A certe analisi superficiali, fondate forse su retoriche antiquate, l’idea che un calciatore possa soffrire di depressione appare inaccettabile, persino ridicola. Le patologie dell’animo, per così dire, quelle legate alla salute mentale, stanno solo recentemente venendo rivalutate come parzialmente invalidanti al pari di quelle fisiche, sgretolando un tabù antico. Specialmente tra gli uomini, a causa di dinamiche sociali tanto retrograde quanto purtroppo radicate nel pensiero comune, parlare di depressione è un atto complicato. Ancor di più quando gli uomini in questione sono stelle dello sport. Ricchi, famosi, adorati da orde di tifosi. La depressione non risparmia nemmeno chi, nell’immaginario comune, ha tutto ciò che si possa desiderare.
Nel 2014, la FIFPro, in collaborazione con sindacati dei calciatori di sei paesi diversi, ha lanciato uno studio sulla salute mentale dei professionisti. Su un campione di circa trecento calciatori, il 26% dei centottanta ancora in attività riportava disturbi depressivi, il 19% diceva di fare occasionalmente abuso di alcol e un ulteriore 26% di avere abitudini alimentari insalubri. Centoventuno dei partecipanti erano ex-calciatori, più dell’80% dei quali si era ritirato volontariamente. Tra questi, il dato relativo al disturbo depressivo saliva al 39%, quello dell’abuso di sostanze alcoliche al 32% e quello delle cattive abitudini alimentari addirittura al 42%. Dati che evidenziano una preoccupante diffusione della depressione nell’ambiente del calcio professionistico, addirittura superiore alla media della popolazione nella categoria degli ex-calciatori.
A occuparsi dello studio è stato il dottor Vincent Gouttebarge, laureato in Scienze Sportive con conseguente PhD ottenuto al termine della propria carriera calcistica. Secondo Gouttebarge l’obiettivo che la comunità sportiva dovrebbe prefiggersi è quello di abbattere lo stigma legato ai disturbi mentali, per arrivare in un futuro prossimo a educare i calciatori professionisti a riconoscere i sintomi degli stessi e sentirsi in pieno diritto di poter chiedere aiuto. In una vita già satura di pressioni come quella di un calciatore, picchi di stress relativi a infortuni, cali di forma o drammi personali o familiari possono avere un peso enorme sulla stabilità della salute mentale.
Durante l’ultima partita di Europa League contro il Salisburgo, i tifosi del Celtic hanno esposto uno striscione dedicato a Leigh Griffiths. Di recente, Griffiths aveva dichiarato il proprio temporaneo ritiro dal calcio per poter efficacemente combattere contro la depressione, che lo aveva addirittura portato a sviluppare una dipendenza da gioco d’azzardo. Lo striscione arriva in seguito a dichiarazioni di sostegno da parte della società: «Parlare non è più una debolezza. Dobbiamo dimenticarci del calciatore e pensare all’essere umano», ha dichiarato il manager Brendan Rodgers. Per quanto la tifoseria del club di Glasgow si sia sempre distinta per una certa mentalità progressista, gesti di questo tipo sono certamente incoraggianti. E più che mai necessari.
Quel velo di vergogna e di indifferenza che aveva nascosto al pubblico le parti più fragili dei giocatori sembra ora essere squarciato con sempre maggior frequenza. Specialmente quando a parlarne è proprio chi vive, o ha vissuto, il problema in prima persona. Lontano dai riflettori del calcio europeo, Andrés Iniesta, in un’intervista a La Sexta di novembre, ha parlato con grande lucidità del proprio periodo nero. «Le persone sono mosse dalle passioni, dal desiderio, dai sentimenti. Quando sei in quella condizione, non senti niente», ha dichiarato. «Passavo le giornate ad aspettare che arrivasse la sera per prendere una pillola e non sentire più niente. Stavo sul divano, con tutta la mia famiglia attorno, ma ero solo, chiuso dentro me stesso».
