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Da Adrian a Banfi, l’Italia non riconosce più il merito

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Valerio Bastianelli

Questa settimana, tre avvenimenti in particolare hanno saturato l’opinione pubblica del Bel Paese: uno è stato creato ad arte da un giornale in continuo calo di lettori, disposto a trovare addirittura una correlazione non causale tra omosessualità e produttività per invertire la tendenza; gli altri due sono stati rispettivamente il rilascio della “serie evento” Adrian, di Adriano Celentano, e la nomina di Lino Banfi alla Commissione Italiana dell’Unesco. Sebbene quest’ultima necessiti di precisazioni passate in sordina nel tam-tam di Internet (non si tratta di una nomina necessitante requisiti, ma dal carattere onorifico e comunicativo) il sentimento generale del Paese non può che tornare ancora una volta a orientarsi verso un punto caldo e doloroso: l’Italia è ancora capace di riconoscere e premiare il merito? Perché sussiste la continua sensazione di inettitudine circostante, accompagnata dall’impossibilità di invertire la rotta, e fin dove è esteso il problema?

«Mi chiami il presidente» / «Ma è lei il presidente» / «Ah, allora so già tutto»

Su Adrian si potrebbero riempire interi volumi – e, in forma telematica e disordinata, ciò è già avvenuto. Un progetto decennale concretizzatosi in flop disastroso, fonte di tormentoni in merito che hanno ben oltrepassato il confine d’Italia e lasciano spazio a una sola domanda: davvero sono stati spesi 22 milioni di euro per un prodotto del genere? A meno che l’intenzione originaria non fosse proprio quella di lucrare sul paradosso, s’intende. Mentre al povero Milo Manara è già stata costruita una tomba nella quale rivoltarsi, oltre l’ironia della Rete permane una questione di carattere ben più importante: quella di un uomo di 81 anni dotato di abbastanza ego e potere da poter muovere una produzione di tale entità, che in qualunque altro caso non avrebbe mai superato il filtro decenza di un palinsesto televisivo, fatta salva la folle cifra spesa in origine.

Diversa la questione Banfi, seppur assimilabile allo stesso filo conduttore, non solo mediatico. Come si accennava, la corretta indignazione in merito è stata vagamente esagerata: Lino Banfi non sarà il rappresentante dell’Italia in seno all’organizzazione internazionale, bensì quello del Ministero dello Sviluppo Economico presso la Commissione Italiana Unesco. Si tratta di un organo consultivo che fornisce raccomandazioni periodiche a governo italiano e pubblica amministrazione, e si occupa di sensibilizzazione sulle materie care all’Unesco. Non si tratta di un ente per il cui accesso è necessaria una laurea in materie internazionali e diplomatiche: tra i suoi membri, come riporta Agi, vi è già Pupi Avati, mentre Lino Banfi va a sostituire il defunto scrittore e documentarista Folco Quilici.

Lino Banfi e Luigi Di Maio. (ANSA/Angelo Carconi)

Insomma: come già constatava theWise Magazine pochi giorni fa, nulla che faccia gridare davvero allo scandalo; nessuna ipotesi distruttiva, quantomeno non più di altre già realizzatesi. Semmai il fulcro della questione passa per la volontà quotidiana di fare polemica, nel segno del «che se ne parli, bene o male, purché se ne parli», tanto caro a quel Luigi Di Maio dal quale parte la nomina, quanto ai vari Matteo Salvini e Chiara Ferragni, sullo stesso piano in un periodo della nostra storia mediatica alimentato a colpi di trending topic.

È possibile, tuttavia, affiancare la vicenda Banfi a quella Adrian, per trarne comunque la conclusione che in questi giorni si annida come un velenoso dubbio nella mente sconfortata del pubblico. Perché, a pensarci bene, anche nel campo di nonno Libero in molti sarebbero stati più convincenti in un ruolo simile: tanto sul piano comunicativo quanto su quello di predisposizione al compito. E forse è proprio da qui che può partire una linea di pensiero diversa, affrancata dal circolo vizioso della polemichina del giorno e dell’ondata memetica a farvi da contraerea.

La prima immagine che salta alla mente è quella di un Paese in stile Armata Brancaleone: inadatto, provinciale, contornato e popolato dai soliti nomi reinventati, in un vortice di occasioni perse in cui si sarebbe potuto sempre fare qualcosa di meglio. La morale che se ne trae descrive un contesto perennemente bloccato: non sono i gay a far calare il Pil e renderci «zavorra dell’economia globale» (né i migranti, prima che qualcuno possa avanzare quest’ipotesi), bensì gli enormi, incurabili difetti della nostra cultura. L’Italia è oggi uno Stato caratterizzato da una profonda frattura sociale, in particolare per quanto concerne l’assegnazione del merito. È un Paese che, al netto della correlata erosione della classe media, non riesce più a creare omologazione e trasparenza nel riconoscimento delle qualità individuali. È il dramma più grande di tutti, verificatosi nel momento in cui le malattie endemiche italiane hanno sostituito in qualità di standard i meccanismi deputati all’accertamento della competenza.

