La luna del mito e della doppiezza

«La luna diffonde
pe’ cieli suo latte
a lei, chiuse e intatte,
sospiran le selve..»

Cantava d’Annunzio come cantano e hanno cantato tutti gli uomini in ogni tempo. La luna come ricettacolo di sospiri, casa degli esuli, appannaggio degli innamorati, consolazione dei vinti. La luna come punto di partenza e d’approdo, domanda, problema, risposta e soluzione. Come tutto ciò che è lontano, inesplorato, in qualche modo sepolto in un mondo altro e in un tempo diverso, che a ogni quesito ha risposto rigo per rigo.

Un pianeta e il suo interrogativo, nato quando un uomo, più di trentaduemila anni fa, l’ha trovata compagna inesauribile della sua caccia nei boschi in cerca di selvaggina. Un giorno era piena, un altro meno piena, e ancora dopo solo una falce, fino alla totale ricostituzione. E ora con forte ora con debole luce, si insinuava tra gli alberi notte dopo notte. E tanto la sua presenza instancabile sconvolse quell’uomo, che ne disegnò i mutamenti e le forme sull’osso di cervo che portava con sé. Aveva riportato nell’arma come in un diario di bordo le forme di quel suo faro.

Così, da trentaduemila anni, ci portiamo dietro un repertorio di impressioni lunari per quella caratteristica della luna di sapersi fare specchio nella contemplazione, capace contenitore dei rapimenti. Non diversamente da quello che accadeva all’uomo preistorico e al suo osso di cervo, ogni uomo in ogni tempo e per ogni dove ha alzato il viso verso la luna. Qualcuno alla fine è stato attirato per quello stesso meccanismo di fascinazione che – come ai romantici piace credere – che muove le maree. Seduti, la notte, su una pietra, tra quelli che le hanno solo rivolto pensieri, ce n’erano degli altri che hanno scritto parole e versi.

La luna
La pagina bianca, René Magritte

Che fosse distante, comunque, non significava certo che non fosse influente. Esiste una lunga tradizione mitologica in cui astri e pianeti sono personalità vive, con una propria vicenda. Così avviene nel mito egizio di cui parla Plutarco, o era avvenuto nella mitologia Maya. Secondo i Maya, infatti, la Luna e il Sole erano prima che astri, una coppia di giovani innamorati. Dopo essere fuggiti, il nonno della ragazza la fece uccidere. Il corpo morto di lei venne raccolto dalle libellule e il suo sangue infuso in tredici ceppi cavi. Da ogni ceppo nacquero insetti nocivi, meno che dall’ultimo: di lì uscì la nuova luna, resuscitata in altra veste.

Il mito greco ha invece voluto rappresentazioni diverse per le diverse fasi lunari. Così nascono Selene, Artemide ed Ecate, per luna piena, crescente e calante. Selene si innamorò di Endimione e quando Zeus lo condannò a dormire in una grotta per trent’anni, lei lo andava a trovare ogni notte. Il mito romano ha invece voluto che fosse Selene a far sprofondare Endimione in un sonno perenne e a renderlo immortale. Ogni notte andava a trovarlo, alimentando negli incontri notturni il loro amore.

La luna
Selene ed Endimione, Gidoret, Louvre.

I Greci, peraltro, hanno spesso parlato di Luna in relazione a condizioni ambigue o di alterità. In una condizione binaria che vede opposti Luna e Sole, buio e luce, si inseriscono i diversi comportamenti moralmente accettati o socialmente riconosciuti sotto il simbolo del sole, quelli più misteriosi, evasivi o vergognosi, sotto quello della luna. La vita umana era cadenzata dall’effusione della luce del sole. Così i rapporti interpersonali si coltivavano di giorno e non di notte, di giorno si lavorava al raccolto, i prodotti agricoli beneficiavano della luce del sole e non di quella della luna.

In questa idea di doppiezza, si intendeva un’anomalia quanto avvenisse al cospetto dei raggi lunari. Sotto la luce della luna accadevano per definizione avvenimenti torbidi, che trovavano solo in quel momento della giornata il tempo adatto per accadere. Questa condizione binaria in cui si inserisce la Luna ha riverberi forti nelle produzione letterarie del tempo.

I Seleniti di Luciano di Samosata ne rappresentano un primo esempio. Nell’opera Luciano descrive una popolazione completamente opposta rispetto a quella convenzionale degli uomini. I bambini, tanto per cominciare, non nascono dalle donne ma dagli uomini, e quando nascono sono in realtà morti. Si rianimeranno una volta esposti al vento con la bocca aperta. E quando un Selenita muore, la sua morte non ha niente a che vedere con quella di un terrestre comune. Così il suo corpo non verrà sepolto, perché le membra si saranno già disgregate in fumo. Tutta la narrazione si basa su un gioco dell’opposto in cui alle normali abitudini degli uomini della Terra si posizionano agli antipodi quelle dei Seleniti: dal cibo, al rapporto sessuale, alle mode in fatto di abbigliamento e capigliatura. Tutto è al contrario di quello che ci si aspetterebbe, sotto il segno della Luna.

Un’alterità differente è quella che invece appare in Apollonio Rodio nelle Argonautiche. La luna parla a Medea, quando nottetempo scappa dal palazzo del padre per unirsi a Giasone e ai suoi. Quello che sta per compiere Medea è un tradimento: scioglie nella fuga il vincolo di sangue che la lega alla famiglia, scappa e recide ogni legame con il padre e la terra che l’ha generata. E tutto ciò non solo avviene durante la notte – momento propizio per gli accadimenti deprecabili o nefasti – ma soprattutto sotto il cospetto della Luna. E proprio lei, e non un’altra entità, rivolge la sua apostrofe a Medea.

«Non io soltanto ricerco l’antro di Latmo,
non io soltanto brucio per il bell’Endimione,
io che spesso mi sono mossa per i tuoi astuti incantesimi
nel pensiero d’amore, perché tu celebrassi i tuoi riti
tranquilla nella notte oscura, come a te piace.
Ora anche tu hai parte di questa stessa sventura:
il dio del dolore ti ha dato Giasone come tua pena
ed angoscia. Va’ dunque, e preparati a sopportare,
per quanto sapiente tu sia, dolori infiniti»

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