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Un Canto di Natale. Il riscatto dell’umanità

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Alfonsa Laonigro

Quando si parla del Natale, si rischia spesso di cadere nella retorica dei pacchi regalo, delle luci colorate, dei pranzi di famiglia. L’alternativa è riparare sui buoni sentimenti, l’amore universale, la messa di mezzanotte. Siamo dunque al bivio tra Natale consumistico e Natale cristiano; non sembra possibile trovare una terza via. Invece, esiste: è il Natale letterario, narrato dai grandi romanzieri in vesti sempre diverse e mai sdrucite, a dispetto del tempo passato. Di tutte le opere sul tema, la più nota è senz’altro A Christmas Carol, Un canto di Natale, di Charles Dickens. Un racconto a metà strada tra una parabola e una pièce teatrale, perfetto per la messa in scena e che difatti vanta innumerevoli adattamenti nelle forme più varie – recital, musical, film, cartone animato.

Dickens pubblica A Christmas Carol per l’editore Chapman and Hall di Londra, che ne volle fare un oggetto di lusso: un piccolo tomo ricoperto di velluto rosso, con fregi dorati e arricchito dai disegni del celebre illustratore John Leech. Non certo un’edizione economica: ma ciò non impedì all’opera di registrare un boom di vendite, con 6000 copie vendute nel solo giorno dell’uscita, il 24 dicembre 1843. Siamo nel pieno dei cosiddetti Hungry Forties, gli anni ’40 della fame: un periodo molto difficile per l’economia inglese, in particolare per le classi meno abbienti, che – specie nelle grandi città – patiscono il freddo e l’inedia. Dickens, in questo breve racconto – così come in altri punti della sua vasta produzione letteraria – sembra voler svelare l’inganno del mito del progresso, su cui si imperniano la rivoluzione industriale e la nascita del capitalismo: l’altra faccia dello sviluppo, e il prezzo da pagare per ottenerlo, sono le disperate condizioni di vita del proletariato industriale e della gran messe di disoccupati, che vive di espedienti. È proprio nei difficili anni ‘40, infatti, che si verificano le manifestazioni di protesta e gli scioperi di fabbrica che ispireranno le analisi socioeconomiche di Engels e Marx; non a caso, nel ’48 il malcontento popolare sfocerà in moti rivoluzionari che infiammeranno tutta l’Europa. La medio-alta borghesia vittoriana, dal canto suo, aveva intuito l’approssimarsi di una fase di instabilità; così, per scongiurare il pericolo di disordini – o, più di rado, per sincero impulso filantropico – aveva deciso di mobilitarsi in favore degli indigenti. Ed è qui che affonda le sue radici la redenzione di Ebenezer Scrooge.

A Christmas Carol, prima edizione originale (Chapman and Hall, 1843)

Chi sia Scrooge è presto detto. Vecchio, cinico, dispotico, tanto ricco quanto taccagno; un ritratto che ben si attaglia al borghese di fine Ottocento, quale un industriale o un affarista – o ancora, in questo caso, un losco individuo a metà tra un banchiere e un usuraio. Il suo volto sempre arcigno, corrucciato, ove non risplende mai un sorriso, fa da contraltare alla giovialità dei puri di cuore che si apprestano a festeggiare il Natale. L’azione ha luogo infatti la notte della vigilia; dopo un’ordinaria giornata di lavoro, in cui ha vessato, come ogni giorno, il suo impiegatuccio Bob Cratchit – e dopo aver rifiutato bruscamente un invito a cena da parte del nipote – Scrooge si avvia verso casa. Non sa che quella notte riceverà la visita del suo socio in affari Jacob Marley, morto sette anni prima. A fare la sua apparizione tra le cortine del letto di Scrooge è infatti lo spettro di Marley, giunto dall’oltretomba per mettere in guardia l’amico: se continuerà a vivere da misantropo, a curare solo i propri interessi senza riguardo per gli umani sentimenti, una volta morto la sua cattiva coscienza si trasformerà in una pesante catena che lo tormenterà in eterno. Il vecchio Ebenezer, dapprima incredulo, cede infine all’evidenza e accetta di seguire i consigli di Marley. Così, questi gli indica l’unica possibile via di scampo a un destino tanto terribile: accogliere i tre spettri che gli faranno visita nel corso della notte e far tesoro dei loro insegnamenti.

