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First Man: toccare il suolo lunare per toccare sé stessi

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Anastasia Piperno

Dopo il grande successo di La La Land (2017), è arrivata la terza opera di Damien Chazelle, First Man (2018). Esame impegnativo quello del talentuoso regista, in quanto era difficile soddisfare le grosse aspettative derivanti dalla sua precedente prova artistica, folgorante rielaborazione moderna del linguaggio del musical hollywoodiano. Chazelle allora cambia rotta, dall’ambiente artistico si volge verso tutt’altro orizzonte: racconta l’impresa della NASA e in particolare di Neil Armstrong (Ryan Gosling), di progetto in progetto fino all’Apollo 11 nel 1969, per mettere piede sul suolo lunare per la prima volta nella storia umana. Presentato anche alla 75° Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, non si può dire che si siano toccate vette qualitative pari a quelle del suo predecessore, tuttavia questo film biografico si inserisce bene nella regione tematica preferita a Chazelle: il bisogno di realizzazione personale, strettamente legato a quello professionale, la strada lastricata per raggiungere un dato traguardo, il sacrificio necessario e tutto ciò che c’è di intimo – desideri, sogni, proiezioni psicologiche – e che viene riversato negli oggetti dei propri obiettivi, trasfigurati di conseguenza.

Una missione collettiva e personale

Come nella serie interminabile di provini falliti di Mia in La La Land, torna la fatica del tentativo reiterato e reiterato, corretto, perfezionato. First Man si apre con lo stridore della fatica, i rumori assordanti dell’aereo-razzo XF15 e il panico di Armstrong per il controllo sulla macchina, ma anche per il mantenimento del focus, ovvero delle proprie facoltà di raziocinio e guida, nonostante i continui sballottamenti. La visuale è limitata, incasellata nei finestrini del razzo e del casco della propria tuta spaziale, creando un senso di claustrofobia, a sua volta accresciuto dall’utilizzo molto frequente di una macchina da presa in movimento, fedele alla costante tensione, irrequietezza e spinta in avanti di Armstrong e gli altri colleghi che partecipano alle missioni. Il viaggio spaziale non è morbido, sospeso, fluttuante nella calma assoluta dell’universo con apparente, maestosa leggerezza, quanto ancorato alla materialità del progetto realizzato per esso, alla meccanicità della gestione dei propri strumenti. È una questione, dunque, di abilità esercitata con senno e prontezza, di capacità di resistenza a condizioni avverse. La macchina è un disegno da architettare, congegnare nelle sue componenti, un mezzo che rende praticabili gli obiettivi avveniristici della NASA e allo stesso tempo una possibile trappola fatale. Il lavorìo scientifico è emblema di un bisogno di continua espansione dei limiti conosciuti dell’umano, giocando continuamente sul confine del possibile. Talvolta è dettato dalla necessità di dimostrare qualcosa, di concorrenza politica all’interno delle dinamiche della guerra fredda – tornano le immagini televisive di un discorso di John F. Kennedy ad un congresso, «questo paese deve impegnarsi a realizzare l’obiettivo, prima che finisca questo decennio, di far atterrare un uomo sulla Luna e farlo tornare sano e salvo sulla Terra» – talvolta invece è motivato da qualcosa di più oscuro. Chazelle infatti lascia a margine il lato storico-politico della corsa allo spazio di quegli anni per guardare all’interno di Neil Armstrong, ad un aspetto più intimo e forse meno conosciuto di ciò che ruotava attorno al primo uomo sulla Luna. La Luna, oltre che strumento di egemonia, può rivestirsi di fantasmi peculiarmente personali e taciuti, protetti all’interno di sé. La prima scena che distende il privato di Armstrong fa tornare l’ostilità ferrosa dello strumento scientifico, atto ad esaminare lo stato di salute di una bambina di due anni, la figlia del pilota, malata di tumore al cervello. La lotta per non essere sconfitti da forze esterne torna anche qui: Armstrong fa di tutto per salvare la bambina, ma la morte sopraggiunge sin dall’inizio e scava un segno profondissimo nella percezione del protagonista luttuoso. Le proprie conoscenze e possibilità non hanno potuto arginare una disgrazia ineluttabile, cieca, casuale nel colpire una data vittima. Il motore propulsore della scoperta scientifica qui si carica di un confronto tra il limite umano come mortalità ineludibile e impotenza disarmante contro, invece, il potere umano ancora da affermare, una dimostrazione caparbia di cosa si è capaci con le proprie facoltà, di cosa si può volere e ottenere a dispetto di qualsiasi ostacolo. Il confine continuamente sondato comporta sempre un rischio di non saper gestire il proprio potere, di essere ancora sconfitti da ciò che non si può pienamente controllare, in balia di una connaturata imperfezione, carenza. I vari progetti della NASA precedenti alla vittoriosa missione dell’Apollo 11 causano morti, sacrifici in termini umani, sanguinosi fallimenti che gettano macchie nere sulle singole famiglie degli astronauti che vi hanno perso la vita. Chazelle quindi torna a interrogare il delicato rapporto tra quanto si conquista e quanto si perde, quanto alcuni sogni valgano il prezzo pagato per la loro realizzazione, estendendo qui i costi in una prospettiva non soltanto biografica, ma storica, collettiva, di coscienza sociale (non mancano alcune scene di repertorio, di protesta contro i fondi investiti in missioni precedenti fallimentari della NASA da parte dello Stato). Il film è stato anche criticato per essersi posto con accezione anti-patriottica, specialmente nel momento in cui Chazelle ha omesso il momento in cui Armstrong piazza la bandiera statunitense sulla Luna. Scavando invece sui dissidi interni al protagonista, come su un lato più funereo, inquietanti della storia della NASA e dei suoi raggiungimenti, il regista non intende di certo dare un facile lustro al proprio paese né spettacolarizzare l’avvenimento storico narrato, ma sfruttare gli eventi storici e un piano psicologico per poter guardare dentro uno spirito americano, un culto dell’impresa, del sogno da realizzare senza formule propagandistiche, aderendo invece ad una sua ben più complessa e sincera realtà.

