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2019: il mondo che verrà

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Carlo Paganessi

Il 2018 volge rapidamente al termine e va in archivio insieme agli eventi che hanno caratterizzato le relazioni internazionali nel mondo e che seguiranno a produrre effetti nel 2019. Le elezioni italiane hanno visto la vittoria del fronte sovranista composto da Movimento 5 Stelle e Lega, i quali sono riusciti a formare un governo dopo due mesi di trattativa. Le proteste dei “gilet gialli” in Francia hanno costretto il governo a promettere nuove misure di sostegno al reddito. Altra notizia degna di nota è quella del ritiro dalla vita politica di Angela Merkel, che lascerà un vuoto importante come leader e come figura chiave nel processo di approfondimento dell’integrazione europea. In Europa orientale le tensioni sono continuate dopo la quarta rielezione di Vladimir Putin, con un picco a novembre dopo il transito di alcune navi militari ucraine nello stretto di Kerch bloccato dalla Russia. Kiev ha proclamato la legge marziale nell’ottica di una possibile offensiva russa. A ottobre l’uccisione del giornalista Jamal Kashoggi ha sconvolto l’opinione pubblica mondiale gettando ombra sul processo di rinnovamento interno dell’Arabia Saudita e si è mostrato come l’ennesimo banco di prova dove la politica estera di Trump è risultata assolutamente indecisa e inadeguata. Altra decisione molto criticata è stata quella di togliere le truppe dalla Siria, lasciando gli alleati curdi in balia di Ankara, Mosca, Damasco e Teheran, senza contare la macchia risultante sulla credibilità statunitense sullo scacchiere mondiale.

Il prossimo anno si aprirà con la Romania che assumerà la presidenza di turno dell’Unione Europea, mentre a luglio sarà il turno della Finlandia. Entrambi i paesi non svolgono un ruolo particolarmente centrale nei processi decisionali dell’Unione Europea e proprio per tale motivo avranno l’onere e l’opportunità di riportare al centro del discorso la politica di Bruxelles nei confronti dei Balcani e nei confronti dei paesi scandinavi. Nel primo caso, in particolare, il paese è reduce dalle proteste contro la corruzione avvenute in agosto, dove la piazza chiedeva una stretta sulla trasparenza delle forze di governo e maggior chiarezza sui fenomeni di corruttela che le riguardano.

Donald Tusk e Jean Claude Juncker, entrambi concluderanno il mandato entro la fine dell’anno. Reuters

Il 2019 sarà un anno fondamentale per l’Unione Europea: a maggio (26-29) ci saranno le elezioni europee. Le elezioni di quest’anno verteranno su due idee diverse d’Europa: una che la vuole in chiave minore, divisa, con un ritorno delle competenze agli stati. L’altra idea punta invece ad un’Europa più coesa e che ritorni al processo di approfondimento dell’integrazione europea. Le forze governative italiane si annoverano nel primo modo di vedere il futuro del continente e stanno vivendo in una campagna elettorale permanente dalla primavera di quest’anno. Dagli Stati Uniti Steve Bannon, spin doctor di Donald Trump e primo consigliere della sua campagna elettorale, è arrivato in Europa cercando di dare una sovrastruttura ai partiti nazionalisti e sovranisti. L’iniziativa del guru americano è destinata a fallire per mancanza d’unità d’intenti ma dà l’idea della possibilità di sfruttare un determinato clima europeo derivante dalla crisi economica iniziata un decennio fa e mai definitivamente superata, almeno a livello di zeitgeist continentale. A ottobre e a novembre termineranno i rispettivi mandati Jean-Claude Juncker, Mario Draghi e Donald Tusk, rispettivamente Presidente della Commissione Europea, Presidente della Banca Centrale Europea e Presidente del Consiglio Europeo. A fine marzo il Regno Unito uscirà dall’Unione Europea e ad oggi un eventuale accordo sembra abbastanza improbabile dati i rapporti di forza.

