In alcuni anni il Ministro dell’Interno, con l’aiuto determinante del suo Social Media Strategist (come lui stesso si definisce su Linkedin) Luca Morisi e dal suo staff dedicato, è riuscito a incrementare considerevolmente i consensi in favore della Lega, raggiungendo il 17,3% alle elezioni politiche del 2018, il risultato migliore nella storia del partito. L’immagine di Salvini, o meglio del nuovo Salvini, è stata minuziosamente de-strutturata, spogliata delle nostalgie padane e ricostruita per offrire un nuovo esempio di italianità. Scorrendo la bacheca del Ministro è possibile individuare i pilastri di questa narrazione.
Il fascino della divisa
Da quando è al governo, Salvini ha cominciato a indossare pubblicamente le divise dei corpi dello Stato: carabinieri, pompieri, polizia. Con quest’ultima divisa, il Ministro ha anche accolto Cesare Battisti all’aeroporto di Ciampino. La ragione è lampante: come ha ben evidenziato Roberto Saviano, il Ministro intende accentrare su sé stesso il ruolo di tutore e garante dell’ordine pubblico, e dell’autorità che ne deriva. Tale pratica, comune negli Stati autoritari, presuppone nel pensiero di chi la compie, e forse preannuncia per noi tutti, un cambiamento radicale nel modo in cui si intende la figura di un Ministro della Repubblica; che fino ad oggi poteva indossare la divisa solo in occasioni particolari, come ricorrenze, celebrazioni o la visita a teatri di guerra in cui fossero impegnate le forze armate. Da una logica istituzionale vi è l’intenzione, per giunta rivendicata con orgoglio (al minuto 1:50), di passare a una dimensione personalistica.
Soffermiamoci brevemente sulla seguente citazione tratta da La società anarchica. L’ordine nella politica mondiale di Hedley Bull (1977), che ci servirà per introdurre un concetto cardinale:
«Dapprima si è creata una distinzione tra la guerra pubblica, ovvero condotta sulla base di un’autorità di un organismo pubblico, e la guerra privata, che si svolge in assenza di questa autorità, e si è posto un limite alle manifestazioni di quest’ultima. In secondo luogo si è affermata l’idea che lo Stato fosse il solo organo pubblico competente a conferire una tale autorità. Lo sviluppo del concetto moderno della guerra come violenza organizzata fra Stati sovrani è stato l’esito di un processo di limitazione e confinamento della violenza. Noi siamo abituati, nel mondo moderno, a contrapporre la guerra fra Stati alla pace fra Stati; ma l’alternativa storica alla guerra tra Stati è stata una violenza ancora più diffusa».
Dunque, nelle democrazie mature gli Stati detengono il monopolio della violenza, che viene esercitata entro certi limiti e norme costituzionali. È il principio per il quale non vale più la legge “occhio per occhio, dente per dente” e abbiamo smesso, a parte la criminalità organizzata che appunto non riconosce lo Stato, di ucciderci in faide sanguinose. Salvini intende scardinare questo meccanismo e monopolizzare il monopolio della violenza, sottraendolo allo Stato.
Ovviamente, è un’operazione simbolica, di credit claiming emotivo: la circoscrizione e normazione della violenza resta effettivamente (ma fino a quando?) responsabilità dello Stato e delle strutture preposte, ma dal punto di vista del messaggio che si manda al cittadino, l’État c’est moi, «lo Stato sono io».
Infine il messaggio contiene anche una velata componente intimidatoria, perché chi si auto-investe, sia pure idealmente, del diritto di gestire personalmente l’ordine pubblico si assegna virtualmente anche quello di fare uso del potere coercitivo dello Stato che, non più delimitato da efficaci contrappesi istituzionali, diviene senza limiti e può essere usato contro gli oppositori.
«Bacioni»
Il Ministro sembra avere una predilezione per gli accrescitivi: «intellettualoni», «vescovoni», «giornaloni», «professoroni». Anche questa volta, il motivo è palese. Salvini ha letteralmente inventato un repertorio di nuove parole con cui bollare chi non condivide le sue politiche. Una volta individuato il bersaglio, gli si appiccica addosso la nuova definizione. Questa disinnesca istantaneamente qualsiasi critica proveniente dalla persona in questione e trasforma letteralmente il target in un nuovo soggetto, che è un soggetto fittizio, da gettare in pasto agli utenti di Facebook. Ciò permette al Ministro di non entrare mai, se non superficialmente, nel merito delle critiche che gli vengono mosse dagli interlocutori, perché alterando l’identità di questi, egli può liquidare le loro persone e obiezioni come irrilevanti. Ripetendola sino allo sfinimento, l’alterazione lessicale, ma soprattutto semantica, si sedimenta nella mente dei cittadini, che pian piano imparano a odiare un nuovo nemico.
