È difficile trovare il punto adatto da cui iniziare a parlare di Bruciare tutto (Rizzoli, 2017), ultimo romanzo del Premio Strega Walter Siti, nonché libro complicatissimo. Forse un ottimo spunto per superare l’impasse è la quarta di copertina, quella che passa sotto gli occhi di più o meno tutti gli interessati, prima o dopo aver comprato il volumetto color rosso acceso. Bruciare tutto non è la storia di un prete pedofilo che si ritrova inaspettatamente a fare di nuovo i conti con quel suo mostro interiore che sembrava sopito da anni; non bisogna fidarsi del retro del libro, che infiocchetta perfettamente il prodotto facendo leva sulla sensazione di scandalo e la curiosità sedotta dal male e dal torbido dell’animo umano. Il testo e il paratesto, anzi, raccontano due storie completamente differenti.
Non contiene spoiler.
Don Leo è un parroco della periferia di Milano, e fin da ragazzo sa di avere una pericolosa attrazione sessuale per i bambini. Ha avuto, però, solo un rapporto con uno di essi, Massimo, un amplesso dolce, affettuoso e struggente, molto diverso dalle connotazioni bestiali con cui si stigmatizza la pedofilia. Il prete di Siti è però molto più complesso, e scavalca facilmente i confini del tipo a cui noi tutti ci siamo ormai abituati, a suon di cronache episcopali scioccanti e prodotti d’intrattenimento alla Il caso Spotlight.
Il protagonista di Bruciare tutto è un uomo prima che servo di Dio, ed è proprio questo il suo cruccio: conciliare la finitezza e la fallibilità umane con l’onnipotenza divina. La natura di Don Leo si ritrova così schiacciata tra due forze contrarie, terribili e primordiali; la prima è la paura di sé, del proprio essere solo una persona, e pertanto imperfetto e inducibile in tentazione. La seconda è una fede ascetica in Dio, una religiosità ai limiti delle possibilità terrene (e della sanità mentale), fatta di penitenze continue, digiuni forzati e autoflagellazioni sia concrete che figurate.
Fondamentale, nel Romanticismo europeo del Settecento, era il concetto di Streben: una tensione dell’individuo verso l’assoluto, l’infinito in arrivabile, e per questo un movimento doloroso, un’ansia verso l’illimitato che non fa altro che rimarcare l’impossibilità dell’atto.
Timorato di Dio e timoroso della propria natura terrena, Don Leo è soggetto alla stessa tensione e vive ogni istante della sua vita oscillando pericolosamente sulla corda tesa della propria identità, un funambolo in equilibrio sotto il quale si spalanca l’abisso della sua anima. Dalle profondità del burrone sente che il demonio può spuntare da un momento all’altro. Quando questa precaria stabilità sembra venire meno, un meccanismo inconscio scatta dentro il parroco, causando l’autocastrazione dentro di lui e il balbettio nervoso fuori.
Don Leo appare così come uno dei personaggi più complessi della letteratura italiana degli ultimi anni (che spesso vive di elementi tipizzati e protagonisti tutti uguali, come tutti uguali sembrano i libri sugli scaffali delle librerie), una forma quasi molto lontana da qualsiasi stereotipo e un’esistenza instabile che interrogandosi, suscita domande anche al lettore. Il primo quesito dà anche il titolo al primo capitolo del libro: «Chi sono io, se Dio esiste?». Questa è un’interrogazione composta da due incognite irrisolvibili, quella della consistenza della propria identità e l’effettiva esistenza di Dio. Cosa rimane tra il vuoto infinito dell’uomo vile e incompleto e l’infinito pieno di un Creatore che è ogni cosa?
Il nostro parroco tenta la sublimazione della propria carne corrotta attraverso il tentativo di abbracciare il divino nel suo intero. Un’azione velleitaria quanto mai sbagliata e paradossalmente anti-religiosa: in principio, la vita umana fu permessa dal soffio di Dio, il quale, coincidente con il Tutto, ha dovuto ritrarsi per fare spazio alla sua creatura, per lasciare un vuoto in cui potesse vivere non solo l’uomo con le sue scelte e, per contraccolpo, in cui si generò anche il Male. Questo atto di sottrazione-di-sé, estremo gesto di benevolenza da parte del Signore, è chiamato, dalla cabala ebraica, tzimtzum. Don Leo è, dunque, un religioso che ha paura a cogliere la contrazione del Padre, e nell’assecondare ogni sua volontà in realtà vi si oppone con una lotta continua; evita di vivere sé stesso in quanto ben conscio e terrorizzato dalla potenziale e devastante bassezza delle sue pulsioni.
