L’ultimo film di Alfonso Cuarón, Roma, è celebrato come una delle punte di diamante dell’annata cinematografica, che si avvia alla sua conclusione. Lodato dalla critica e premiato nell’ultima Mostra internazionale d’arte cinematografica con nientemeno che il Leone d’Oro, una volta uscito al cinema il 3 dicembre e, poi, diffuso su Netflix il 14 dicembre, ha raggiunto anche il grande pubblico con ulteriori apprezzamenti. Si tratta del film più personale e autobiografico del regista messicano, che torna alla sua infanzia nel paese natale, tra il 1970 e il 1971 in Città del Messico.
Nonostante le fotografie d’infanzia possano essere rivestite non di rado di una vivace gamma cromatica, Cuaròn adotta invece la patina nostalgica del bianco e del nero. Si mantiene tuttavia una nitidezza tipica di un periodo cristallizzato, ripassato e ripassato nella mente, con l’attenta ricostruzione di tutta un’oggettistica e di un movimento umano di sfondo, nella vita brulicante del profilmico, il quale spesso non si esaurisce nei soggetti in primo piano. Infatti fin dall’acqua che invade il pavimento di casa Cuarón nei titoli di testa, Roma ha un movimento persino fluviale. Non solo la scansione temporale del racconto scivola fluida alla maniera di un rivolo d’acqua, rendendo il passare dei giorni e dei mesi quasi elusivo e inavvertito, eppure consistente, ma i ricordi sono rivissuti in un’immersione ad ampio raggio. Il soggetto è incastonato spesso nella vastità di un interno domestico o di un esterno urbano di massa, o ancora di un più ritirato, quieto paesaggio di campagna. Oltre che abbracciare una certa estensione spaziale, Roma si distende in una luce diffusa e chiara, nonostante il periodo turbolento narrato, quasi a simboleggiare uno strato ulteriore, un retrospettivo e fulgido sigillo riposto al di sopra delle traversie vissute ai tempi.
La posizione di osservazione privilegiata qui è quella della domestica di famiglia, Cléo, ispirata dalla “tata” del regista, Liboria “Libo” Rodriguez. È un omaggio ad una figura materna molto importante, ma anche l’occasione per sfruttare un adeguato e peculiare punto di vista. Cléo, interpretata dalla novella attrice Yalitza Aparicio, si colloca in una posizione mediana tra due poli, sfiorando entrambi senza farvi mai parte del tutto. Nel contesto della separazione dei genitori del regista, la domestica si caratterizza infatti per essere una figura a margine innanzitutto del dissidio relazionale in corso, in parte ignara come i bambini dei più intimi conflitti tra la sua datrice di lavoro Sofia (Marina de Tavira) e il marito Antonio (Fernando Grediaga) e quindi accostabile alla percezione dell’allora piccolo Cuarón, in parte più cosciente, in quanto figura adulta, di cosa stia vagamente accadendo, caricando su di sé anche la percezione esterna dello spettatore. Avverte a porte chiuse o semi-chiuse sparuti sfoghi, una lite, esternazioni di dolore, paura per il futuro, registrando impressioni silenziosamente. Diventa “tata di città”, allontanandosi dalle terre di origine, salvo rimanere sempre a lato della famiglia per cui lavora. Si lascia alle spalle la sua famiglia biologica, accontentandosi talvolta di un privato ricordo di un’atmosfera del passato riecheggiata dal paesaggio naturale incontaminato, allegato ad un ambiente che non è propriamente il suo, ma soltanto gli somiglia. È ancora ad angolo non soltanto delle situazioni vissute, ma di vari campi larghi di Cuaròn. Diventa parte della più ampia, così curata pura immagine di Roma nella misura in cui non è attraverso il dialogo che dà lo spiraglio più significativo sulla sua persona, ma attraverso il volto di Yalitza Aparicio, contemplato a volte nel suo silenzio timido oppure in una muta, solitaria contemplazione o ancora in una esitazione inespressa e nella sottile perdita di una certa spensieratezza per un ulteriore, più doloroso riserbo nel corso dell’anno narrato. Cléo, associata all’acqua, rimanda non soltanto ad un elemento terreno, naturale – e nel paesaggio naturale infatti avrà i suoi momenti di maggiore distensione e rievocazione personale, addirittura di catarsi – che è facile da connettersi con la classe umile di cui fa parte, ma anche nella misura in cui si lascia vivere, lascia scorrere il fiume