“Il tiro di Gianni ha rotto la finestra del vicino”.
“Il clima di incertezza economica ha fatto aumentare il valore dello spread”.
“Il paziente aveva avuto un infarto per via dell’alto tasso di colesterolo nel sangue”.
Quelle riportate sono tre asserzioni molto diverse tra di loro. La prima è una frase di vita quotidiana piuttosto comune per chi da bambino giocava a calcetto. La seconda è una formula molta usata nei quotidiani nazionali negli ultimi mesi. La terza, infine, è molto comune quando si parla di malattie cardiovascolari. Nonostante appartengano a mondi molto diversi, tutte e tre le frasi hanno un fattore in comune: si sta facendo riferimento a un rapporto di causa-effetto, ovverosia si sta parlando di causalità. Nel suo senso più generale, la causalità è una relazione tra un evento (l’effetto) la cui esistenza e le cui caratteristiche dipendono da un altro evento (la causa). Già la filosofia antica si era impegnata a chiarire questo rapporto, ma successivamente l’argomento è diventato di grande interesse per il mondo scientifico. Il rischio maggiore è quello di confondere un rapporto di causalità con uno di mera regolarità. Se questo fraintendimento è piuttosto innocuo nella vita quotidiana, la questione è molto più seria in ambiti dove l’individuazione di un nesso di causa-effetto ha implicazioni ben più serie.
Il primo filosofo a occuparsi sistematicamente di causalità fu Aristotele (IV secolo a.C.). La visione aristotelica del mondo è impregnata del concetto di causa, inteso in una pluralità di sensi. In estrema sintesi, si possono distinguere quattro tipi di causa: la causa materiale (ciò di cui una cosa è fatta), la causa formale (la forma di una cosa); la causa efficiente (ciò da cui una cosa è prodotta) e la causa finale (il fine per cui una cosa è prodotta). Quest’ultima aveva un ruolo privilegiato, perché andava a fondare la concezione teleologica del cosmo, che avrà molto successo nel periodo tardo antico e medievale. La concezione di causa aristotelica, difatti, venne ripresa poi dai filosofi medievali, che si concentrarono sulla causa prima (Dio). Soltanto nella filosofia moderna, in particolare coi lavori di Cartesio, si inizierà a intendere la causalità in un senso più proprio del termine. Secondo Cartesio l’unico senso di causa vero e proprio è quella efficiente. L’idea di causa viene collegata strettamente alla fisica, perché è nell’ambito materiale che si possono osservare relazioni di causa-effetto. Questo rappresenta il primo e fondamentale passo per slegare la causalità dalla teleologia e sopratutto della matrice divina.
La secolarizzazione della causalità si completa solamente un secolo dopo con David Hume. L’idea del filosofo inglese è che non c’è nulla di misterioso tra gli eventi che noi chiamiamo cause ed effetti. Non c’è una “forza nascosta” che li lega: piuttosto, noi esseri umani siamo in grado di osservare una certa regolarità tra i fenomeni. Registrando questa regolarità stabiliamo i nessi causali. Ci sono alcuni criteri necessari perché si parli di causalità: in primo luogo, la causa e l’effetto devono essere spazio-temporalmente contigui. Inoltre, è l’effetto a dover seguire necessariamente dalla causa, e non viceversa. Secondo Hume non è possibile che l’effetto sia temporalmente antecedente alla sua causa. Quello che noi normalmente intendiamo come causalità, dunque, è semplicemente una tendenza psicologica: osserviamo delle regolarità nel mondo naturale, le registriamo e quelle che maggiormente ci interessano le etichettiamo come “cause” e “effetti”. Il fatto che siamo abituati, fin dalla nascita, a rappresentarci questo tipo di rapporti genera in noi l’illusione della causalità.
Indubbiamente Hume, con la sua visione regolarista (appunto perché si basa sulle regolarità osservate), ha avuto il grande merito di allontanare la causalità dalla concezione divina. Quest’idea, però, ha anche portato a confondere le mere regolarità dai veri e propri rapporti di causa-effetto. Il fatto che da un evento segua, generalmente, un altro evento, difatti, non esclude la possibilità che tra questi ci sia un mero rapporto di correlazione piuttosto che di causalità. Un controesempio molto intuitivo è quello del sale e della formula magica. Marco ogni giorno butta una manciata di sale in una pentola piena d’acqua per prepararsi la pasta, e regolarmente accompagna questo gesto esclamando una formula magica. Ogni volta che butta una manciata di sale ed esclama una formula magica il sale effettivamente si scioglie. Se ci attenessimo alla visione regolarista dovremmo sostenere che la formula magica è la causa dello sciogliersi del sale. Chiaramente, questo è piuttosto inverosimile. Il problema è che, stando a Hume, non c’è modo di distinguere tra fattori rilevanti e fattori irrilevanti. Evidentemente la formula magica è un fattore irrilevante affinché avvenga la dissociazione del cloruro di sodio. Anche se sembra un esempio banale, casi come questo avvengono molto di frequente, sopratutto in ambiti come quello economico.