Brutale è il modo in cui Siti spazza via ogni velo di pudica reticenza nei confronti del peccato originale di Don Leo. La descrizione del rapporto pedofilo con Massimo viene proiettata sotto gli occhi del lettore come fosse una clip recuperata nel deep-web, non riuscendo, l’autore, a dissimulare il suo autocompiacimento voyeuristico. Conscio di star narrando l’inascoltabile, l’autore indugia per godersi il proprio momento d’onnipotenza, consapevole che quella scena sarà foriera di un’indignazione forte che non farà altro che gonfiare la bolla dell’attenzione mediatica e il numero di copie vendute. Infatti, è andata così.
«La vita di un prete sono gli altri» chiosa il protagonista in una delle prime pagine del romanzo. Infatti Don Leo non è da solo, anche se vorrebbe: scrittrici eclettiche, imprenditori cornuti, coppie in crisi prematrimoniale, confratelli di ogni pasta e temperamento… E il piccolo Andrea. Poco dopo la metà del racconto, i riflettori infatti transitano dall’esistenza tormentata del parroco verso le vicende del coro umano che accompagna i suoi confessionali, in particolar modo la vita e la famiglia di un bambino troppo intelligente per la sua età, Andrea appunto, che ha una madre amorevole e alcolizzata che ha fallito il suo sogno di diventare artista e un padre geloso e violento.
La seconda metà del romanzo è decisamente meno interessante e coinvolgente della prima, e dà l’impressione di star citando sé stessa, girando a vuoto e trascinandosi verso un cortocircuito finale già annunciato dalla sopracitata quarta di copertina. Mentre il lettore potrebbe porsi un’altra domanda («Ma quanto manca alla fine?»), ecco che una Provvidenza rovesciata, un Angelo Ignavo e satanico portatore di rovina comincia a fare il giro lungo anche se sa già che non fallirà il colpo. L’esistenza di Andrea, troppo acuto per essere solo un fanciullo, e quella di Don Leo, troppo devoto per essere un uomo, da sempre distanti e reciprocamente ignare, finiscono per intrecciarsi in seguito a una serie di circostanze e casualità innocue. Eppure, una farfalla che sbatte le ali in Brasile può generare un tornado in Texas.
Lo scacco è totale. La luce Dio e il Buio di Satana si sovrappongono, bene eterno e infinito male non si distinguono più. Il manicheismo si rivela una menzogna con cui un «cretino indeciso» che porta il nome del Creatore inganna e confonde il genere umano fin dall’èra del paradiso terrestre. Il peccato è nella fede e viceversa, salvezza e perdizione sono due facce della stessa finta medaglia, e ogni personaggio si spoglia finalmente di ogni comoda bugia e si mostra per ciò che è: una sagoma insensata e fallita, destinata a polverizzarsi nel rogo di ogni Verità universale.
Bruciare tutto è un libro che non si lava via facilmente, lascia ustioni perché solleva impietoso domande e riflessioni senza porsi l’obiettivo di trovarne le soluzioni, il bandolo di un mondo così aggrovigliato su sé stesso da soffocare. Ancora una volta, Siti si dimostra perfettamente capace di scavare verso il fondo. È il Dio dell’universo di questo romanzo, il suo intervento si palesa attraverso le note a pie’ di pagina, un po’ come fa Kinbote in Fuoco pallido di Nabokov. È un autore crudele che si diverte a piegare e menare i suoi personaggi per scoprire il momento in cui si rompono. Questo tipo di narrazione è il suo punto di forza, ma anche il suo limite definitivo, il recinto che lo delimita ma che forse lo preclude a ulteriori sperimentazioni.
In conclusione, una postilla riguardo alle critiche piovute all’uscita di questo libro. La pedofilia di un parroco è stato il pretesto per raccontare una storia di tutt’altra natura e non di meno conturbante; se poi, in fase editoriale, si è deciso di mettere un particolare accento sua perversione di Don Leo, probabilmente si è trattata di una mera logica di marketing. Eppure in molti, giornalisti, critici letterari, autori altri, si sono limitati a guardare questo specchietto per allodole, gridando allo scandalo e sciorinando i moralismi più vari. D’altronde, si sa: lo stolto guarda il dito, non la luna.