L’annuncio del nuovo episodio di Black Mirror, intitolato Bandersnatch, ha scosso l’internet nel pieno delle vacanze natalizie. Inutile dire che tra mormorii e anticipazioni c’era una grande attesa per il ritorno della serie creata da Charli Brooker; serie che nel corso degli anni ha saputo costruirsi uno zoccolo duro di spettatori appassionati e che, confluita nella produzione di Netflix, non ha fatto altro che crescere in popolarità. Quello però che ha colpito di più i fan (e non solo) è stata la natura interattiva della puntata, un caso inedito per una serie (esperimento tentanto soltanto per delle produzioni animate indirizzate a un pubblico ben più giovane). Non è un caso che Netflix abbia scelto proprio Black Mirror per questo tipo di esperimento: iniziata nel 2010, la serie è nata con l’idea di mostrare un lato oscuro della tecnologia e soprattutto del rapporto tra essa e l’uomo. Con Bandersnatch, Charlie Brooker ha voluto alzare l’asticella: ha trasposto il concetto originale di Black Mirror e l’ha posizionato a metà strada tra la tecnologia concreta e quella fittizia.
Bandersnatch è ambientato nella Londra del 1984, una anno scelto sicuramente non a caso. Il protagonista è Stefan, un ragazzo diciannovenne che sta cercando di sviluppare un videogioco basato su un libro-game, Bandersnatch, che dà il titolo all’episodio. La sua idea è quella di convincere una software house, Tuckersoft, a offrirgli un contratto per pubblicare il suo gioco. Qui conosce Colin, un brillante sviluppatore per il quale Stefan prova un forte sentimento di ammirazione. Non c’è da stupirsi che questo breve incipit non sia particolarmente attraente: il fulcro dell’episodio non è certo la trama o i suoi personaggi, bensì la possibilità di interagire con quanto accade sullo schermo. Lo spettatore sarà chiamato spesso in causa per prendere delle decisioni, sia che siano scelte di contorno (come quale marca di cereali mangiare a colazione), sia che si tratti di questioni più serie che influenzano pesantemente la direzione della trama. La quantità di scelte e combinazioni è davvero impressionante. I finali in totale sono cinque, anche se molti di questi hanno delle variazioni di maggiore o minore importanza a seconda di come sono stati raggiunti. Alcuni finali possono essere raggiunti molto brevemente, anche in soli venti minuti di film. Nel caso si arrivi a un finale affrettato, ci sarà sempre la possibilità di riavvolgere il nastro all’ultima decisione cruciale per poter cambiare la propria scelta. Dal punto di vista tecnico, Netflix è stata molto abile a sfruttare alcuni semplici trucchetti per garantire un’esperienza sempre fluida.
Fatte queste considerazioni molto generali (e sicuramente insufficienti per capire bene come si svolge l’episodio), cerchiamo di capire sotto che prospettiva leggere Bandersnatch. Il primo paragone è quello coi libri-game anni Ottanta a cui è palesemente ispirato. In questo senso lo possiamo vedere come una sorta di videogioco, dove noi stiamo cercando di raggiungere un obiettivo attraverso una serie di scelte. Ma questo sarebbe limitante, perché Bandersnatch non è stato girato (o programmato?) con il semplice intento di mostrarci diversi sbocchi di trama, giusto per rendere più completa la nostra conoscenza della vita di Stefan. L’esperienza interattiva, piuttosto che nella mera scelta nei bivi di trama, risiede nell’intromissione nella puntata stessa, in particolar modo nella vita di Stefan. Il nostro protagonista, dopo una serie di sviluppi, inizierà a dubitare di avere il controllo delle proprie azioni. La sua è solo un’impressione, o effettivamente non è libero di fare ciò che vuole? Lo spettatore avrà l’imbarazzante compito di rispondergli. Non solo: avrà la possibilità di dirgli che lo sta effettivamente manipolando, e lo sta facendo attraverso una piattaforma di streaming (Netflix appunto). Analogamente, nel caso in cui decidesse di far sottrarre Stefan allo scontro con la sua terapista, il ragazzo cercherà di scappare dalla finestra dello studio. Solo che non c’è nessuno studio: Stefan si trova sul set di Black Mirror e la troupe, perplessa, gli chiederà per quale ragione stesse cercando di scappare dal set. Dunque la separazione tra finzione e realtà sembra appesa a un filo: siamo di fronte a una profonda rottura della quarta parete, dove i personaggi sembrano rispondere alle mosse dello spettatore e quasi reagire.