Foto: theverge.com

Qual è però la sostanza del sogno di Armstrong? Il suo sguardo fisso all’obiettivo è un silenzioso dialogo con l’immagine lunare, punto nel cielo, che si riflette letteralmente sui suoi occhi. L’altrove da raggiungere è il bisogno di un’altra prospettiva non soltanto puramente fisica, ma anche sulla propria umanità, sul proprio dolore nella vastità dell’universo. Non c’è soltanto un bisogno di vedere, di registrare con i propri sensi il suolo lunare da un punto di vista oggettivo, scientifico, ma un bisogno di vedere meglio sé stessi, forse riscattarsi. La Luna è un luogo di solitudine per Armstrong, primo uomo ad averla calpestata, uno spazio di elezione per poter rielaborare le proprie oscurità, uno spazio in cui così tanto è stato riversato, dedicato e che dunque assume una particolare importanza, una particolare posizione per poter osservare tutto il resto. La colonna sonora di Justin Hurwitz batte costante sulla spinta in avanti del progetto scientifico, ma talvolta riecheggia un’individuale malinconia del protagonista, proiettata nel ricordo, ad esempio quello di un brano importante per la sua vita amorosa, sentimentale, che si porta in cassetta anche nell’aereo-razzo, e che ben si sposa con la suggestione sonora di un altro mondo, più ritirato, crepuscolare. Un ulteriore segno della contaminazione tra il piano condiviso, professionale legato alla NASA e un singolo, intimo ricordo dell’astronauta, portato con sé proprio verso la Luna. Si tratta dell’espressione di un amore che accompagna sempre il protagonista, fino al suo sopracitato luogo d’elezione, oltre i confini terrestri, e in cui si mescola sia il legame con chi vive sia con chi non c’è più, dove lo stesso senso del proprio agire ultimo è un’espressione affettiva, un tipo di confronto altrimenti mancante nel dialogo familiare e poi toccato, nel suo cumulo emotivo più profondo, in un luogo tanto distante, una sorta di grande viaggio circolare, per tornare ancora alle radici.

Foto: sentieriselvaggi.it

Chazelle usa molti primi piani sugli attori, cogliendo interrogativi inespressi attraverso i canali della più esplicita comunicazione umana, incastrati, troppo dolorosi per poter trovare voce. Gosling, in un’ulteriore esemplificazione di un tipo umano cesellato e cesellato in prove precedenti (Drive, Only God Forgives, Blade Runner 2049..), incarna bene un’interiorità sempre presente, ma molto trattenuta, un velo più sensibile oltre una maschera rocciosa. Quest’ultima trova vita in una sfumatura espressiva, un’elusione introversa e guardata da vicino dal regista. Non sono, però, soltanto i primi piani degli attori ad echeggiare un dramma tanto e interno così importante per il film. Non di rado gli interni domestici sono buii, fiocamente illuminati, fino allo stagliarsi di vere e proprie silhouette dei personaggi. Una fatica più sorda, soggiacente allora si concretizza in macchie nere, segni di solitudini, assenze, quali un marito nella vita familiare per Janet (Claire Foy), moglie dell’astronauta, oppure lo strascico, ancora, del lutto che pure si accumula nella serie di defunti da compiangere.

Una terza prova comunque meritevole

Se l’ambizione del contesto storico di First Man è alle stelle, meno lo è quella del suo regista, che pare cercare un terreno di espressione formale altrettanto rigorosa, scrupolosamente gestita, passando da covi intimi ad una tachicardica tensione, panico, ma su un materiale umano, un terreno narrativo più austero e compassato. Chazelle tuttavia fruga ancora in un fondo umano comune, da Whiplash a La La Land, senza ripetersi, arricchendo il prisma del sentimento del sogno e della battaglia per esso, sudata, scandita quotidianamente di inciampo in inciampo fino alla chiave giusta.

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Anastasia Piperno

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