Ci troviamo ormai alla fine dell’anno e, come ormai di consuetudine, è arrivato il momento di stilare un bilancio per quanto riguarda i migliori album pubblicati nel corso del 2018. Come sempre in queste occasioni è difficile, se non impossibile, essere obiettivi, in particolare all’interno di un mercato discografico in cui le uscite musicali sono numerosissime e arrivano da diverse piattaforme, con la naturale conseguenza di rischiare di perdere qualcosa lungo la strada. La seguente classifica perciò ha più lo scopo di dare un piccolo quadro generale di quanto di buono è stato prodotto nell’anno che si sta per concludere, fra importanti conferme, attese reunion e promettenti esordi, con un taglio il più trasversale possibile. Piccola nota prima di cominciare a scalare la classifica: Both Directions at Once, disco di Coltrane inedito pubblicato il 29 giugno scorso, è stato tagliato in quanto trattasi di una registrazione del 1963 e perciò non si può considerare propriamente un disco contemporaneo.
Rischiava quasi di passare inosservato questo 2012 – 2017, pubblicato lo scorso febbraio in segreto da Against All Logic, nome dietro al quale si cela uno dei musicisti più interessanti dell’ultimo decennio: Nicolas Jaar. Rispetto ai dischi pubblicati sotto il suo nome vero, il progetto parallelo di Against All Logic è maggiormente improntato verso la musica propriamente da club, con tanto di cassa dritta e break tipici della musica house. Il suo stile però è nettamente distinguibile: Jaar aggiunge un tocco di sobrietà alla musica da dancefloor, guarnendola di ricercati campionamenti soul, cadenzate ritmiche travolgenti e studiate melodie che convincono sia gli ascoltatori occasionali che gli appassionati del genere. Una house che si mette lo smoking e si tira a lucido, spoglia di quelle sonorità bercianti della musica più commerciale e invece impreziosita da numerosi richiami al funk e al soul, ma anche all’hip-hop e alla musica latino-americana. 2012 – 2017, nonostante non sia caratterizzato dallo sperimentalismo degli album più canonici di Jaar, è una riuscita prova stilistica, dove le varie influenze del DJ cileno si condensano in un disco di godibilissima house ammiccante, adatto sia alle frenetiche discoteche di Ibiza che a un ascolto più concentrato e introspettivo.
Dopo una serie di singoli pubblicati fra il 2013 e il 2015, quest’anno è arrivato il primo disco di inediti di Sophie Xeon, nota semplicemente come Sophie, musicista scozzese trasferita a Los Angeles con una discreta esperienza da produttrice alle spalle. Con il suo Oil of Every Pearl’s Un-Insides, Sophie riveste di un ingannevole abito pop la sua musica versatile e sfaccettata, costruita su adrenalinici trip digitali e complesse architetture musicali. L’ambiguità della personalità transgender di Sophie si riflette soprattutto sull’uso magistrale della voce della cantante Cecile Believe, caratterizzata da una notevole estensione che viene esasperata dagli effetti computerizzati, attraverso cui la rimodella a proprio piacimento. La percezione è quella di ascoltare un disco di Madonna posseduta dallo spirito di Björk e bombardato da una pioggia di droghe sintetiche: il risultato è un album in cui la forma della canzone pop viene sublimata, frammentata e ricostruita in vari e assurdi modi, con i tasselli che si sovrappongono e si scontrano fra di loro. Un completo e moderno stravolgimento della musica da classifica, volto a scombussolare anche i più solidi elementi che caratterizzano la musica pop.
Giunti alla loro settima fatica, intitolata semplicemente 7, il duo americano dei Beach House non sembra capace di sbagliare un disco: collaudata la formula che attinge dallo shoegaze e dal dream pop, in una felice operazione di revival, 7 è un etereo viaggio fra le melodie oniriche à la Cocteau Twins e l’elettronica lo-fi dei primi anni del gruppo. I Beach House si muovono perfettamente a loro agio nelle eleganti visioni cosmiche che mettono in piedi musicalmente, frutto di una totale sinergia fra Victoria Legrand e Alex Scally, le due anime del gruppo. Sospeso a mezz’aria in una sorta di paradiso alieno, 7 sembra sganciarsi dalla dimensione terrena, aspirando a una condizione soprannaturale grazie ai distesi sintetizzatori che si innalzano in viscose onde musicali. L’essenzialità degli elementi ritmici, talvolta anche assenti, non fa altro che contribuire l’immersione nel mare spaziale tratteggiato dai Beach House, in uno stato di stordimento apnoico. La suadente voce di Legrand culla l’ascoltatore, affascinandolo e ipnotizzandolo come una omerica sirena. Con la differenza che i Beach House non hanno l’obiettivo di ammaliare per poi trarre in inganno, ma quello di aprire nuovi percorsi nella loro ricerca legata a una certa nostalgia dream pop che non smette di stupire.