Salvini fa uso sistematico anche di una serie di altre parole o espressioni ricorrenti che costituiscono i cardini della sua comunicazione, come «bacioni», «la pacchia è finita», «a casa», «si entra chiedendo permesso e per favore», «è finita la mangiatoia», «prima gli italiani», «voi che fate amici?», «buonsenso», «lo dico da padre», «porti chiusi», «furbetti», «avanti!», «io non mollo», «tiro dritto» e via di seguito. Ognuna di queste parole è un ganglio. Tutte insieme costituiscono una vera e propria mappa concettuale della retorica leghista, che Salvini usa come modulo fondamentale per approcciarsi agli utenti. L’utilizzo reiterato di questi vocaboli, o delle loro numerose varianti, che hanno la funzione di veri e propri catalizzatori del consenso, serve al Ministro per delineare nitidamente i capisaldi della sua narrazione, in modo che questa sia il più possibile riconoscibile e quindi assimilabile da tutti. Di particolare importanza è il termine «buonsenso», che serve a giustificare qualsiasi politica si ritenga di dover perseguire, a prescindere dalla sua natura. Si vogliono chiudere i porti? È «buonsenso».
Altre formule, come «amici», «bacioni», «lo dico da padre», «che fate?» servono invece a stabilire un legame emotivo con l’utente. Disintermediato il ruolo di Ministro, smesso l’abito istituzionale (a dire il vero mai indossato), i cittadini non percepiscono più Salvini come un rappresentante dello Stato, ma come uno di loro, e tendono a identificarcisi. Salvini Ministro scompare, rimane il Salvini persona, che essendo “uno di noi” non può sbagliare, perché altrimenti sbaglieremmo anche noi.
Per veicolare i suoi messaggi a una platea il più ampia possibile il Ministro usa praticamente una neo-lingua di stampo social, un italiano apparentemente semplice e colloquiale, ma in realtà banalizzato ad arte e artificiosamente spontaneo, chirurgicamente calibrato sulle parole di cui sopra. È così possibile, spacciando la superficialità per genuinità, applicare un approccio iper-semplificato, fatto di micro slogan diffusi, a problemi complessi. Questa comunicazione “a tappe” collima con quella altrettanto stereotipata della platea di riferimento, fatta di termini-chiave speculari: «buonisti», «sinistri», «sinistrati», «pdioti», «comunisti», «rosicate», «maalox», «rassegnatevi», «popolo sovrano», «siamo con te», «non mollare», «Capitano». Le due lingue, quella di Salvini e quella dei suoi sostenitori, sono strettamente interdipendenti. La prima plasma la seconda, la seconda invia feedback alla prima, che li usa per scegliere gli argomenti su cui insistere e calibrare l’intensità dei propri contenuti.
Spaghetti bolognaise
A intervalli regolari, anche se nell’ultimo periodo sembra averci concesso una tregua, Salvini sente la necessità di renderci partecipi di ciò che ha mangiato. Tortelli che nuotano nel burro, padelle di tagliatelle (scotte e scondite), tazze di tiramisù, fette di pizza spesse due dita, salsicce grondanti unto, intingoli ipercalorici: la dieta del Ministro allarmerebbe qualsiasi dietologo. Eppure così dev’essere, sia perché è probabile che le abitudini alimentari del Ministro siano realmente quelle che vediamo, sia perché non può fare altrimenti, se vuole che la narrazione che ha imbastito funzioni: infatti l’uomo del “popolo”, ruspante e pragmatico, deve mangiare porzioni da “popolo”, straripanti e sostanziose, di cibi da “popolo”, unti, pesanti e grassi. Difficilmente vedremo il Ministro mangiare un’insalata, cibo troppo leggero e notoriamente da radical chic.
Le foto a carattere culinario, oltre che per accattivarsi le simpatie della gente, sono usate anche con altri due intenti, che spesso coincidono, cioè distrarre e provocare. È il caso della famosa foto con l’arancino o con la fetta di Nutella in mano. Le reazioni di sdegno, anche violento, che ha provocato quella foto, sono utilissime a Salvini, che può girarle a proprio favore per passare da vittima, accusando i critici di essere persone inconcludenti che pensano a una fetta di Nutella quando ci sono milioni di italiani in povertà o sotto la neve, rinforzando ancora di più l’empatia con i suoi elettori.
