Quello della comunicazione scientifica è un terreno scivoloso. Lo è anzitutto per la materia trattata, che è complicata, talvolta quasi criptica, perlopiù incomprensibile per chi non la mastica quotidianamente. Ma è scivoloso anche in un altro senso, quello della dimensione politico-culturale con cui si interseca inevitabilmente. Poche volte, inoltre, si considera che quello della comunicazione è anzitutto un problema della stessa comunità scientifica. L’enorme specializzazione e la frammentazione del sapere hanno reso necessaria una comunicazione tra settori diversi, imprescindibile per gli scopi di ricerca, ma non altrettanto semplice da realizzare.
Se analizziamo il rapporto tra italiani e comunicazione scientifica il discorso è ancora più spigoloso. Ci sono fenomeni che fanno pensare a un certo interesse per le materie scientifiche da parte degli italiani. Emblematica è in questo senso l’enorme affluenza che si registra agli eventi di stampo scientifico (per esempio il Festival della scienza medica) o anche la grande popolarità di trasmissione televisive come Superquark. Parallelamente, però, la tendenza degli italiani negli ultimi anni sembra quella di volersi scollare dal mondo della scienza. Queste insoddisfazioni hanno trovato una via di sfogo nel dibattito sull’obbligo vaccinale, o meno recentemente (ma non per questo meno attuale) in quello riguardante gli OGM. L’Italia sembra essere culla di una sottocultura dalla matrice profondamente antiscientifica, che rifiuta i canoni e disprezza le gerarchie della scienza. Ma da dove nasce questa sfiducia? È un fenomeno esclusivamente recente o o ci sono ragioni più profonde? E sopratutto, la colpa è esclusivamente della popolazione che ignora le ragioni della scienza, o è quest’ultima che fa fatica a farsi sentire?
Quello della divulgazione scientifica non è un genere letterario così recente come si può pensare. Le sue radici sono profonde e affondano nelle correnti di pensiero del razionalismo e dell’illuminismo che hanno caratterizzato i secoli del Seicento e del Settecento. La volontà illuministica di diffondere la cultura a tutti gli strati possibili della società era finalmente resa possibile dalla presenza assodata della stampa a caratteri mobili come strumento dell’editoria. Il libro, elemento accessibile soltanto a un’élite ristretta fino al Cinquecento, poteva diffondersi anche negli strati meno abbienti. Questi due fattori forniscono le premesse dei primi lavori di divulgazione scientifica, che intendevano riproporre al popolo le più recenti innovazioni scientifiche e tecnologiche (molto popolare, all’epoca, era la chimica di Lavoisier). Si tratta di una divulgazione nel senso proprio, cioè dall’alto verso il basso (il riferimento latino è appunto al volgo); quando si intende il genere odierno, invece, si preferisce usare il termine comunicazione scientifica. Nel corso del Settecento tale genere letterario visse una vigorosa epoca d’oro in tutta Europa. Il panorama intellettuale italiano non rimane certo a guardare, e alcuni esponenti di spicco (Francesco Algarotti o Carlo Cattaneo ad esempio) iniziano a scrivere opere divulgative.
All’alba dell’Unificazione italiana, però, l’editoria scientifica (ma non solo) dovette scontrarsi con una realtà piuttosto critica. Il Paese era estremamente arretrato sotto praticamente tutti i punti di vista rispetto al resto del Continente europeo. Il neo governo voleva premere l’acceleratore sullo sviluppo tecnologico e industriale, come dimostra la rapida costruzione delle infrastrutture ferroviarie. La crescita economica, però, da sola non poteva bastare a rimettere in carreggiata un paese intero. Si diffuse l’idea che fosse possibile migliorare le condizioni di vita dei cittadini (in quel momento pessime) trasmettendo le basilari conoscenze mediche e scientifiche, attraverso un processo di istruzione. In questo senso è esemplare il caso dell’igiene, che venne vista come la materia perfetta per essere diffusa in modo da migliorare la sanità pubblica. Su questo fronte Paolo Mantegazza fu il protagonista indiscusso di questa opera divulgativa.