A Christmas Carol, R. Zemeckis (2009).

Qui ha inizio l’avventura di Scrooge. A palesarsi nella sua camera da letto è dapprima lo Spettro del Natale Passato, giunto per condurre il protagonista attraverso tre vigilie di Natale della sua giovinezza. Un’esperienza che, in realtà, è molto più di un ricordo; è un vero e proprio viaggio in una terra dimenticata e ormai semisconosciuta. Scrooge, che stenta a credere a ciò che vede, sente e tocca, si ritrova catapultato nel villaggio di campagna in cui era cresciuto; poi, nel triste convitto in cui era stato confinato da ragazzino; infine in una grande villa rustica, dove festeggia, insieme ad amici e conoscenti, il suo primo Natale da giovane adulto. Il secondo Spettro, dall’aspetto gioviale e rubicondo, è la personificazione del Natale Presente; egli mostra a Scrooge gli effetti del suo comportamento sulla condotta delle persone a lui vicine – il nipote e i suoi invitati per la cena di Natale, ma soprattutto la famiglia Cratchit, povera ma felice. Particolare interesse susciterà in Scrooge la sorte del piccolo Timmy Cratchit, o Tiny Tim: il più giovane dei tanti figli di Bob, affetto da una grave malattia che l’ha reso debole e storpio. Il terzo ed ultimo visitatore, nonché il più inquietante e minaccioso, è lo Spettro del Natale Futuro: l’unico a rimanere in silenzio per tutto il tempo del viaggio e a non mostrare mai le sue fattezze. Si presenta avvolto da un tetro mantello, da cui sbuca solo una mano scheletrica, che indica a Scrooge ciò che lo attende qualora perseveri nel suo contegno rude, malvagio e solitario. È qui che si compie la definitiva redenzione del vecchio avaro; una metamorfosi di cui già erano comparse le prime avvisaglie durante il viaggio nel passato e nel presente. Ma è solo dinanzi al prospettarsi di una sorte atroce per sé e per gli altri che Ebenezer, finalmente, ritrova sé stesso e si trasforma nell’uomo che forse avrebbe sempre voluto essere.

Il canto di Natale di Topolino (B. Mattinson, 1983).

Tra gli adattamenti cinematografici più noti dell’opera di Dickens, che tanto ha da insegnare anche – forse soprattutto – alla società odierna, spicca senz’altro il Canto di Natale di Topolino, cortometraggio animato della Walt Disney Productions (1983) vincitore di un premio Oscar. Tra le produzioni più recenti si ricorda il film del 2009 A Christmas Carol di Robert Zemeckis, realizzato in performance capture e interpretato da Jim Carrey e Gary Oldman. I primi adattamenti dell’opera di Dickens si attestano, comunque, già all’inizio del secolo scorso, coi primi cortometraggi muti prodotti in Inghilterra (1901), Stati Uniti (1908) e Italia (1910).

Una delle molte edizioni italiane (Marsilio, 2001).

Per quanto l’opera possa sembrare, in diversi passaggi, un dramma a tinte fosche che lascia poco spazio al più flebile barlume di speranza, la possibilità di redenzione non resta del tutto esclusa. Il tema del riscatto, del resto, è trasversale nell’opera dickensiana – basti pensare all’evoluzione spirituale dei protagonisti in Oliver Twist o David Copperfield. Un canto di Natale è il primo di una serie di racconti a tema natalizio, The Christmas Books, scritti da Dickens tra il 1842 e il 1848 e pubblicati in serie unica nel 1852. La raccolta, disponibile in edizione italiana, comprende titoli meno noti ma non meno preziosi: Le campane, Il grillo del focolare, La battaglia della vita, Il patto col fantasma. In tutti questi racconti è presente il tema del sovrannaturale, da intendersi come metafora della vita terrena e come pretesto per un ripensamento della propria condizione, da cui scaturisce quel riscatto che potrà renderci persone migliori. Persone degne di giocare un ruolo di rilievo nella propria vita e nelle vite degli altri: è questo, probabilmente, il vero spirito del Natale.

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Alfonsa Laonigro

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