Un caso che mostra quale impatto può avere un’errata considerazione del rapporto causa-effetto è quello del tabagismo e del tumore ai polmoni. Al giorno d’oggi qualsiasi medico si sente sicuro ad affermare che fumare causa il tumore ai polmoni. Ma in realtà non tutti i fumatori sviluppano un tumore, quindi se teniamo conto solo la regolarità non ci dovrebbe essere un rapporto di causalità. Eppure, è stato dimostrato chiaramente che la combustione delle sigarette è uno dei principali fattori che causano il tumore ai polmoni. Negli anni Cinquanta, quando vennero pubblicati i primi studi a riguardo, una nutrita schiera di medici si oppose all’ipotesi. La loro principale argomentazione era che il fumo delle sigarette non era molto influente sulla salute dell’organismo, mentre l’inquinamento atmosferico era un fattore molto più grave e che predisponeva al tumore. Come nel caso del sale e della formula magica, la comunità medica non fu subito in grado di distinguere tra l’evidenza rilevante e quella irrilevante. Inoltre, il caso del fumo e del tumore ai polmoni ha messo in luce come si possa parlare di causalità anche in un senso meramente probabilistico. Difatti, è vero che fumare causa il tumore ai polmoni, ma più correttamente si dovrebbe dire che fumare aumenta la probabilità di sviluppare un tumore ai polmoni. Oggigiorno, in medicina, la causalità probabilistica (chiamata anche indeterministica) è quella più utilizzata.
Il caso del fumo e del tumore ai polmoni fornisce alcuni suggerimenti interessanti per capire come intendere la causalità. Come hanno lavorato i medici che per primi hanno individuato questo nesso causale? In primo luogo, hanno osservato due tipi di popolazione, i fumatori e i non fumatori. Dopo un’attenta osservazione ci si è accorti che i casi di tumore ai polmoni erano più frequenti nei fumatori rispetto ai non fumatori. Non solo: ci si accorse anche che la quantità di sigarette fumate incideva sulla probabilità di sviluppare il tumore, rendendo i fumatori incalliti più a rischio. Questo tipo di evidenza (chiaramente di tipo statistico) però non bastò a convincere tutta la comunità medica. I successivi studi di patologia cellulare, gli esperimenti sugli animali e la scoperta di elementi cancerogeni nelle sigarette attraverso l’analisi chimica, portarono a un nuovo tipo di evidenza, questa volta più forte: l’evidenza dei meccanismi. Un meccanismo può essere inteso come una scatola nera, al cui interno ci sono vari processi (in questo caso, di tipo biochimico) che fanno da ponte tra la causa e l’effetto. Conoscere i meccanismi ci permette non solo di sapere che si verificano certe relazioni, ma anche di comprendere come. Soltanto di fronte a questo tipo di evidenza la comunità medica, anche se in tempi piuttosto lunghi, si convinse dell’effettiva dannosità delle sigarette. Ovviamente la risposta da parte delle aziende manifatturiere non tardò ad arrivare, accusando i medici di stare ordendo un complotto ai loro danni. Fortunatamente, di fronte alla combinazione di evidenza statistica e dei meccanismi biologici non ebbero grande potere.
Hume si era rifiutato che ci fossero delle forze nascoste che regolassero i fenomeni naturali. Piuttosto, credeva che queste regolarità fossero solo apparenti, derivate da una nostra attitudine psicologica. Ma i meccanismi sono proprio quelle forze nascoste, che ai suoi tempi potevano essere intese come forze magiche o misteriose. Lo sviluppo delle discipline fisiche e chimiche ha permesso proprio di aprire la “scatola nera” della natura e rivelare queste connessioni. Ha portato anche a un nuovo modo di intendere i nessi causali, ovverosia la concezione indeterministica del mondo. Il risultato di è un sistema complesso, costantemente interconnesso, un enorme ingranaggio di cui stiamo imparando a conoscere le parti atomiche. Comprendere questa fitta rete di meccanismi e relazioni è la sfida della scienza contemporanea. Una scienza che non chiede più “che cosa” ma che si chiede il “perché” delle cose. Una scienza il cui interesse non è svelare i rapporti di causa-effetto, ma che vuole conoscerli a fondo per saperli sfruttare.
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