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Fenomenologia di Riccanza – prima parte

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Giulio Remorgida

Al momento di scrivere queste righe, ho dedicato circa 860 minuti della mia vita a vedere episodi della serie televisiva MTV Riccanza. La cifra è poi significativamente più alta se aggiungiamo la visione di Mamma Che Riccanza, spin-off su partecipanti donne fra i trentacinque e i cinquanta, con famiglia e figli. Circa tredici ore ininterrotte di materiale, sedici o diciassette se contiamo anche lo spin-off – il che significa che ho dedicato una porzione ben più ampia della mia vita a vedere Riccanza che a imparare a suonare Bach sul pianoforte. Per razionalizzare e vivere meglio con me stesso, ho deciso di dare una parvenza di utilità all’esperienza, e scrivere queste righe di raccolta dei miei pensieri a riguardo.

Parte I – Si sa che i poveri/ sono anche poveri di spirito

La cosa peggiore, dopo oltre sessanta episodi, è che non posso nemmeno genuinamente dire che Riccanza mi piaccia. Lo guardo mentre cerco di bere il più possibile nel minore tempo possibile, in preda a uno strano raptus di Schadenfreude inversa – diversa dal semplice masochismo – in cui resto di fronte allo schermo per la curiosità di scoprire quale sarà la prossima scena a farmi malissimo. Sarà forse quella in cui la giovane Elvezia, fra una gita in piazzetta a Capri e un farsi versare Dom Pérignon in bocca dai suoi accompagnatori barra eunuchi barra lacchè, si lascia scappare, en passant, di avere in casa il pianoforte di Verdi? O sarà forse il modo schifato con cui Zorzi contesta l’arrendamento dell’appartamento al bosco verticale di Milano che gli è appena stato regalato per la sua laurea? O, ancora, sarà per caso l’assoluto disgusto alla lontana idea di mischiarsi al volgo che Cristel emana in ogni suo movimento o parola?

Riccanza vive di un conflittuale rapporto con la dicotomia socialmente accettabile/repulsivo. Uno dei più frequenti stacchi dalla narrazione principale alle interviste post-fatto su sfondo di green screen[1] vede i partecipanti muti o presi da risate imbarazzate. Come non avessero appena fatto loro stessi le cose che hanno fatto, o avessero fatto qualcosa di incredibilmente inusuale, per il loro carattere. Si dissociano da loro stessi, alla stregua della peggior disforia identitaria, ed evidenziano persino il grottesco della cosa appena fatta. Senonché la stessa cosa viene ripetuta, ancora e ancora, episodio dopo episodio, senza una reale evoluzione del carattere o delle idee. Sto parlando ovviamente di tutte quelle opinioni e uscite esplicitamente socialmente repulsive, impensabili nella normalità[2], ma che nel contesto del programma diventano accettabili, almeno per un breve istante. Dal semplice, sprezzante “ciao poveri” della sigla, alle varie opinioni martinadell’ombresche, espresse in assoluta serietà. Il partecipante lancia il sasso e nasconde subito dopo la mano. Ride di sé stesso, imbarazzato, o si lascia andare a un divertito «vabbè dai, raga». «Se non hai il lambo[3] non sei nessuno, dài» – stacco – ammissione di colpa per l’opinione appena emessa, ripresa del programma; mezzo minuto dopo un’altra opinione uguale. C’è qualcosa di spiccatamente letterario in queste esternazioni che mi ha catturato fin dal primo istante. Dalla struttura della frase al modo in cui viene pronunciata, spesso con tono di sentenza; il tutto ha un sapore indescrivibile di monologo che Christian Bale potrebbe fare a sé stesso, senza avere il coraggio di esternarlo. O ancora qualcosa di uscito da un film di Sorrentino, dalla bocca di uno dei personaggi usati come esempio negativo. La plasticità, il senso del drammatico profuso dalle bocche dei partecipanti, spesso e volentieri – e in maniera assolutamente involontaria. Forse è banalmente il contrasto fra il tono da imperativo kantiano della frase e il suo contenuto, a rendere questo effetto. Più interessante è chiedersi come sia possibile che un gruppo di persone che ha esplicitamente chiesto di venire seguito da delle videocamere per poter mettere in mostra sé stesso e la propria vita sembri così terribilmente imbarazzato da questa.