C’erano però due grossi problemi. Anzitutto l’enorme differenza tra nord e sud, non solo a livello economico ma anche e soprattutto su matrice culturale. Al nord, favorito dalla vicinanza col centro nevralgico del Regno, si riuscì a imporre un rigoroso piano di sviluppo tecnologico e industriale. Al sud, invece, questa ventata di innovazione non fece breccia, favorendo piuttosto una rinascita della cultura umanistica (soprattutto in città come Napoli). Ma il minimo comune denominatore tra i due poli era sicuramente l’altissimo tasso di analfabetizzazione, un problema endemico per il Paese. Il grafico sottostante dovrebbe essere piuttosto esplicita: al momento dell’Unificazione la popolazione italiana era praticamente analfabeta, mentre gli altri paesi europei avevano un tasso già più accettabile. Importante notare anche come soltanto nel 1981 si risolverà effettivamente il problema, molto in ritardo rispetto al resto dei paesi. Questo dovrebbe rendere chiaro cosa ostacolò i tentativi di istruzione della divulgazione scientifica: mancava il pubblico. L’obbligo scolastico introdotto con la legge Casati (proprio del 1861) spesso non veniva ottemperato, in particolar caso in quelle regioni dove il settore agricolo era trainante e la manodopera familiare imprescindibile. In questo modo, anche se c’erano i libri e le riviste di divulgazione scientifiche proposte a bassissimo costo, queste non ottenevano il successo sperato, perché pochissimi li leggevano; sopratutto, non erano gli strati più bassi (quelli che ne avrebbero dovuto trarre maggior beneficio) a usufruirne.
Che dire, allora, della situazione italiana odierna? In realtà l’editoria scientifica sembra godere di una buona salute. Stando ai dati ISTAT del 2016, se uniamo sotto la categoria “scienze” le varie materie scientifiche (scienze naturali, medicina, informatica, ecologia eccetera), otteniamo l’incoraggiante percentuale del 5.2% sulle pubblicazioni totali (il leader indiscusso, senza nessuna sorpresa, è la narrativa). Ma non si può astrarre dalla considerazione che ormai buona parte dell’informazione non viene più reperita dai libri, ma da altri media, in primis su internet. Anche su questo fronte, a dire il vero, il settore scientifico ha dimostrato di sapersi adattare piuttosto bene. Abbiamo già citato i programmi di Piero e Alberto Angela, ma si nota anche un tentativo di pervadere l’editoria online con riviste quali Wired Italia o le edizioni digitali di Sapere. Eppure, come anticipato in apertura, sembra che gli italiani facciano fatica a sentire le ragioni della comunità scientifica.
Un primo livello di lettura sembra suggerire un parallelo tra la situazione odierna e quella dell’Italia post-Unità: gli italiani che leggono libri sono pochi. Il fenomeno, in realtà, ha anche un nome tecnico, ovverosia analfabetismo di ritorno. Si tratta di persone che hanno imparato a leggere durante il percorso scolastico, ma che non hanno poi esercitato la capacità di lettura al di fuori della scuola. Questo fenomeno, già riscontrato nel corso del Novecento, sembra essere tornato in voga ultimamente (associato spesso al cosiddetto analfabetismo funzionale). Il grafico seguente fornisce uno spaccato interessante da analizzare e ci fa rendere conto che il trend sembra andare in peggioramento. Forse è troppo estremo fare un parallelo diretto tra questo fenomeno e quello dell’Italia post-Unità, ma indubbiamente ci sono degli elementi di contatto piuttosto ingenti. Se confrontiamo l’attitudine alla lettura degli italiani con quella degli altri paesi europei (dati eurostat) il paragone sembra ancora più calzante. L’italiano medio spende meno della metà di tempo dedicato alla lettura rispetto a paesi europei come la Estonia o la Finlandia. Al pari dell’Italia soltanto Romania e Austria, a cui sotto si situa la Francia.