degli eventi senza riuscire a controllarli davvero (salvo un importante atto volontario, coraggioso e urgente che le permetterà un rinsaldamento affettivo alla famiglia acquisita). A lei, infatti, si associa sin da subito anche l’elemento simbolico dell’aereo nel cielo. Sin dai titoli di testa l’acqua, che in quel caso è l’acqua usata per lavare i pavimenti del garage, riflette una finestra del cortile da cui si può vedere passare un aereo, come incorniciato in un ritaglio dell’ambiente esterno. L’aereo si presta bene a simboleggiare una possibile fuga in un altrove, un luogo di altre possibilità, di uscita da una condizione svantaggiata, ma anche di una serie di avversità personali. Rimane una figura nel cielo, distante dalla terra di Cléo, un esterno che esiste ma come un quadro riflesso da lontano, che non si tenta nemmeno di concepire sé, ancorati ad un mondo di possibilità estremamente circostanziali, in cui vigono, dal punto di vista personale e sociale, varie carenze, violenza ed espropriazioni (significativamente il personaggio della madre di Cléo, che non compare mai, è caratterizzato soltanto per una notizia appresa indirettamente su ciò che le stia accadendo, cioè l’espropriazione dei terreni che ricchi proprietari terreni attuavano verso i contadini come lei). D’altronde il bianco e nero adottato dalla fotografia, sempre curata da Cuarón, non è soltanto lo spettro cromatico di un’intima nostalgia, ma un possibile riferimento alla tradizione del neorealismo. Cléo tuttavia è in una posizione di mezzo anche qui, poiché non vive nei quartieri popolari di altri personaggi della medesima estrazione, ma gode dell’alloggio presso la famiglia alto-borghese di cui si occupa, ma allo stesso tempo è in contatto ancora, attraverso alcuni personaggi, passando anche da una lingua locale ad un’altra, con il mondo da cui pure viene, pur senza particolare cognizione per lo spettatore. Non solo vi è molto di ignoto per quel che riguarda la parte più semplicemente anagrafica, dal momento che non viene mai fatta menzione di quale sia il suo passato né la sua età ad esempio, ma Cuarón sceglie anche di lasciare una più profonda interiorità del personaggio soltanto indovinata, intuita, complice la sua laconicità. Il cineasta allora pone un ulteriore livello di schermata tra lo spettatore e la protagonista stessa, eludendo talvolta il più diretto dei primi piani, specialmente nei momenti più densi della sua vita emotiva, per una ripresa a distanza, attraverso una vetrata oppure di spalle, lasciando scorgere una sua più scoperta reazione soltanto di profilo. Non solo Cléo si posiziona come ospite del posto che pure abita e di parte della storia che si sta raccontando attraverso di lei, ma lo spettatore è ospite cauto del suo personaggio. È curioso inoltre che, come film storico, la scelta del personaggio di Cléo si confaccia alla percezione degli eventi di carattere sociale del tempo, quali, ad esempio, il massacro del Corpus Christi, che ne potevano avere i bambini, dunque Cuaròn stesso nel periodo in questione. Gli eventi fanno parte a loro volta di un esterno che incide il personaggio, ma le cui cause più profonde sono lasciate alle conoscenze esterne dello spettatore, aderendo al punto di vista scelto, che assiste spesso inerme, persino vittima in alcuni frangenti, degli accadimenti che coinvolgono il collettivo di Città del Messico. Non manca però una significativa interazione formale tra l’individuo e l’ambiente collettivo. Talvolta Cuaròn si distacca da un modello di linguaggio cinematografico classico, sbilanciando la sua attenzione nelle numerose carrellate laterali sull’ambiente per sé stesso più che sul seguire i movimenti del personaggio per una perfetta e armoniosa continuità centrata su di esso. Così anche alcune inquadrature panoramiche precedono l’individuazione di Cléo come presente in esse, allargando il focus ad un piano più grande del privato dei personaggi, oppure inserendo importante azioni di Cléo – come quelle legate all’entrata in ospedale – in un nugolo di comparse femminili in un’analoga situazione, connettendola in un’estesa condizione convissuta disordinatamente, caoticamente, come d’altronde il rapporto di dipendenza di vicende storiche e vicende personali nella narrazione.
