Il 2018 è stato un anno cinematograficamente molto ricco, sia a livello di incassi che di qualità. Ha chiuso con un botto enorme, quello prodotto da Vice (a cui in Italia è stato aggiunto il sottotitolo “L’uomo nell’ombra”) a partire dal giorno di Natale. Prodotto, sceneggiato e diretto da Adam McKay – che dopo svariate commedie cult come Ricky Bobby, Fratellastri a 40 anni, I poliziotti di riserva e i 2 Anchorman – ha deciso di proseguire la strada del film drammatico con sfumature comedy già visto in La grande scommessa, arrivando però a un culmine sotto ogni aspetto possibile, dalla regia alla sceneggiatura, dal cast al montaggio fino alle soluzioni visive. Ci sono talmente tante cose belle in un film come Vice che sarà davvero difficile riportarle tutte, correttamente e con una certa interezza. Perché Vice, nella sua efficace bellezza cinematografica, rappresenta una dark comedy assolutamente brutale, che dilania all’interno e arriva a far odiare la guerra e, perché no, forse anche un po’ il potere. Guardarlo è come essere presi a cazzotti con un tirapugni sulle cui nocche sono cosparse spine. E forse è proprio questo l’effetto che deve arrivare allo spettatore.
Vice di Adam McKay, la recensione
La premessa è quantomai fondamentale: Vice è un film che si basa quasi unicamente sul non detto, sulle supposizioni e persino su qualche congettura da verificare (e ciò, a onor di cronaca, viene spiegato dal film stesso quando è necessario farlo). Questo perché la vita di Dick Cheney non poteva che risultare di difficile esplorazione, soprattutto nei momenti più delicati vissuti come uomo nell’ombra della grande politica americana. Consigliere, braccio destro ma anche uomo d’affari e leader silenzioso, Cheney ha fatto la storia e – nella pellicola – la sua furba brama di potere viene non solo lasciata intendere ma persino assecondata, sia dallo spettatore che dal regista. Carismatico, decisionista, un po’ ruffiano ma persino benevolo, Cheney è un uomo dalle svariate contraddizioni, che però ha avuto la forza di rialzarsi da un tragico passato fatto di alcolismo e distruzione, superato quasi unicamente grazie all’aiuto dell’altrettanto carismatica compagna Lynne.
Il percorso del Cheney personaggio durante il film è il classico di ogni protagonista che viene a contatto con il potere (che, come sappiamo, logora molto chi non ce l’ha). Anche – e soprattutto – i silenzi di Cheney cambiano nel film: dapprima timidi e inesperti, diventano con il passare degli anni (e degli infarti) cinici e spietati. Come un grande tessitore Cheney, con poche ma intense parole, riesce a manovrare – insieme ai fidati collaboratori – persino l’aspetto più giuridico degli Stati Uniti, arrivando indirettamente ma non troppo a compiere azioni sicuramente non prive di logica ma forse scevre di umanità, almeno in parte. Quella del personaggio di Cheney è, al tempo stesso, una grandissima scalata e un’enorme caduta, più che altro dal punto di vista morale (e non solo esclusivamente a livello politico ma persino personale, come per le vicende che riguardano una delle figlie).
La regia di Adam McKay – che a volte indugia quasi nel tentativo di fare un film sporco, in mezzo a tanta pulizia stilistica – è colorata, simbolica, quasi attraente ma piuttosto dura nel materiale found footage utilizzato (parzialmente) per ricreare segmenti del passato ma anche per sottolineare torture, paura, bombe, guerra. La stessa guerra che questo film aiuta a ritenere per quello che sempre è: ingiusta, intollerabile, colma di interessi politici ed economici e teatro di massacro per capri espiatori di una politica gentile. Da Guantanamo all’Iraq, le colpe di una certa America risultano dunque non solo evidenti ma addirittura esagerate nella loro brutale rappresentazione. Interessante anche l’espediente di una voce narrante molto particolare e personale, il cui destino identitario (così come il suo senso nel film) viene svelato soltanto alla fine della pellicola (e non faremo spoiler a riguardo, ovviamente).
Dopo il successo del suo film precedente, che gli ha permesso anche di guadagnare un Oscar alla miglior sceneggiatura originale, McKay si affida alla quasi interezza dello stesso gruppo di persone che gli hanno consentito di far bene con La grande scommessa. E proprio all’Oscar può e deve puntare un enorme Christian Bale, in quella che probabilmente è la sua miglior performance nella carriera. Bale, ancora una volta sacro portabandiera del metodo, è ingrassato a dismisura e ha preso lezioni private per parlare e muoversi come Cheney, non generando una macchietta ma una vera e propria copia dell’originale. L’attore britannico ha forse l’unico rivale concreto in Rami Malek e nel suo Freddie Mercury di Bohemian Rhapsody (probabilmente favorito anche dal tipo di film girato) ma non premiare una simile performance (sulla scia di quella dell’anno scorso di Gary Oldman come Winston Churchill in L’ora più buia) sarebbe un vero e proprio delitto all’arte attoriale. Per un protagonista sensazionale ecco dei comprimari altrettanto straordinari: Amy Adams si conferma una delle più clamorose attrici della sua generazione nel ruolo della moglie di Cheney, donna forte e altrettanto comprensiva delle dinamiche socio-politiche del Paese. Steve Carell costruisce invece, ancora una volta, un personaggio pungente, dal cinismo inarrivabile, dando al mentore Donald Rumsfeld fattezze da messaggero del Diavolo. Sam Rockwell riesce invece a rendere ottimamente sullo schermo uno George W. Bush ridotto dalla sceneggiatura a goffa marionetta nelle mani dell’ormai potentissimo vice-Presidente, che sin dal primo istante sembra manipolarlo a suo piacimento in un crescendo tragicomico di eventi.
Sotto molti aspetti, Vice sembra una vera e propria continuazione del lavoro fatto da McKay ne La grande scommessa, in quella che pare come un’ideale doppietta di film (forse, in futuro, una trilogia?) atta a testimoniare le difficoltà culturali, politiche e sociologiche degli Stati Uniti negli scorsi ventenni. Si tratta di un film che vuole e sa essere cattivo ma anche dolce, premuroso, a tratti comico e assolutamente intenso. Una perla del recente cinema americano che riesce persino, in alcuni momenti, ad abbattere senza stereotipi la quarta parete. Vice è un film in cui funziona tutto, che rasenta la perfezione. Recuperarlo – per chi non ha avuto il piacere di vederlo – non è soltanto un obiettivo ma azzarderemmo quasi un obbligo, perché meglio di altri film dipinge perfettamente tutte le contraddizioni degli Stati Uniti e delle persone che ne hanno costruito la mitologia in tempi recenti. Vice è dunque un film consigliatissimo, che speriamo possa ricevere la giusta considerazione non solo a livello di premi ma anche di credibilità futura, magari entrando di diritto nella storia dei cult movies.