L’omicidio Kashoggi ha provocato un terremoto mediatico in tutto il mondo. Il perché è presto detto: un giornalista ucciso all’interno del territorio di una potenza straniera in un momento di profondi cambiamenti per il proprio paese denuncia la volontà di portare a termine le riforme in un modo o nell’altro, eliminando tutte le possibili opposizioni anche con la forza. Kashoggi era inoltre un giornalista di fama internazionale e i suoi articoli contro la monarchia saudita post 2016 (data della nomina a erede al trono di Mohammed bin Salman) e sulla guerra in Yemen erano comparsi anche sul Washington Post.
Jamal Kashoggi è stato probabilmente drogato, ucciso e smembrato all’interno del consolato saudita a Istanbul durante quello che secondo voci sarebbe stato un interrogatorio finito male. I pezzi del corpo sono semplicemente spariti. Fin da subito Ankara ha puntato il dito contro Riyad, mentre quest’ultima, dopo le indagini, ha diffuso l’identikit di un agente di sicurezza turco e accusato quindi, a propria volta, elementi deviati dei servizi d’intelligence turchi e sugli stessi sauditi. La fine delle inchieste dal lato saudita ha portato all’arresto di 18 cittadini sauditi e all’allontanamento dalla posizione del capo dei servizi segreti Ahmed al Asiri, consigliere della corona. Dal canto proprio Mohammed Bin Salman ha negato ogni responsabilità sua e della corona per fornire invece una proposta di riforma dei servizi segreti.
Le reazioni degli spettatori interessati dalla vicenda sono state diverse: l’opinione pubblica internazionale è apparsa immediatamente critica nei confronti della corona saudita, considerando che non c’è stata solo l’uccisione di un oppositore (avvenimento già grave di per sé) ma anche di un giornalista, il che si aggiunge ad una lunga lista di eventi simili avvenuti negli ultimi anni. Ora, un sistema d’informazione sano è quello che permette alle democrazie di funzionare correttamente: l’eliminazione di uno o più elementi legati al mondo dell’informazione risulta essere un evento abbastanza scioccante a livello di opinione pubblica.
Gli Stati Uniti, attraverso il Presidente Trump, hanno ribadito che l’Arabia Saudita rimane un alleato importante e che quanto avvenuto non avrebbe cambiato i rapporti tra i due paesi. Queste dichiarazioni, tuttavia, arrivano dopo la consegna e la presentazione del report della CIA che individuava in Mohammed bin Salman il mandante dell’omicidio. Trump ha pertanto deciso di ignorare deliberatamente le informazioni provviste dal suo stesso servizio d’intelligence, concedendo a Bin Salman non solo il beneficio del dubbio, ma anche la rassicurazione riguardante lo status di alleato.
Nel suo discorso in merito, Trump ha iniziato attaccando l’Iran elencando tutte le attività oltreconfine che questo ha compiuto negli ultimi tempi (il sostegno ad Hezbollah, l’intervento in Siria, la guerra per procura in Yemen, la destabilizzazione dell’Iraq) e ha sollevato dei dubbi sul rapporto diffuso dai suoi stessi servizi d’intelligence. La permanenza dello status di alleato e la non cancellazione dei contratti è dettata da una politica estremamente realista, volta ad impedire un eventuale ulteriore ingresso da parte cinese o russa nell’area.
Per quanto concerne l’Unione Europea, l’ufficio dell’Alto Rappresentante ha emesso due comunicati formali man mano che si sviluppavano gli eventi. Nel primo, oltre alle condoglianze verso la famiglia veniva chiesto il rispetto del Diritto Internazionale (l’articolo 55 della Convenzione di Vienna sulle relazioni consolari in cui si stabilisce l’inviolabilità della sede consolare) e si auspicava una più precisa definizione degli eventi. Nel secondo, prodotto dopo le dichiarazioni conclusive delle investigazioni condotte da Riyad, si auspicava un giusto processo per gli indagati. Sembrano dichiarazioni di circostanza ma così non è: specie il secondo comunicato va a porre la responsabilità di ottenere un risultato significativo dal procedimento sull’Arabia Saudita.
Fuori dalle dichiarazioni diplomatiche, l’Unione Europea ha valutato, per un certo periodo, di porre sanzioni comuni a Riyad, anche qui però ha prevalso la linea realista che ha imposto la graduale neutralizzazione dei rapporti in merito alla vicenda per salvaguardare gli interessi degli stati membri. Tutti amici come prima? Non proprio, ma per prendere una decisione effettiva si aspetta la sentenza del processo a Riyad, almeno per il momento. Molti stati membri stanno cercando di bilanciare interesse nazionale e opinione pubblica, specie considerando che i rapporti commerciali sono decisamente notevoli, basti pensare solo all’energia o al commercio di armi che interessa molto anche l’Italia.
La natura di queste scelte di politica estera (quindi se condannare o meno l’omicidio con sanzioni e dichiarazioni) è da intendersi mediata con l’interesse nazionale e internazionale: il primo è dato dai rapporti commerciali con Riyad, il secondo con la grande lotta egemonica sul Medio Oriente che sta riguardando Riyad, Teheran e Ankara: tra questi tre, infatti, l’alleato più conveniente è rappresentato proprio dall’Arabia Saudita, specie dopo che la Turchia ha iniziato un processo di progressivo allontanamento dall’Europa e dalla Nato, culminato per ora con l’acquisto dei missili S400 venduti da Mosca. L’Iran, dal canto proprio, oscilla tra una retorica ostile alle potenze occidentali e una solida relazione con la Russia che il Cremlino sfrutta a più riprese per espandere la sua influenza in Medio Oriente.
Esaminando tutte le opzioni disponibili, pertanto, Riyad (insieme a Dubai) rimane l’alleato più affidabile per gli Stati Uniti e questo Mohammed bin Salman lo sa. Richiudere le relazioni sulla base della disciplina dei diritti umani è un errore che gli inquilini della Casa Bianca hanno imparato a non commettere più dai tempi di Carter. Quello che al momento pare più grave, paradossalmente, è la violazione delle consuetudini diplomatiche che appongono l’inviolabilità della sede consolare, specie considerando tutto il corollario (la richiesta ai dipendenti di non presentarsi al lavoro o simili) che costituisce il fatto più grave, in quanto dimostra che Riyad è disposta a passare sopra anche ad altri paesi pur di portare avanti la propria agenda, sia interna che esterna.
Sino ad ora l’Arabia Saudita ha cercato di sviluppare la propria riforma interna principalmente agendo dentro i propri confini con arresti e licenziamenti all’interno della Pubblica Amministrazione. È un passaggio obbligato e decisamente doloroso se si sta cercando di far compiere al proprio paese un balzo di quattordici secoli nel giro di un decennio. Il problema risiede quando si cerca di lavare i panni sporchi in casa altrui, come l’Arabia Saudita minaccia di fare con i propri dissidenti, considerando che Kashoggi può essere solo il primo della lista.