Scavando un po’ più a fondo, emergono numerose storie simili a quella di Iniesta. Nel marzo scorso, a pochi mesi dal suo ritiro, Per Mertesacker si è raccontato a Der Spiegel. «Non voglio lamentarmi. So di avere una vita privilegiata», dice, quasi a scusarsi delle sue parole. Poi passa ai fatti: «Prima di ogni partita sento lo stomaco rivoltarsi, penso di essere sul punto di vomitare e a quel punto tossisco fino alle lacrime. È sempre stato così, fin dall’inizio della mia carriera». Nell’intervista, Per racconta un episodio talmente lontano dal nostro immaginario che quasi si potrebbe definirlo un’illuminante fotografia della sua realtà: «Questa sensazione si acuisce nelle partite dei Mondiali. Quando nel 2006 fummo eliminati dall’Italia, ero affranto. Ma una parte di me pensava che finalmente era finita. Come avrei potuto confessare una cosa simile?».
Nel giugno dello stesso anno, dall’altra parte del confine, un’altra storia di estrema solitudine sembrava giungere a una tragica fine. Gianluca Pessotto, stringendo un rosario tra le mani, si lanciava nel vuoto da un abbaino della sede sociale della Juventus. Un’automobile, che attutì – per così dire – la sua caduta, gli salvò la vita. Al suo risveglio non ricordava nulla, solo la gioia di essere vivo. Dovette domandare allo psichiatra che lo aveva in cura cosa gli fosse successo. «Solo l’amore degli altri», disse, «ti mostra la strada per tornare a casa dal “paese del dolore”». In un’intervista di Maurizio Crosetti per la Repubblica, un anno più tardi raccontò il suo viaggio, parlando del suo risveglio, di cosa significhi imparare a camminare nuovamente sulle proprie gambe, dell’amore per le proprie figlie. In chiusura, Crosetti gli chiese se pensasse spesso a quel giorno. Pessotto rispose: «No, ci penso sempre».
Gigi Buffon, Michael Carrick, Danny Rose sono solo alcuni dei nomi illustri di chi i propri demoni li ha guardati negli occhi. Si susseguono come su una lista, davanti alla quale rimanere impassibili è estremamente difficile. Le loro storie sono molto simili: la vergogna, la paura; poi la terapia e infine la vittoria. Percorsi segnati dalla necessità di nascondere il proprio dolore in una vita con i riflettori costantemente puntati addosso, in cui qualunque spettatore può ergersi a critico senza chiedere il permesso. Per questo è tanto ammirevole la scelta di raccontarsi pubblicamente, di svelare una parte di sé che – quasi fosse un’imposizione non scritta – gli sportivi hanno sempre tacitamente (e forse inconsciamente) acconsentito a tenere nascosta. L’esempio di chi ha chiesto aiuto può ispirare tanti, professionisti e non, a fare lo stesso.
Storicamente, infatti, la sofferenza dei calciatori, che spesso trovava e trova sfogo nel vizio, veniva liquidata come una forma di eccentricità. Per anni abbiamo riso delle “bravate” di Paul Gascoigne, senza comprendere, senza nemmeno ipotizzare l’entità di ciò che lo consumava dentro. Ci sono volute vere tragedie per scuoterci dalla convinzione dell’invincibilità dei nostri eroi. Come quella di Agostino di Bartolomei che, a nemmeno quarant’anni, si sparò nel cuore con la sua Smith&Wesson, un mattino di maggio che il dolore gli parve insopportabile. Come quella di Robert Enke, che tre anni dopo aver perso la figlia in seguito a complicazioni cardiache, salutò la moglie dicendo che andava ad allenarsi. Poi salì in macchina e guidò per ore tentando di sfuggire all’oscurità. Forse gli parve l’unica via di fuga o forse era stanco di scappare, quando si fermò vicino alla ferrovia e si gettò sui binari al passaggio del primo treno.
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