Sulla base di ciò è facile comprendere le difficoltà della comunicazione scientifica: la materia trattata è complessa e richiede uno sforzo cognitivo che chi non è abituato alla lettura non riesce (o non vuole) compiere. Se pochi lettori sono effettivamente capaci di un tale sforzo, chiaramente la base d’utenza si abbassa drammaticamente. A questo bisogna anche aggiungere la tendenza di evitare di utilizzare i canali di informazioni ufficiali, preferendo quelli meno conosciuti dei social network. Questi sono più immediati, facilmente fruibili e sembrano parlare direttamente alle persone. Ciò che è ermetico, invece, appare lontano ed estraneo. Questi due fattori, indubbiamente molto più complessi di come sono stati presentati, riescono a fornire una già parziale ragione per comprendere la situazione.
Basta questo per esaurire il rapporto tra italiani e comunicazione scientifica? No, si può andare oltre e guardare anche l’altra faccia della medaglia. Anzitutto bisogna considerare il presupposto per cui il mondo scientifico si presenta come impenetrabile a chi ne è estraneo. Spesso l’immagine dello scienziato è associata a quella dello studioso chiuso nella sua torre d’avorio (il laboratorio scientifico) che si erge sopra la massa ignorante. Si tratta ovviamente di una metafora fuorviante, perché le cose non stanno esattamente così, ma è interessante vedere come questa associazione sia ben radicata nell’immaginario collettivo. È molto difficile per il pubblico accedere ai dibattiti scientifici, per motivi sia pratici che tecnici: i paper spesso sono accessibili soltanto agli addetti ai lavori, e anche quando sono resi pubblici sono scritti in un linguaggio tecnico indecifrabile per chi non mastica la materia. Il compito della divulgazione è proprio quello di operare una traduzione delle pubblicazioni accademiche più recenti. Ma come in ogni traduzione, il passaggio dall’originale alla copia comporta sempre una perdita di messaggio, che nel migliore dei casi viene compensato con la ricchezza espositiva del divulgatore. La questione è spinosa: quanto il divulgatore / traduttore deve mantenere del messaggio originale e quanto può inserire di sé stesso? Umberto Eco ci diceva che una traduzione buona non sempre equivale a una traduzione fedele. Vale forse lo stesso per la comunicazione scientifica?
Tutto questo non significa che la scienza debba abbandonare il proprio rigore solo per essere più comprensibile e accondiscendente. Quanto accaduto alla Sapienza di Roma pochi giorni fa non è accettabile. Un cambiamento di paradigma nell’ambito della comunicazione scientifica potrebbe essere quello di non presentare più i prodotti finiti della ricerca, ma mostrare quali sono i processi sottostanti. Non la scienza “data”, apparentemente indiscutibile e certa, ma quella dove il dubbio non è solo ammesso, è indispensabile per fare ricerca. Usando le parole di Bruno Latour, la divulgazione scientifica dovrebbe far entrare il lettore “dalla porta di servizio” della scienza. Questo non solo perché risulta più appetibile al lettore, ma sopratutto perché è emblematico del metodo scientifico stesso. L’obbiettivo è quello di allontanare quanto più possibile lo spettro dell’autoritarismo. In primo luogo, perché questo è essenzialmente controproducente: chi ha poca sfiducia nella scienza sarà ancora meno convinto se questa gli verrà imposta in maniera dogmatica. E poi, indubbiamente, perché il dogmatismo è quanto di più antiscientifico si possa immaginare. Nella scienza non c’è un’autorità che decreta ciò che è giusto e cosa non lo è. C’è un sistema “oligarchico”, dove i membri si fanno conoscere attraverso la pubblicazione di articoli, questi vengono condivisi attraverso le citazioni e, sopratutto, vengono approvati secondo i canoni della peer review. Il metodo scientifico del terzo millennio è questo. Affinché non venga visto come un’autorità maligna da cui difendersi nascondendo la testa sotto la sabbia del complottismo, è necessario che mostri con trasparenza questi processi.
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