Uscito appena il 30 novembre scorso, Some Rap Songs dà solo una vaga indicazione del contenuto del disco: una manciata di brani rap da parte di uno dei musicisti più interessanti della scena, passato da enfant prodige a rapper affermato. Quindici brani per 24 minuti di musica: soffermandosi su questo dato, parrebbe di trovarsi di fronte a un disco dei Ramones, in cui la musica sfreccia come un jet al decollo. Invece, Earl Sweatshirt si prende il suo tempo e inganna l’orologio, riuscendo a condensare nella breve durata dei brani tutto ciò che vuole dire. Su basi dall’infarinatura jazzistica e ipnotici loop filtrati, il rapper di Chicago si racconta con stralunate melodie, passando dai problemi che lo tormentano nella sua vita personale a pungenti imbeccate alla società americana. Nei brani sono dei brevi abbozzi in cui spesso e volentieri manca un appiglio melodico orecchiabile, ma sono estremamente efficaci nella loro struttura inusuale. Compare anche un omaggio al padre e allo zio di Earl Sweatshirt, entrambi importanti personalità sudafricane scomparse quest’anno: Earl Sweatshirt, all’anagrafe Thebe Kgositsile, è figlio del poeta Keorapetse Kgositsile e nipote del musicista Hugh Masekela. Il padre si può ascoltare mentre recita una poesia in Playing Possum, mentre la tromba campionata dello zio chiude l’album con Riot!. Un disco che procede come un flusso di coscienza irregolare, a passi sbilenchi ma sicuri e inabissato in una nube di sporca avanguardia jazz.
6) Jon Hopkins – Singularity
Pubblicato il 4 maggio 2018, Singularity è il quinto album in studio del musicista britannico Jon Hopkins. Nonostante la durata di 62 minuti, Singularity è concepito come un lungo brano, in cui è possibile immergersi in una trance psichedelica di elettronica spinta. Tutto il disco è costruito in maniera circolare, tanto da iniziare e finire sulla stessa nota e, di conseguenza, ne è possibile un’eventuale ascolto continuo, in cui l’arrivo coincide con la partenza. A grattati beat in quattro quarti si contrappongono leggere note di pianoforti, contemplativi paesaggi techno e ispirati climax di sintetica ambient. Un progetto ambizioso fin dalla sua nascita, in cui Hopkins è stato ispirato principalmente dalla meditazione trascendentale e dopo un anno e mezzo di gestazione il risultato è più che soddisfacente. Il suggestivo percorso attraverso cui Hopkins accompagna l’ascoltatore è composto da una variegata trama musicale, a tratti compatta e dura, a tratti malleabile e sfilacciata. Il viaggio non è solo sonoro, ma psicologico, è uno specchio che riflette i vari stati d’animo attraversati dal suo autore nel corso della realizzazione del disco, in un costante gioco di alternanza fra botte di adrenalina e delicate melodie minimali.
5) Idles – Joy as an Act of Resistance
Gli Idles, formazione di Bristol nata nel 2011, hanno iniziato a destare più di qualche curiosità nel 2017 con il loro album di esordio, Brutalism. Il 31 agosto scorso è uscito il loro secondo disco, Joy as an Act of Resistance, che non solo ha rispettato le aspettative, ma le ha superate, dimostrando che nel 2018 il punk ha ancora un ruolo e, soprattutto, un senso. Gli Idles non si aggregano a quella deriva pop punk all’acqua di rose di fine anni ’90, né alle nicchia hardcore ancora più spinta: il loro è uno stile spregiudicato, diretto, aggressivo e brutale. La band guidata dal cantante Joe Talbot risponde prima di tutto a un bisogno sociale, quello di farsi portavoce della classe operaia, senza però scadere in facili populismi. La gioia come resistenza c’è, ma è pregna di cinismo e violenza: Talbot, con un sorriso beffardo, si scaglia furiosamente contro le politiche del Regno Unito e, in particolare, contro la Brexit. Gli stilemi classici del punk ci sono tutti, ma rinvigoriti da un sincero bisogno di ribellione e non come semplice emulazione di ciò che è stato. Unico brano che discorda con il resto (nella forma, ma non nello spirito) è June, straziante addio di Talbot alla figlia, nata già morta lo scorso giugno.