Il punto non è soltanto la meta-narrazione che si instaura nell’episodio, e neppure l’atmosfera alla The Truman show. Bandersnatch cerca di muoversi un poco oltre, mettendo anche in dubbio la nostra possibilità di scelta. Stiamo davvero muovendo i fili della trama, oppure le nostre scelte tutto sommato hanno ben poca influenza? E c’è davvero una trama da seguire? Nella puntata Stefan ha due “obiettivi” (o quest, se preferiamo usare un termine più consono): la prima è sviluppare il miglior videogioco possibile e ottenere una valutazione di 5/5, l’altra è di preservare la sua sanità mentale. Presto, però, diventa chiaro allo spettatore che una scelta esclude l’altra. Inizialmente questa situazione è frustrante, come un videogioco sviluppato male che non ci permette di proseguire adeguatamente nell’avventura. Eppure, è proprio questo il nocciolo di Bandersnatch: noi crediamo che il nostro scopo di spettatore sia quello di scegliere il corso della trama, ma, come Stefan, ci rendiamo conto che qualcuno ha già deciso per noi. It’s not a bug, it’s a feature.
Se tutto questo non bastasse, Netflix ha deciso che rompere la quarta parete non fosse abbastanza, e ha letteralmente fatto uscire Bandersnatch fuori dallo schermo. Da una parte, la scelta del titolo richiama un videogioco effettivamente sviluppato nel 1984 ma mai pubblicato per via del fallimento della software house. Inoltre, ha deciso integrare anche il livello reale caricando un sito fittizio della compagnia di videogames per cui lavora Stefan, Tuckersoft (e che permette di scaricare il gioco Nohzdyve attraverso un ingegnoso easter egg). L’obbiettivo è quello di eliminare quella linea, sempre più sottile, tra realtà e finzione attraverso una brillante mossa non solo di marketing. L’episodio è quindi interattivo in più sensi, perché non è solo lo spettatore che controlla le vicende di Stefan, ma l’episodio stesso sembra immergersi nella vita dello spettatore. Su questo piano c’è un ulteriore aspetto interessante nella vicenda legata a Bandersnatch. Prima ancora che l’episodio fosse disponibile, qualcuno si era già chiesto se e come sarebbe stato possibile usufruirne sui canali pirata. Non è impossibile registrare tutta la puntata e riproporla per intero, certo, e qualcuno sicuramente lo farà. Non è neanche impossibile utilizzare la puntata registrata e saltare manualmente capitolo in capitolo ogni volta che si presenta un bivio, come se fosse effettivamente un libro-game. Ma anche in questo caso, non si starebbe comunque usufruendo della puntata per come è stata pensata. Senza l’interazione con la piattaforma, Bandersnatch è poco più che un complesso mosaico cinematografico. Su Netflix, un brillante esperimento sociale.
La domanda sulla bocca di tutti, al momento, è: Bandersnatch rappresenta un nuovo modo di intendere la televisione? Netflix riproporrà il modello, facendo nascere un nuovo genere cinematografico? Nonostante gli indubbi meriti e potenzialità, è difficile che sarà così. Sicuramente non si tratta del “film del futuro” per il semplice fatto che si tratta di una forma di intrattenimento troppo diversa dal film perché possa soppiantarla. Ma soprattutto, è importante evidenziare come la quasi totalità di cose buone dell’episodio sono tali solo perché si tratta specificatamente di una puntata di Black Mirror. In qualsiasi altro genere una forma di interazione simile risulterebbe non solo poco soddisfacente, ma anche poco sensata. Avrebbe senso implementare un sistema di scelte in un qualsiasi altro film, solo per vedere una serie di potenziali outcome? Abbiamo già detto che il punto di Bandersnatch non è permettere allo spettatore di vedere una serie di what if (sottraendoli, tra l’altro, alla sua immaginazione). In un certo senso, Bandersnatch è l’episodio più autentico di Black Mirror. Non solo traumatizza lo spettatore con una visione della tecnologia simile a quella attuale ma portata all’eccesso; quello che fa è calare attivamente lo spettatore in questa situazione, rendendolo allo stesso tempo vittima e carnefice. Lo specchio nero, metafora dei nostri dispositivi multimediali, è stato definitivamente infranto.
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