Inter-Napoli è la classica goccia che fa traboccare il vaso. Un vaso, quello del nostro campionato, pieno di violenza, ipocrisia, razzismo ed odio. All’indomani del primo Boxing Day italiano – chiusosi con il big match tra la seconda e la terza classificata del campionato – non si parla della grande prestazione dell’Atalanta contro la Juventus, del Milan che non sa più segnare, o della vittoria all’ultimo fiato dell’Inter e di Lautaro Martinez, che con il gol di ieri potrebbe svoltare la sua carriera.
Non possiamo parlarne perché – fuori da San Siro – c’è da raccontare l’ennesimo morto a causa di una partita di calcio, l’ultrà varesino Daniele Belardinelli, trentacinquenne già noto alle forze dell’ordine per precedenti Daspo, e che ieri si trovava a Milano per quella che il questore di Milano Marcello Cadorna ha definito «un’azione squadristica ignobile» di circa cento tifosi organizzati dell’Inter, del Varese (a cui apparteneva Belardinelli) e del Nizza, con la finalità di aggredire un van di tifosi partenopei.
Non possiamo parlarne perché – dentro San Siro – c’è da raccontare l’ennesimo episodio di razzismo durante una partita di calcio. La vittima è nuovamente Kalidou Koulibaly, che da quando gioca in Italia ha bisogno di nuove mani, perché le sua dita non bastano più a contare questi episodi. Non possiamo parlarne, poiché c’è da raccontare la dilagante ipocrisia dei nostri vertici del calcio, del presidente della FIGC Gabriele Gravina che prima minaccia una sospensione del campionato, per poi dire che «Il campionato non si ferma: dobbiamo dare un segnale forte». Il segnale forte, come al solito, è quello di trovare un paio di capri espiatori, chiudere un paio di curve, disporre un paio di provvedimenti, per lasciare tutto come prima.
Per quanto si ami il calcio, non si può continuare come se nulla fosse, sperando (purtroppo fondatamente) che tra poche ore tutto o quasi verrà dimenticato dall’opinione pubblica. Con i soliti provvedimenti impersonali, non facciamo altro che rimandare il problema, che – come sempre – ritornerà più forte di prima.
Inter-Napoli è la goccia che fa traboccare il vaso forse perché per la prima volta violenza e razzismo si intrecciano nello stesso momento, quasi nello stesso luogo; e mai come ieri sera l’uno implica l’altro. Chi vuol capire, capisca.
Non vorremmo, ma dobbiamo parlare di politica, dato che certe volte sembra partire tutto da lì, legittimando qualsiasi azione o pensiero. Sembrerebbe troppo facile e comodo sottolineare che un Ministro dell’interno della Repubblica Italiana si è fatto fotografare con un capo-ultras pregiudicato (anche se il Barone, altro storico ultrà milanista, dice giustamente che «Salvini non poteva sapere delle condanne di Luca Lucci»; ma non è questo il tema principale). Troppo facile criticarlo, ma inevitabile.
Sarebbe ancora più facile dare tutte le colpe a Matteo Salvini e alla Lega di quello che succede oggi, ma a quel punto saremmo troppo semplicistici e riduttivi.
Troppo spesso nel nostro paese lo sport nazionale è stato preso in ostaggio da chi vuole decretare la sua morte, e ci siamo abituati tanto da non considerarlo più un problema primario. Certo, non siamo l’unico paese al mondo dove si muore per il calcio, e non abbiamo raggiunto la dimensione di guerra civile dell’Argentina o dei Balcani. Probabilmente però – e con tutto il rispetto – non sono questi i Paesi con i quali l’Italia dovrebbe confrontarsi.
Sin dai primi passi sui campetti di periferia, troppo spesso ci insegnano il calcio come regno di un individualismo sfrenato, in cui siamo da soli contro il nemico. In cui dobbiamo primeggiare persino sui nostri compagni di squadra. In cui i nostri genitori possono insultare l’allenatore perché ci fa accomodare in panchina, oppure insultare l’arbitro che non ci fischia un fallo contro. Ma uno sport di squadra non può ovviamente coesistere con questo. Parole di demagogia evidente queste, è innegabile, ma è difficile trattenersi quando in terza categoria, l’ultimissima delle serie calcistiche, un uomo muore mentre cerca di sedare una rissa. In terza categoria.
E non possiamo permetterci di perpetuare la nostra ipocrisia se vogliamo davvero cambiare lo stato delle cose. Non è più tollerabile che chi di mestiere dovrebbe raccontare il calcio nella maniera più pura possibile faccia la morale copia e incolla, per poi tornare a casa e crescere un figlio xenofobo. Non possiamo permetterci di minacciare di ritirare dal campo la nostra squadra solo quando perdiamo o subiamo un episodio a sfavore, salvo poi metterci una pietra sopra se dopo i cori razzisti sul campo arriva una vittoria.
Non possiamo, nemmeno, cinicamente accettare la situazione e considerarla meno grave se a morire sono gli ultrà con qualche Daspo sulle spalle, perché almeno «si eliminano tra di loro» e non ci sono innocenti di mezzo. Non possiamo moralmente accettare che i fischi a un giocatore di colore si compensino perché «ormai ogni squadra ha dei calciatori neri, quindi sono solamente degli insulti di gente ignorante e incoerente». Non possiamo permettercelo perché è quanto di più superficiale potremmo fare, ignorando che dietro ogni fischio potrebbe esserci un uomo che soffre, arrivato in Italia per giocare a calcio ma costretto a vivere la propria carriera con questo.
Sarebbe troppo dire che forse la Serie A, fattasi grande negli anni grazie a giocatori di ogni parte del mondo, è un prodotto che non merita di esistere in un ambiente del genere?
Nel film Cose dell’altro mondo, con protagonista Diego Abatantuono, in seguito al discorso televisivo di un politico che chiede il rimpatrio immediato di tutti gli extracomunitari, questi spariscono dalla sera alla mattina, lasciando il vuoto persino nel protagonista, un industriale razzista. E se dalla prossima giornata di campionato sparissero tutti i calciatori con un colore della pelle diverso dal nostro, noi cosa proveremmo?
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