Dunque il cibo è l’ultimo tassello per costruire il consenso. In un paese come il nostro, che fa del cibo la questione identitaria per eccellenza, un tassello fondamentale. Per questa ragione il Ministro non perde occasione per farsi immortalare in ogni parte d’Italia mentre si accinge a gustare ogni genere di prelibatezza locale. Il Ministro si pone così a difesa della tradizione culinaria del paese, e quindi, per implicita estensione, anche a difesa della Tradizione italiana, che si incarna secondo la Lega nel maschio bianco, etero e cattolico. Tuttavia, è accaduto qualcosa che ha aperto una minuscola crepa nell’edificio salviniano.
Il 22 dicembre alle ore 12:57 Salvini ha pubblicato su Twitter una foto che avrebbe fatto infuriare i cittadini dell’Emilia: tortellini in padella con pomodoro e salsiccia accompagnati da un boccale di birra, che è come mangiare la pizza con l’aceto, la mortadella con l’ananas, la carbonara con la panna. Sembra un post di Spaghetti Bolognese o Mangiare anni ’80, invece è il profilo di un Ministro. È un’inezia, si dirà. Ma lo è davvero? Questa foto ci dice una cosa fondamentale e, se ci si pensa, evidentissima: cioè che l’amore tanto sbandierato per l’Italia da Salvini (che sino a qualche anno fa denigrava costantemente il sud Italia) non esiste, è un raggiro, niente più che un fondale di cartone atto solo a raccattare voti, perché nessuna persona che ama questo Paese potrebbe mai pensare di svilirne in questa maniera la cultura gastronomica, dimostrando di non conoscere minimamente le tradizioni (quelle vere) locali italiane, non solo culinarie. Intendiamoci, ognuno è libero di mangiare quello che vuole, ma se ci si erge a strenui difensori delle nostre specialità locali, del made in Italy, facendone cardine di una certa italianità rigida e ben definita, poi non si può pensare di disattendere quella stessa italianità senza incorrere in una gigantesca contraddizione.
L’uomo che afferma di avere il sostegno di «sessanta milioni di italiani» e vorrebbe incarnare l’italiano-tipo mangia tortellini al ragù di salsiccia con la birra, come un qualsiasi tedesco globalizzato. Pensiamoci.
Italianità patologica
Come abbiamo detto, la foto dei tortellini è la prova che, nonostante le tonnellate di foto di arancini, paste e pizze, al Ministro non importa nulla delle tradizioni italiane, almeno quelle culinarie, che usa come viscida Madeleine per forzare le serrature emotive degli italiani. Quella foto è un glitch nella Matrix verde della Lega che il social media team di Salvini ha pazientemente intessuto negli anni a colpi di propaganda, dietro cui c’è un vuoto pneumatico il cui unico collante è l’odio e l’insofferenza per il nemico, sia esso costituito da migranti, «buonisti», «radical chic», «giornaloni», «intellettualoni», «vescovoni» o «professoroni».
Salvini ha preso la propria personalità e l’ha posta a canone, proponendola come prototipo di una nuova italianità basata sui capisaldi di ordine, (possibile) coercizione, eterosessualità, cattolicesimo, italiano dozzinale e piatti tipici, per cui chi non aderisce a questa nuova visione patologica, cosmetica e brutale è emarginato e chiamato traditore, e dal momento che i traditori sono esclusi dal gruppo d’appartenenza, di fatto non è più considerato italiano.
Per riassumere, Salvini sta creando lentamente una italianità esclusiva modellata a sua immagine, nella quale chi non rispetta determinati canoni è un italiano di seconda fascia (per ora) responsabile, insieme ai «clandestini», agli intellettuali e alla sinistra, della rovina del Paese.
La vittima di questo disegno è il cittadino comune che, spaventato e disorientato dai grandi cambiamenti in atto nella società, fiaccato dalla crisi economica e sprovvisto del senso critico per filtrare il mare di informazioni con cui quotidianamente ha a che fare, ha trovato in Salvini una sponda rassicurante e familiare e negli immigrati un comodo capro espiatorio per i mali del Paese, senza pensare che chi si sforza strenuamente di essere qualcosa, è perché quella cosa evidentemente non è.
Per mezzo di una strategia applicata con rigore scientifico e potendo contare su un ingente apparato a supportarne il messaggio, Salvini ha consolidato un nuovo, efficacissimo discorso egemonico (cognitivo, culturale, giuridico) che fa presa su un popolo sempre meno popolare e via via più popolaresco, stereotipato come i politici che sostiene. Il Ministro sta facendo le prove generali del futuro, come regista ed attore protagonista insieme. Un futuro in cui la politica è essenzialmente spettacolo e il vero non esiste, se non come momento del falso.
Ormai il biglietto l’abbiamo e lo spettacolo dobbiamo guardarlo, ma prima di applaudire pensiamoci un momento.