Nonostante gli ottantun’anni compiuti a marzo, il trombettista statunitense Jon Hassell dimostra di avere ancora idee e fiato da vendere: Listening to Pictures è un disco incredibilmente fresco, moderno e costellato da varie influenze, tanto da fargli stare stretta la semplice etichetta di jazz. La sinestesia che dà il titolo al disco è una chiara dichiarazione di intenti: quelle di Jon Hassell non sono composizioni, ma veri e propri quadri sonori, in cui i vari strumenti impiegati contribuiscono, con la loro stratificazione, alla realizzazione di un’immagine che si può ascoltare. Non è quindi l’elemento visivo che funge da forza ispiratrice del musicista, semmai il contrario: le texture sonore prendono corpo, assumono una ruvidezza palpabile e diventano pennellate che compongono un ritratto fatto di suoni, in cui è possibile distinguere sia i singoli strumenti, sia percepire un effettivo quadro d’insieme. Il risultato è un’elegante opera a metà fra il jazz e l’ambient, in cui spuntano elementi noise, elettronici e glitch che alternativamente si addensano e si frammentano fra loro, il tutto legato dalla magica tromba di Hassell. Un successivo passo avanti nel discorso musicale di Hassell, che, a dispetto dell’età, sforna un’opera raffinata e con uno sguardo sempre rivolto al futuro.
Fra le sorprese discografiche più gradite di quest’anno c’è Saba, rapper originario di Chicago, con il suo secondo disco Care for Me. Distante dai cliché machisti della scena gangsta rap e della più recente trap, Saba non si sofferma su episodi autocelebrativi riguardanti donne, droghe e soldi, ma scava nel proprio animo, affrontando paure, traumi e il dolore senza nascondersi. Il disco ruota attorno alla figura di John Walt, cugino di Saba morto assassinato nel 2017 dopo una stupida lite. Il lutto offre spunti di introspettiva riflessione a Saba, segnato nel profondo dalla perdita di Walt, che racconta con sofferta rabbia la futilità dell’episodio che ha portato alla morte del cugino: Jesus got killed for our sins, Walt got killed for a coat è il disperato sfogo in cui si lancia Saba, tracciando un parallelismo con Gesù che si ripresenterà attraverso diversi rimandi biblici per tutto il disco. Accompagnato da raffinate basi dai richiami jazzistici, costruite su sinuose linee di basso, rarefatti accordi di chitarra e piano e ipnotici groove di batteria, Saba attraversa un faticoso percorso per superare la depressione, riuscendoci solo nella conclusiva Heaven All Around Me, liberatorio gospel dal messaggio positivo e che gli consente di riprendere in mano la propria vita.
Per festeggiare il quarto di secolo di carriera assieme, i Low pubblicano Double Negative, loro dodicesimo album in studio e uno dei loro lavori più radicali. Nonostante i lunghi anni passati insieme, il trio di Duluth dimostra ancora una volta la capacità di reinventarsi in continuazione: in Double Negative, conturbanti ritmiche industrial e noise spazzano la strada su cui si stendono cupe melodie dagli echi trip hop. La strumentazione elettronica infrange con violenza la struttura armonica dei brani, qui ridotta all’osso, in un trionfo di sintetico minimalismo che impregna l’atmosfera di una distruttiva carica nichilista. La stessa voce della cantante, Mimi Parker, inizialmente delicata e avvolta in un velo di malinconica inquietudine, viene poi manipolata, frammentata e ricostruita fino a essere irriconoscibile, fondendosi meravigliosamente con quella del marito e chitarrista Alan Sparhawk. L’intero album gioca su questa continua alternanza fra dolci carezze e aggressivi schiaffi che prima ammaliano l’ascoltatore e poi lo stordiscono con forza. Double Negative rimette in discussione tutto il percorso compiuto dai Low fino a oggi, sospeso fra divagazioni ambient e shoegaze, alienanti scariche di noise elettronico e poetiche melodie gospel. Uno sfogo di angosciante dolore, ipnotico e straziante, scarnificato e stravolto fino a diventare una lacerante elegia lisergica.
I Sons of Kemet, atipico quintetto jazz creato dal sassofonista Shabaka Hutchings nel 2011, si presentano alla corte della rinomata etichetta Impulse! con quello che è il loro miglior disco finora, intitolato Your Queen Is a Reptile. Uscito il 30 marzo 2018, l’album è un concept che pone al centro la figura di alcune importanti donne afroamericane, attiviste sociali che hanno sempre combattuto per l’affermazione dei diritti civili e contro ogni forma di razzismo. I nomi delle cosiddette regine, come vengono riconosciute dai Sons of Kemet, compaiono esplicitamente nelle tracce che compongono il disco, mentre il titolo dell’album serve a indicare contro chi queste donne hanno combattuto per secoli: la monarchia britannica, colpevole di anni di imperialismo e colonialismo che hanno soggiogato in primis la popolazione afroamericana, è la regina formalmente riconosciuta contro cui Hutchings e compagnia si scagliano, qui paragonata a un rettile. Musicalmente, Your Queen Is a Reptile mette in mostra quanto il jazz abbia ancora tanto da dire nel 2018: fra contaminazioni ritmiche cubane, vorticose poliritmie afrobeat e tribali danze fra il funk, lo ska e il reggae, i Sons of Kemet amalgamano le varie correnti che la black music ha attraversato nel corso del Novecento in una poderosa miscela di trascinante jazz di critica sociale.
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