C’è un bellissimo passaggio in Mann, mi sembra, in cui viene descritto come in qualunque azione impattante, estrema, in qualunque gesto eroico – nell’esaltazione come nella bassezza –  si inizino già a sentire i prodromi del ritorno alla normalità. L’idea di fondo è che siamo in grado di fare determinate cose solo in virtù del fatto che possiamo momentaneamente dimenticare la normalità, la calma, la routine, e che la nostra capacità di prenderci sul serio, al punto da permetterci di fare determinati gesti, sia una risorsa limitata, che si erode mentre quel gesto perdura. Così ognuno di noi è potenzialmente in grado di uccidere, stuprare, distruggere, comprare una bicicletta fatta su misura da diecimila euro per girarci a Milano[4], perché le stesse barriere psicologiche che ci dicono che per noi sarebbe impossibile, semplicemente impossibile fare qualcosa del genere, sono le stesse barriere che vengono meno al momento di scegliere se compiere o no l’atto. Ma come un animale al guinzaglio, continuando a correre nel raptus che ci permette di essere estremi, prima o poi finiamo la corda, e veniamo ricondotti indietro volenti o nolenti. Questo infiltrarsi della normalità, dell’aurea mediocritas, della via moderata, della parsimonia, della cura e cautela del Buon Padre di Famiglia, comincia ad apparire a chiazze, esattamente come sembra apparire nei moti di pentimento perpetui che i partecipanti di Riccanza hanno. Eccetto che manca una seconda parte, fondamentale, nel processo psicologico descritto. Normalmente ci sarebbe una qualche forma di rinforzo negativo, a concludere il raptus, facile da immaginare per i crimini penali, ma presente anche per le altre forme di eccesso. Questo meccanismo regolatore, che garantisce la crescita[5] dell’individuo, è del tutto assente. Perché la triste verità, nella mitopoiesi del programma che per propria stessa essenza ha il fine di proporci degli eccessi, è che non ne mostra mai uno. Certo le spese saranno eccessive, appunto – faraoniche, anche, per il punto di vista di certi spettatori – ma non rappresentano, di fatto, un gran costo per chi le compie. Non sono più fuori dalla norma o estreme del mio filmarmi mentre vado a comprare una cover di plastica per il cellulare. Ma la loro percezione lo è. Perché se la capacità dei partecipanti di Riccanza di apparire isolati in una gabbia d’oro e non avere idea di quanto costi un litro di latte[6] è molto buona, non è perfetta. Si crepa spesso e volentieri. E quello che filtra attraverso le crepe è la percezione esterna di loro stessi. Vale a dire che questo bizzarro vergognarsi di sé senza voler realmente cambiare è il risultato delle due diverse percezioni: la propria, in cui le cose hanno il loro effettivo peso, che non è molto, e l’esterna, in cui appaiono come inconsapevoli e volgari dilapidatori di capitale accumulato da parenti impotenti e indifesi. Questa dualità nei gesti e negli oggetti che li circondano è tangibile, guardando il programma sbronzi sul divano IKEA del proprio bilocale in affitto condiviso a Milano, e manifesta come una cappa di impossibilità di fuga dal mondo. Dopotutto il mondo deve essere importante per chi sta scegliendo volontariamente di farsi inquadrare per mostrarsi al mondo. Ma finché il mondo continua a esistere, continua a esistere la morale cattolica condivisa di parsimonia e rispetto del valore del denaro – continua a esiste il profondo, radicato terrore piccolo borghese della difesa del proprio orto – e continua a esistere quindi un senso di sbagliato nel comprarsi il cinquecentosedicesimo paio di scarpe, senza una reale conseguenza negativa per questo sbaglio, che permetterebbe al partecipante di evolversi e cambiare. Forse la letterarietà di questo paradosso esiste solo nella mia percezione dello stesso. Forse l’imbarazzo è solo il normale imbarazzo di chi non è abituato a parlare di fronte a una telecamera. Forse quella scritta in sovrimpressione in basso a destra, durante tutte le puntate, che recita «nel programma sono inseriti prodotti a fini commerciali» implica che ogni cosa acquistata lo è solo per finta, e appena tagliata la scena viene rimessa nella custodia del gioielliere. È possibile, ma non credo sia importante. Quello che è interessante di Riccanza non è il suo valore di verità, né quanto accuratamente stia rappresentando la vita delle persone che rappresenta. Non stiamo guardando un documentario. No, è interessante l’idea di Riccanza, ciò che Riccanza dice su sé stessa dopo aver accettato la sospensione dell’incredulità che richiede. Quello che sceglie di mostrarci dei suoi partecipanti.

