Il regista Paweł Pawlikowski, pur essendo attivo già dalla fine degli anni Ottanta, si è fatto notare ad un più vasto pubblico solo di recente con Ida (2013), che vinse l’Oscar come miglior film straniero nel 2015. Anche il suo ultimo lavoro, Cold War (2018), ha conquistato il plauso del circolo festivaliero di Cannes ed è rientrato nella shortlist delle opere che potranno avere una nomination per miglior film straniero agli Oscar 2019.
Trasferitosi all’età di quattordici anni dalla terra natale polacca alla Gran Bretagna, dopo aver viaggiato per buona parte dell’Europa dell’Est nel suo primo periodo di documentarista – From Moscow to Pietushki with Benny Yerofeyev (1990), Dostoevsky’s Travels (1991), Serbian Epics (1992) – e aver dedicato un periodo a film narrativi britannici – My Summer of Love (2004) e The Woman in the Fifth (2004) – Pawlikowski torna a casa e sposta l’attenzione sui suoi avi, ottenendo un’inedita linfa vitale e celebrazione collettiva. Infatti nel tentativo di far luce sui cambiamenti in cui è incorsa la Polonia nel periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale, sia Ida che Cold War illuminano differenti aspetti del confronto dell’individuo con le sue origini culturali e personali, sempre intrecciate.
La storia d’amore di Pawlikowski è metafora del rapporto con il proprio paese
Il viaggio, che è un tema ricorrente in Pawlikowski, è ancora un viaggio attraverso l’ambiente circostante dal punto di vista storico-culturale e contemporaneamente di richiamo alle profondità della propria identità, dei legami con gli altri non ignorabili, vincolanti e importanti per capire sé stessi. Ida e Cold War infatti hanno un tessuto immaginifico e narrativo fortemente metaforico, dal momento che l’identità personale dei personaggi è strettamente legata all’identità del loro popolo fino a incarnarlo, come nel caso di Zula di Cold War. Il difficile rapporto con il proprio passato, denso di drammatici eventi, la Seconda Guerra Mondiale e l’Olocausto, le macerie lasciate nel paesaggio e nei ricordi, le imposizioni del regime comunista, accomunano infatti Ida e Cold War, nonostante la biografia differente dei protagonisti. In Ida una giovane novizia senza una consapevole individualità e con un vissuto personale spoglio simboleggia una parte dimentica di sé della Polonia negli anni Sessanta. Scoprendo le proprie origini ebree, guarda ad una scia tangibile di resti lasciati dai propri avi e prende maggiore coscienza di sé, concedendosi importanti incontri affettivi ed esperienze prima di prendere i voti in convento. Invece in Cold War è Wiktor il protagonista, un musicista che guarda al proprio paese da un punto d’osservazione sempre un po’ discostato, fino ad un fattuale esilio. Qui il regista utilizza anche un’ispirazione autobiografica, dal momento che i due amanti protagonisti sono ricalcati sulla storia dei suoi genitori. La narrazione attraversa vari anni, dal 1949 al 1964, ed è sia un percorso storico, un ripasso dei cambiamenti della scena musicale dal folklore polacco riutilizzato dalla propaganda stalinista, fino alla chanson francese degli anni Sessanta, al jazz e rock’n roll di diffusione internazionale; che una storia d’amore tra Wiktor e Zula, una giovane cantante proletaria incontrata nella Polonia rurale durante una sessione di ricerca e registrazione etnomusicale. Torna il formato in 4:3 già adottato in Ida, che dà una cornice più stretta, delimitata alle figure dei personaggi, vinti nella morsa della loro condizione storica, ma soprattutto torna l’elegante bianco e nero della fotografia di Łukasz Żal, che pare ricollegarsi a tutto un sentore nostalgico, rétro e classico della cinematografia contemporanea (l’abbiamo visto in un’altra uscita cinematografica recente, Roma di Alfonso Cuarón). Non si tratta tuttavia di una mera patina decorativa, ma privilegia un preciso studio di luce. Łukasz Żal e Pawlikowski rifiniscono scrupolosamente in un’inquadratura, attraverso il linguaggio puramente visuale, ciò che le frequenti ellissi narrative omettono della relazione tra i due amanti, saltando di periodo in periodo.
