili, e aumenta di conseguenza il numero della gente che combatte con la banda. Arriverà il momento in cui il raggio d’azione del foco non potrà più allargarsi in proporzione all’aumento dei suoi componenti: allora sarà necessario creare un distaccamento di forza appropriata».

Questo fu lo schema che Che Guevara cercò senza successo di replicare in Bolivia. In un’area remota e geograficamente avversa, impossibilitato a tenere contatti con la popolazione andina (che parlava prevalentemente quechua) di cui non capiva la lingua e che gli era indifferente se non ostile, il Che e i suoi compagni non riuscirono a far divampare il foco, che rimase inesorabilmente isolato. L’arrivo del secondo battaglione rangers dell’esercito boliviano, addestrato dalle forze speciali statunitensi alle tattiche di controguerriglia, ne decretò la totale estinzione. Che Guevara venne giustiziato il 9 ottobre 1967 sul pavimento della una scuola del villaggio di La Higuera. I principi di malleabilità della forza armata, di adeguamento alle caratteristiche del territorio (e di conseguenza anche a quelle della popolazione), di studio meticoloso nell’approntare i preparativi di un’azione militare tanto cari a Sun Tzu furono in questo caso completamente disattesi. Ciò dimostra non tanto che bisogna seguire pedissequamente il manuale del maestro Sun, ma che questo contiene alcuni elementi universalmente validi e indispensabili a ogni condottiero che voglia risultare vittorioso.

Il bancone della lavanderia di Vallegrande dove venne esposto il cadaver di Che Guevara il giorno dopo l’esecuzione

Così in guerra, così in pace

A ben vedere, forse l’aspetto più importante degli insegnamenti de’ L’arte della Guerra è che se certamente essi sono prescrizioni su come condurre al meglio una guerra, la sostanza, il nocciolo filosofico dell’opera (la conoscenza di sé stessi, l’armonia degli opposti) non ha bisogno di una guerra per dimostrarsi vero, o almeno utile, perché parla all’uomo d’armi, ma prima di tutto all’uomo nudo, e di concerto anche al civile. Applichiamolo dunque nella vita quotidiana. Sicuramente non diventeremo generali, ma magari vivremo meglio.

Bibliografia

Gastone Breccia, L’arte della guerriglia, il Mulino, Bologna, 2013
Giampiero Giacomello, Gianmarco Badialetti, Manuale degli studi strategici, Vita e pensiero, Milano, 2009
Mauro Conti (a cura di), Sun Tzu, L’arte della guerra, Rusconi Libri, Sant’arcangelo di Romagna, 2008

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