Parte II – Verrei a fare colazione con te/ ma ora devo andare che ho lezione allo IED

Se non stiamo guardando un documentario, cosa stiamo guardando esattamente? È difficile a dirsi, in gran parte perché il programma stesso non ne è sicuro. Riprendendo la Fenomenologia di Mike Bongiorno, a un primo livello sembrerebbe emergere la stessa dinamica – uguale ormai da mezzo secolo – del proporre ideali irraggiungibili, mischiati a oggetti invece ottenibili, così che lo spettatore si trovi proiettata un’immagine di sé percepita come migliore, perché derivante dai primi, senza doverli però raggiungere, bastando il comprare i secondi. Esemplificando, ci viene mostrato come saremmo se fossimo figli di uno dei fondatori dell’Eni, e se non possiamo modificare la nostra famiglia di nascita, possiamo invece fare un sacrificio, ed essere un po’ come il figlio di uno dei fondatori dell’Eni, avendo comprato il suo stesso paio di Jordan per Natale. Dico a un primo livello, perché non è l’unico elemento del programma. La prima inversione della formula deriva dal fatto che lo stesso ideale che viene proposto viene contemporaneamente massacrato. Abbondano le figuracce, le opinioni socialmente repulsive, come si è detto, e in generale ho l’impressione che, fuori dal più materialista degli spettatori, chiunque sia portato ad avvertire un senso istintivo di superiorità intellettuale/morale rispetto alle persone che sta guardando. Come se nella trasmissione, riprendendo la terminologia di Eco, superman ed everyman coincidessero. Il risultato non può che creare confusione. Da quale parte dello schermo dovrei preferire essere? L’inversione non si conclude qui, però, perché nelle puntate conclusive di tutte le stagioni è presente una specie di montato in cui i partecipanti prendono le distanze da quanto appena mostrato. Ripetono, a turno, che sì c’è un’Arcadia che è stata messa in mostra, ma è solo scena, finzione appunto, e in fondo in fondo sono bravi ragazzi. La trasmissione utilizza tutte le tecniche e i cliché di quando si vuol suscitare empatia per ciò che si sta mostrando[7] – non fosse che i concorrenti stessi danno vita a un altro layer di interpretazione, facendosi scappare, con la loro scarsa dote recitatoria, come stiano dicendo qualcosa in cui non credono affatto, e che gli è stato chiesto di dire dalla produzione.

Per riassumere, Riccanza mostra, elogiandolo, qualcosa che allo stesso tempo disprezza, che invita a volere e allo stesso tempo schifare, che abbraccia e da cui prende le distanze; e prende le distanze dal prendere le distanze, e prende le distanze dal non prendere le distanze, e prende le distanze dal non prendere le distanze dal prendere le distanze, e così via… Sia chiaro che non penso che tutto questo sia volontario, quanto piuttosto che il programma non abbia idea di cosa voglia essere.

C’è un particolare tipo di distorsione della realtà che deriva dal dimostrare qualcosa di matematicamente falso. Se si fa coincidere, sforzando la matita con un tratto impreciso, la bisettrice di un angolo di un triangolo non isoscele con la mediana del lato opposto, si può dimostrare che è isoscele, e che quindi ogni generico triangolo è isoscele. Le conseguenze per la geometria euclidea, ma anche per il resto dell’universo, sono infinite e disparate: alcune sono buffe, come l’approdo al classico “1 = 0”, altre sono più inquietanti paradossi logici, come riuscire a dimostrare che io non esisto. Ma in tutte le diramazioni della premessa falsa c’è lo stesso senso di scricchiolante incertezza. La stessa sensazione di entrare in una stanza e trovare tutti i mobili impercettibilmente spostati a destra. L’idea che ci sia qualcosa di fondamentalmente sbagliato nell’universo, senza avere la possibilità di puntare l’indice contro un elemento o l’altro. Forse è la stessa reazione che abbiamo di fronte a ogni ingiustizia impossibile da spiegare: dalle immagini di orsi polari intrappolati su blocchi di ghiaccio sempre più minuti; di cavallucci marini e foche strangolate da lattine di plastica; alla scoperta di somme incalcolabili evase in paradisi fiscali; agli omicidi caduti in prescrizione; ai segreti che Gelli si è portato nella tomba. In tutti i casi la realtà materiale che ci viene presentata entra in conflitto con la nostra necessità basilare di credere a un livello minimo di giustizia nel mondo, che ci permette di funzionare come individui. Il risultato è devastante, almeno nel breve periodo. Così per Riccanza. Inizia a proporsi come non ironico documentario dell’opulenza da idolatrare; realizza a metà strada la propria inaccettabilità; si pente; non è convinta del pentimento, non trovando una voce apertamente ostile a cui debba dare ascolto; torna indietro: i partecipanti non reputano di dover chiedere scusa per come sono; e infine ci lascia così – mezza sincera e mezza ironica, mezza orgogliosa e mezza coperta di vergogna – continuando semplicemente a esistere.