Le inquadrature d’apertura sono primi piani su volti di musicanti, di sguardo malinconico, scosso dal freddo, e cupa viene definita anche Zula, un punto nero nell’artificio sorridente di un coro propagandistico. Le canzoni folkloristiche cantate in Cold War sono canzoni di «cuore», ben lontane dagli irrigidimenti e impostazioni del linguaggio ideologico di un qualsiasi regime, che parlano di dolore, di lontananza, di un senso di maledizione e di rifiuto colmo di dignità, e il cui insieme echeggia anche nell’amor fou dei protagonisti e nell’animo ruvido eppure appassionato di Zula. Tra di esse c’è la Dwa Sersudzka, leitmotiv della colonna sonora del film, rielaborata secondo le differenti chiavi musicali dei generi toccati e dunque dei cambiamenti di tendenza, ma anche emblema del continuo accordo dell’artista tra una sua identità e l’adattamento in cui spesso incorre per adeguarsi ai tempi, trovandosi talvolta a gestire un soffocato stridore con essi. Non vi è di certo la fiera, sofferta e americana autocostruzione di un La La Land di Chazelle, o più generalmente una retorica del successo statunitense propria del self-made man, ma un’impotenza politica di fondo («non è più nostra» dice una collega di Wiktor in riferimento alla zona rurale da cui hanno estratto un’essenza musicale folkloristica, «non è affar tuo» si sente replicare dal direttore artistico) un piegamento non di rado alle richieste del tempo in una sorta di volontà esecutiva, dove la canzone già esistente diventa materia di appropriazione identitaria, di riarrangiamento da parte di Wiktor o di interpretazione personale da parte di Zula. Un leitmotiv che è dunque la Storia, verso cui i personaggi gravitano attorno, talvolta con una nota di dolore più sentita, una maggiore immedesimazione, talvolta in spenta esecuzione meccanica, dissociata. Come in Ida tornano anche frames dove la figura umana è decentrata e non in primo piano, occupando solo metà dello spazio o addirittura un terzo, schiacciata dalle raffigurazioni di importanti personaggi storici affisse nelle mura degli interni oppure rappresentate in busti che vegliano ad angolo delle stanze (un occhio del potere). Sempre per lo stesso nucleo tematico, importante per il regista è la maniera in cui articolare l’individuo di contro alla folla circostante, attraverso una serie di inquadrature disseminate e analoghe, dove invece la centralità del volto di uno dei personaggi spicca rispetto all’uniformità espressiva del resto del gruppo ripreso, di solito in ascolto di un’esecuzione musicale. Qui torna la centralità del gioco di luci e delle lenti focali usate, che permettono di evidenziare la dissonanza, differenza di spirito individuale manifestata dai personaggi. Zula qui è l’intima radice nazionale più autentica che vibra anche nelle corde di Wiktor, l’amore impossibile, fuori dal tempo e a dispetto di qualsiasi lontananza si traduce nel legame con il proprio paese, spesso remoto geograficamente, abbandonato per cercare un’indipendenza artistica, la quale però è sempre incompleta a causa dell’oscuramento delle proprie radici.
Lo scorrere del tempo assume un aspetto anche prettamente sentimentale, dove le ellissi narrative non fanno che marcare il vissuto che scorre via dalle mani come acqua, in particolare tutto quello passato senza la presenza fisica della persona amata. Il rapporto musicale tra i due amanti si costituisce anche come un tentativo di aggiustamento rispetto alla vita e alle esperienze accumulate uno lontano dall’altra, di tentato accordo artistico e personale, ma è significativo che proprio Zula guardi con rimprovero al Wiktor ambientatosi nello scenario intellettuale – talvolta proprio intellettualistico, rispetto al suo animo popolare – parigino in cui si è insediato, portando in emergenza l’ineliminabile e specifica differenza della propria cultura, ribellandosi alla mercificazione di essa come un bacino di vissuto curioso, stravagante da poter diffondere presso i circoli artistici del luogo.
Ritorno alle macerie di casa
Gli edifici abbandonati, in rovina a causa delle distruzioni operati dai nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale di Ida tornano in Cold War, in cui si rintraccia un altro percorso circolare: i due artisti, nonostante i tentativi di fuga, di distaccamento e affermazione altrove e le derive identitarie, tornano in una chiesa abbandonata che simboleggia il martoriato spirito polacco, proprio in quel territorio rurale dove vibrano più fortemente gli antichi e sofferenti canti popolari – l’edificio ripreso presenta infatti un soffitto crollato, che dà però apertura al cielo, un rimando incerto, fragile ma legato al territorio circostante invece che chiuso in sé stesso come molte istituzioni clericali. La credenza di Zula in Dio, mai esplicitamente condivisa da Wiktor, e figlia di una religiosità nazionale da sempre caratteristica, costituisce uno spazio affettivo da seguire e a cui consegnarsi, sancendo un rinnovato legame con la propria terra, ancora viva nonostante tutte le ferite. Una religiosità dunque personale, riacquistata con spirito autentico dopo le imposizioni ateistiche del regime sovietico, che non è tanto lontana dal percorso di Ida che la porta, sulla parte finale, ad essere inquadrata in uno sguardo più fibrillante, caricato di nuove visioni, sensazioni sulla via del convento a cui pure torna volontariamente.