La storia di Roma però non è soltanto, di certo, la storia di Cléo, ma anche la storia di Sofia. Roma infatti trova una delle sue corde più affettive nell’essere una dedica alle “due madri” di Cuaròn (quella per Libo è anche testuale, nei titoli di coda), mostrando senza ideologie, ma con umanismo, la possibilità delle donne di risollevarsi da una condizione di seria difficoltà posta dall’ala maschile della narrazione, di riparare i cocci rotti – seguendo un’immagine dello stesso film – e riassestarsi, riadattare la propria vita, e soprattutto di trovare una forma di muta empatia, di solidarietà e reciproco aiuto. Se l’elemento dell’acqua, ad esempio, qui considerato femminile proprio perché associato a Cléo, si carica di un ulteriore e ancora più importante significato legato alla maternità, di nuovo sia biologica che acquisita, s’innerva tutto il tessuto filmico di una sistematica e altra simbologia dedicata al maschile, quella del bastone. I due personaggi maschili principali, il borghese Antonio e poi lo studente rivoltoso Fermìn (Jorge Antonio Guerrer) sono i rispettivi punti di confronto e crisi di Sofia e Cléo: da una parte l’abbandono del tetto familiare di Antonio, dall’altra l’abbandono e il brusco discostamento di Fermìn nel momento in cui Cléo gli rivela di essere incinta, certa che il padre sia lui perché non ha avuto altri partner sessuali nel corso della sua vita. Cuaròn mostra di passare agilmente da una fitta serie di panoramiche ad un’intera scena costruita ottimamente sul montaggio di inquadrature al dettaglio proprio con la prima comparsa di Antonio: il padre di famiglia di ritorno a casa, infatti, cerca di entrare in garage con un’auto che è contenuta a fatica negli spazi del cortile. Antonio prima che nel volto, viene introdotto nei suoi oggetti di contraddistinzione: una sigaretta, un archivio generale legato al suo lavoro, il lusso di un’automobile di prestigio il cui simbolo, immagine più importante a lui legata, è una coroncina con dei bastoni. Al personaggio maschile infatti si associa, al contrario del tentativo di riparazione e conservazione operato dalle donne di una situazione che non hanno ricercato, una spinta ambiziosa dal punto di vista della realizzazione lavorativa o sociale, talvolta la ricerca di uno status migliore, che comporta pure un moto di sopraffazione, di danno arrecato nell’intimo delle relazioni personali e un’associazione alla violenza perpetrata dalla storia collettiva. Il simbolo del bastone è riferito ad un linguaggio del dominio esibito, e più strettamente della bellicosità, nel momento in cui è usato come arma. È un bastone, infatti, quello tenuto orgogliosamente nell’esercizio delle arti marziali di Fermìn, così anche quelli usati nel massacro sopracitato, e – in un accenno ad un processo ciclico ineluttabile – sono bastoncini quelli usati ancora soltanto come ulteriori giocattoli da parte dei figli maschi della famiglia di Sofia, accompagnati ad una prima manifestazione di rissosità. Sotto un altro piano tuttavia al maschile viene associato anche un ordine, pur del tutto esteriore, dalla contrarietà di Antonio per lo stato della casa che non rispecchia l’immagine che vorrebbe dare di sé, a quello del sotto-collettivo di cui fa parte Fermìn, inserendosi in una perfetta e sincronizzata schiera di sportivi in allenamento. Il domestico, entro cui vivono perlopiù i bambini, è governato dalle donne ed è disordine talvolta contenuto a fatica, continuamente aggiustato, ma senza un risultato perfetto, però focolare protettivo, ancora unito per i più piccoli. Anche nel momento dell’abbandono, Sofia viene mostrata in un’analoga scena di entrata nel garage di casa con una guida più stentata, più goffa, e in cui traspare anche la fragilità emotiva che non le permette un pieno controllo di sé, alle prese un auto – ancora quella del marito – che non è esagerata per gli spazi familiari.
E per la serie di avversità che piombano, per la posizione femminile e investono senza possibilità di evitare il colpo, Cuaròn carica il suo ricordo, la sua visione retrospettiva su un tempo vissuto, di numerose premonizioni, sia nella sceneggiatura che nelle immagini. Non solo i personaggi, anche quelli infantili, pronunciano talvolta battute esplicitamente anticipatrici, ma vita e morte si intrecciano spesso, contaminandosi nel bianco e nero della fotografia, come nell’acqua della maternità di Cléo che cade sulle scarpe nere che indossa in un segnale di eventi futuri, e più specificamente nella natalità e nella drammatica mortalità umana, come nel momento in cui un terremoto fa crollare delle macerie addosso alla culla di un bambino dell’ospedale. L’uso di numerose premonizioni non può che rafforza il senso di una sventura non arginabile, ma incombente che ben si adatta al personaggio spesso fermo, apparentemente inerme e non così penetrabile di Cléo.
Ques’ultimo film del regista messicano, dunque, si caratterizza per un movimento continuo tra un privato in balìa di eventi in corso e una visione superiore, esemplificata dall’ampiezza delle panoramiche e delle inquadrature di massa, come dal rischiaramento fotografico e dai segnali retrospettivi seminati dallo stesso regista, rielaborando, riflettendo da un altro piano temporale gli eventi narrati. La posizione eccentrica di Cléo non si esaurisce nel semplice non appartenere fino in fondo ad una delle comunità presentate, ma anche nella peculiare sensibilità che incoraggia un senso di decentramento della sola visione soggettiva dell’individuo, per un inserimento in qualcosa che è più grande di lui, sia perché soggetto e modificato dagli interventi storico-sociali presentati, ma anche per un senso della risposta all’avversità che è a sua volta in bilicò tra un ricevente interme e un lento, doloroso tentativo di attività propositiva. Roma infine, come sottolineato da molti, vince innanzitutto per la bellezza dell’immagine, che incita un senso di grandezza superiore al singolo personaggio per esaltare tutto un vissuto nel suo insieme.
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