Dal familismo amorale all’estinzione della competenza

Dove andare a cercare le radici del declino di concetti come competenza o merito in Italia? Corruzione fisica e morale, nepotismo, distruzione della cultura: queste sono le principali cause che contribuiscono alla decadenza, al punto che oggi è sempre più arduo scorgere esempi virtuosi del contrario. Il problema diventa pressante man mano che finisce per costituire la normalità delle cose, passando da rarità a prassi. Nel 1958, il sociologo Edward C. Banfield introdusse il controverso concetto di “familismo amorale”, da lui creato per racchiudere quello schema di pensiero pessimista, sfiduciato e privo di moralità tipico delle realtà dell’Italia meridionale da lui studiate. Il pensiero di fondo, ben noto a chiunque viva nel Bel Paese, è quello del vantaggio personale per sé e per i propri cari, basato su amicizie e clientelismo, a prescindere dalla giustizia – appunto – morale e dalle conseguenze sociali. È un concetto che nega in maniera assoluta la possibilità di fiducia nel bene istituzionale e nelle regole della società.

Vuoi per ragioni storico-culturali, vuoi per la crisi delle ideologie degli anni Novanta, oggi il familismo amorale sembra essere la prassi ovunque ci si volti, ormai traslato macroscopicamente nei modi e nella natura: come affermazione può sembrare un salto nel buio, ma ha a che fare con l’atrofizzazione della mobilità sociale nel nostro Paese. Vale a dire quell’unità di misura per cui chi nasce povero ha la possibilità di morire ricco (e viceversa). È sempre più raro trovare ricambio generazionale e, quando pervenuto, constatare che avvenga in maniera “sana” rispetto ai canoni dell’educazione civica e dei principi democratici della società. Se ne converrà: è un discorso più attinente alla natura economica che non culturale di un aggregato sociale, ma occorre trovarne le radici e capire perché proprio l’Italia sia il fanalino di coda per mobilità sociale tra tutti gli Stati occidentali, e perché gli eterni discorsi sul merito e la competenza trovino solo risposte che lasciano insoddisfatti.

Il celebre “Meritometro” 2018 dell’associazione no-profit Forum della Meritocrazia. I dati per l’Italia, ultima in classifica secondo i valori tenuti in considerazione, sono simili a quelli del 2015. (Forum della Meritocrazia/CFMT)

Ecco come il programma di Celentano o la nomina di Banfi possono condurre a una vera discussione sullo stato reale del Paese, senza che questi esempi siano ridotti alla stregua di polemica quotidiana. Il succo del concetto non sta nella bellezza degli sfondi di Adrian o nella quantità di lauree dell’attore, ma nel chiedersi: perché loro, se si sarebbe potuto trovare di meglio? Il motivo, si ritiene, è che in Italia i postumi del familismo amorale abbiano portato alla distruzione di quei sistemi, altrove presenti, che gestiscono la valutazione del merito, del successo e delle competenze. Non è stato certamente operato un controllo sull’anime di Celentano, in modo da stabilirne la qualità; non è stata data simile attenzione alla figura di Banfi e alla possibilità di adeguatezza nel suo nuovo ruolo. In quest’ottica, si può ben ritenere che la mancanza di competenza esista non solo a livello del prodotto finale, ma – ben prima – all’altezza del processo decisionale che vi ha portato.

La politica non è esente da questo discorso che parrebbe strettamente sociale, anzi: ne è l’incarnazione civica ed è la maggiore responsabile di danni a lungo termine che si riflettono non solo sul tessuto socio-economico in Italia, ma anche e soprattutto sulla concezione etico-giuridica del merito come virtù. La lista di possibilità è lunghissima: dalle leggi ad personam, agli spoils system, all’intorbidimento di bandi e concorsi, e, infine, alla continua battaglia contro l’educazione che a tutto ciò può rimediare. Dopo la crisi della Prima repubblica, l’Italia ha vissuto un periodo traumatico dal quale mai si è pienamente ripresa. In una trentina d’anni è venuto meno il complesso culturale civico e politico, portando all’aberrazione incarnata in un paradossale dualismo: quello di dover scegliere tra onestà e competenza, come se queste si negassero vicendevolmente. E, come ciliegina sulla torta, la consapevolezza di fondo che tale, decantata onestà non sia che una maschera rappresentativa, sotto la quale si cela in realtà l’interesse più personalistico e amorale possibile. Come reazione a quello identico e precedente. E forse è questo l’aspetto più terribile: nel presente dell’Italia non è venuta meno solo la mobilità sociale, non solo la competenza o il merito in quanto concetti altissimi. La vittima illustre è la cultura necessaria a porre, un giorno, le basi di un sistema più giusto.

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Valerio Bastianelli

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