Il 2019 sarà anno di elezioni non solo in Europa: a febbraio la Nigeria sarà chiamata a scegliere il proprio presidente nelle seste elezioni dopo la fine della dittatura militare nel 1999. La sfida è tra il presidente uscente Muhammadu Buhari dell’APC (All Progressives Congress) e lo sfidante Atiku Abubakar del Partito Democratico, già vicepresidente dal 1999 al 2007 durante la presidenza Obasanjo. La competizione elettorale verrà animata anche da altri candidati, su tutti Donald Duke, sempre facente parte del Partito Democratico ma che correrà con la nuova piattaforma (Coalition for Nigeria) creata dallo stesso Obasanjo. I temi centrali saranno principalmente sociali, con le recenti tensioni manifestate tra comunità cristiane e musulmane e un paese che cerca di rimanere unito garantendo la rappresentanza alle molte etnie.

Manifesto elettorale del presidente Buhari, che concorrerà nuovamente per la presidenza della Nigeria. EPA/AHMED JALLANZO

La terza settimana di Aprile gli occhi del mondo saranno puntati sull’Asia: il 17 ci saranno le elezioni in Indonesia, dove la competizione elettorale riguarda essenzialmente due candidati. Il primo è il presidente attualmente in carica, Joko Widodo del Partito della Lotta, un partito basato su istanze fondamentalmente populiste e che si appoggia al clero islamico (il ticket elettorale è infatti completato dall’ulama Maaruf Amin). Gli si contrapporrà il businessman ed ex comandante delle forze speciali Prabowo Subianto, genero di Suharto, che corre con il partito Gerindra (Great Indonesia Movement Party). Questi si posiziona su istanze più legate alle élites economiche del paese, quindi è spostato su istanze più liberali, in particolare in campo economico.

Il 20 aprile sarà il turno dell’Afghanistan: se da un lato ci sarà il presidente uscente Ashraf Ghani, dall’altro non è ancora emerso un vero e proprio sfidante. Si temono inoltre rappresaglie da parte dei talebani, che hanno sempre bersagliato qualsiasi consultazione popolare in quanto contraria ai dettami della propria visione dell’Islam. Sempre ad aprile si terranno le elezioni in Israele, come deciso lunedì dalle forze di governo, le quali segneranno con ogni probabilità l’uscita di scena di Netanyahu dalla vita politica del paese per lasciare il posto a tendenze più centriste e meno legate alle istanze religiose. Tra aprile e maggio si terranno le elezioni in India per il Lok Sabha: dopo le regionali di dicembre 2018 il Partito del Congresso guidato dalla dinastia Gandhi-Nehru si pone in rimonta nelle regioni più popolose mentre il BJP del premier Modi perde terreno, ma l’ago della bilancia verrà rappresentato dai partiti territoriali e castali.

Un nuovo stato potrebbe sorgere nel 2019: l’isola di Bouganville vedrà un referendum per l’indipendenza tenersi a giugno. AP

Nel 2019 con molte probabilità assisteremo alla nascita di un nuovo stato: l’isola di Bouganville terrà un referendum a giugno per decidere sull’indipendenza dalla Papua Nuova Guinea. Tale consultazione è solo il punto d’arrivo di un lungo processo iniziato con la decolonizzazione prima e con la guerra civile poi, conclusa nel 1999 con un armistizio permanente che ha gettato le basi per l’indipendenza. Il nuovo stato conterebbe 140.000 abitanti e una superficie di oltre 9.000 chilometri quadrati. Alla base dell’indipendenza, oltre alla questione etnica, c’è una motivazione di tipo economico riconducibile sia alle risorse minerarie dell’isola sia all’appartenenza ad aree economiche diverse: mentre la Papua Nuova Guinea dialoga più con l’Asia, infatti, Bouganville commercia maggiormente con l’Australia e l’Oceania.

Il dossier del 2019 ha ancora molto altro da scoprire: la probabile fine della guerra in Siria è stata allontanata dal ritiro degli Stati Uniti e, a meno che Francia e Regno Unito non li sostituiscano, sfocerà in un probabile escalation del conflitto tra Turchia e Kurdistan. Libia e Yemen sembrano ancora in mezzo al guado con due guerre civili di cui ancora non si vede la fine. Il 2019 vedrà nuovamente le istanze di apertura e di chiusura delle nazioni contrapposte, con una sola di queste a garantire un futuro di pace favorito dai legami commerciali e politici tra le nazioni.

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Carlo Paganessi

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