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Terremoto ucraino: lo scisma ortodosso

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Carlo Paganessi

La rottura è da annoverarsi tra quelle epocali, destinate a finire nei libri di storia dei secoli a venire, ma la notizia sui media è passata decisamente sottotraccia. Il 15 ottobre 2018 il sinodo della Chiesa Russa riunito a Minsk ha adottato una dichiarazione in cui si constatava l’impossibilità di continuare ad essere in comunione eucaristica con il patriarcato di Costantinopoli. Questo vale a dire che il clero della chiesa ortodossa russa non potrà più concelebrare funzioni insieme a quello fedele alla chiesa di Costantinopoli, mentre lo stesso discorso vale per quanto riguarda i fedeli che non potranno più partecipare alle messe pronunziate da un sacerdote fedele al patriarcato rivale. I primi segni dello scisma ortodosso sono giunti già a settembre quando Cirillo, il patriarca di Mosca, ha chiesto di smettere di nominare nelle messe l’attuale capo della chiesa ortodossa di Costantinopoli Bartolomeo I, considerato primo tra pari tra i patriarchi.

I motivi fondanti della rottura sono da ricercarsi nella crisi, tutt’ora in corso, tra Ucraina e Russia. Il conflitto nacque nel 2014 come conseguenza di un periodo di instabilità iniziato l’anno precedente con le proteste di Euromaidan culminate con le dimissioni del presidente filorusso Yanukovich. Con il nuovo governo presieduto da Poroshenko le regioni orientali, a maggioranza russa, si sono de facto separate dal resto del paese e la Russia ne ha preso il controllo proclamando le due repubbliche popolari di Donec’k e Luhans’k. Oltre a tali territori la Russia ha annesso unilateralmente la Crimea dopo averne preso il controllo, scacciato le forze ucraine presenti e indetto un referendum. Da quel momento ad oggi il governo di Kiev sta continuamente cercando di riprendere il controllo del paese, ma le due repubbliche popolari sono continuamente sostenute e rifornite attraverso il confine con la Russia.

La visione della questione è diametralmente opposta a seconda che si adotti il punto di vista di Bartolomeo o di Cirillo: se per il primo è legittimo concedere l’autocefalia a chi la richiede dal 1920 e può portare alla riunificazione con i greco-cattolici d’Ucraina, dall’altra parte c’è il timore di perdere la propria “culla” dei russi. L’ortodossia russa così come lo stato russo sono nati nel contesto del Rus di Kiev, principato con un corpo slavo e una testa scandinava che per lungo tempo ha resistito alle invasioni mongole salvo poi diventare il nucleo attorno al quale si formerà la nuova identità statuale russa e che, nella seconda parte del secondo millennio, diventerà un punto di riferimento per tutti gli slavi insieme al regno di Polonia.

Dopo l’inizio della crisi tra Mosca e Kiev, la situazione religiosa in Ucraina vedeva presenti altri tre soggetti oltre alla chiesa greco-ortodossa: la più importante è quella che fa capo a Mosca, guidata da Onufrij Berezovskij. La seconda è la comunità guidata da Filarete Denysenko, già scomunicato da Mosca nel 1995 quando chiese di concedere l’indipendenza alla chiesa ucraina. Infine la chiesa ortodossa ucraina autocefala (Uaoc) guidata da Macario I. Gli ultimi due soggetti hanno presentato negli ultimi anni una richiesta di “indipendenza” (il termine più corretto per questo tipo di contesto sarebbe “autocefalia”) rimasta sulla scrivania di Bartolomeo I per molto tempo, fino all’ottobre 2018, momento in cui il patriarca di Costantinopoli concesse l’autocefalia con il benestare di Poroshenko. Da quel momento i rapporti con Cirillo, culminati nelle trattative di agosto, si sono interrotti in modo definitivo. La reazione più importante è arrivata dal patriarca Hilarion di Volokolamsk, il quale ha detto che la scelta di Bartolomeo era tra lo scisma o il coordinamento di tutte le chiese e il patriarca di Costantinopoli ha scelto il primo: alleandosi con gli scismatici ucraini è diventato egli stesso scismatico. Unica via per la riconciliazione sarebbe l’abolizione delle decisioni prese e la ricomposizione dello scisma ortodosso con la nuova attribuzione della competenze sui fedeli ucraini a Mosca.

Tale azione rivoluzionaria per la geografia ortodossa è stata possibile solo grazie all’annullamento di una lettera sinodale del 1686 con il quale Dionisio IV prendeva atto del passaggio della metropolia di Kiev sotto Mosca, la quale lo considerava come atto definitivo mentre il patriarca ecumenico come solo temporaneo. Dal lato politico, le interpretazioni da entrambe le parti sono naturalmente opposte: se per Poroshenko la scelta dell’autocefalia è sacrosanta e la chiesa russa ha scelto di autoisolarsi, Putin auspica una tutela degli interessi del patriarcato di Mosca. Per quest’ultimo, tuttavia, la questione è talmente grave che nei giorni successivi alla rottura ha convocato il consiglio di sicurezza nazionale per poter studiare adeguatamente le implicazioni della cosa.

La religione e, in particolar modo, il rapporto con Cirillo e tutto il clero ortodosso sono sempre stati punti cardine delle politiche di costruzione del consenso di Putin. Lo scisma ortodosso, con la guerra in Donbass e il pauroso calo di consenso dovuto alla riforma delle pensioni (che alzava l’età lavorativa oltre la speranza di vita del paese), allestiscono un quadro non particolarmente rassicurante per il presidente russo. La probabile mossa successiva sarà volgere di nuovo lo sguardo a occidente per recuperare consenso grazie alle azioni da intraprendersi nel teatro ucraino.

La rottura ha, quindi, radici estremamente profonde e lontane nel tempo. L’intera vicenda non può essere ricondotta solo ed esclusivamente a una lotta di potere tra i patriarcati di Costantinopoli e di Mosca, ma le ragioni dietro sono ragioni di stato che invadono il campo della politica e della crisi russo-ucraina. La vera questione da analizzare sarà cercare di capire come il resto del mondo ortodosso si porrà di fronte alla volontà, ormai manifesta, di isolamento della chiesa russa e di come questa intenda proseguire senza dialogare con le proprie consorelle.

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Carlo Paganessi

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