Immagino sia questo il problema di chi invece che studiarla la vuole criticare, distruggere: l’analisi e la critica sono livelli successivi, posti in un piano che non entra nemmeno in contatto con quello del programma; e così se può esistere una critica estesa, minuziosa, precisa, brutale, conclusiva della cosa – una critica dopo la quale nessuna persona razionale riuscirebbe più a goderne – la cosa in sé deve solo evitare di conoscerla per poter continuare a esistere in tranquillità. È la forza vitale di chi non rispetta le istituzioni non per qualche particolare scelta ideologica, ma perché semplicemente non sa nemmeno cosa siano[8]. E forse in questo caso ci troviamo persino a un livello di potenza superiore, perché Riccanza sembra essere perfettamente consapevole dei propri difetti, e di condividere le critiche che le vengono mosse, inglobandole nella trasmissione, senza che questo le impedisca di esistere. Si prende sul serio, ma non sufficientemente da farsi rallentare da una critica, e non si prende sul serio, ma non sufficientemente da screditare le critiche che sarebbero valide, ovviamente, solo se si prendesse sul serio. Il programma ci dice sia che non ha senso criticare la volgarità di un partecipante – perché si sta solo mostrando volgare – sia che quello stesso partecipante di fatto è volgare per davvero, e dovremmo continuare a criticarlo per questo. È una nuova forma di ibrido che mi terrorizza, perché rende impossibile non solo la sua critica, ma anche la critica dell’impossibilità di criticarla.

L’idea di anticipare i propri critici per togliere forza alle loro accuse non è certo nuova, trovando forse il suo esempio più popolare nella battaglia di freestyle a cui partecipa un giovane Eminem nel film 8 Mile. Tuttavia, nelle forme di autoaccusa comuni rimane sempre l’assunto, inespresso perché ovvio, che tutte le critiche a sé stessi che si stanno portando, per quanto vere, non siano del tutto compromettenti. Eminem sarà pure povero, bianco; sua madre sarà anche una prostituta e una drogata, ma… (e qui il film non si esprime, ma il ma è chiaro: non per questo vale meno il suo avversario, come rapper, anzi). Riccanza si comporta diversamente, perché le proprie critiche, quando le ingloba, non smette di considerarle come squalificanti. La vergogna che i partecipanti manifestano dopo un acquisto eccessivo e inutile, è vergogna genuina, solo manca delle conseguenze della vergogna.

Mentre continuavo a scivolare di episodio in episodio, di bicchiere in bicchiere, la domanda di come fosse possibile continuava a ritornarmi, e solo ora credo di aver trovato una risposta.

La seconda parte di Fenomenologia di Riccanza uscirà su theWise Magazine tra quattro settimane.

[1] Una piaga che prende quasi ogni reality, oramai. Ci sono forse delle implicazioni sociologiche legate al fatto che tu-spettatore stia guardando gli stessi personaggi della cosa che guardi, commentare la cosa in sé. Come se il programma si facesse carico di deresponsabilizzarti dal formare un’opinione su quanto hai appena assorbito, e te la fornisse direttamente, mostrandoti come devi reagire. Non è un caso che le reazioni dei personaggi siano sempre incredibilmente prevedibili, e quasi mai nulla di nuovo o di interessante viene aggiunto in quel frangente.

[2] Virgolette implicite.

[3] Lamborghini, l’automobile. Chiedo scusa se non sembrava ci fosse bisogno di specificare.

[4] Questo è qualcosa di non particolarmente risaputo, al di fuori della città o di chi ci ha abitato in passato, ma Milano è la capitale italiana di furto della bicicletta – molto più delle solite sospette – e non c’è catena o lucchetto o allarme che reggano per più di qualche mese in cui il veicolo rimane all’aperto.

[5] Se non per introspezione psicologica post-fatto, quantomeno per numero di mazzate che l’individuo continua a prendersi dopo ogni eccesso.

[6] Non vorrei scendere sul politico, per quanto un pezzo di distante e involontaria critica al capitalismo possa non essere politico, ma l’esempio era troppo ghiotto per saltarlo.

[7] Con la musica sobria e in si minore, le interviste intimiste che fanno tanto rivelazione-di-verità-che-rompe-il-velo-della-finzione, voce contrita e dal tono abbassato, e quant’altro.

[8] Sì sto scimmiottando Augias, mi spiace solo che nel catturare perfettamente il fenomeno abbia dato all’analisi uno schieramento politico, che potendosi applicare ovunque, non dovrebbe avere.

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Giulio Remorgida

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