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Glass è un film di cui, onestamente, non si sentiva il bisogno

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Claudio Agave

Trascinato dall’immensa curiosità generata da quello che soltanto adesso possiamo definire come il capitolo precedente della trilogia – ovvero il riuscitissimo SplitGlass è uscito al cinema in tutto il mondo con aspettative davvero altissime e, a livello commerciale, il film si sta rivelando un discreto successo planetario, sia per via del cast molto noto che per le potenzialità della pellicola. La valutazione economica si scontra però fortemente con quella prettamente artistica. Perché Glass (che anche in Italia sta andando abbastanza bene) si è rivelata essere, più che una grande occasione persa, un’idea intrigante che però è rimasta tale, a causa soprattutto di alcune scelte molto discutibili di sceneggiatura.

Glass, la recensione: ciò che poteva essere e che invece non è stato

Ricondurre a una certa coerenza tutto il percorso che ha portato M. Night Shyamalan alla regia e alla scrittura di Glass poteva essere impresa difficile. Unbreakable aveva infatti letteralmente anticipato i tempi, proponendo una visione supereroistica assolutamente lontana dai prodotti fumettosi e un po’ fumosi del giorno d’oggi, analizzando soprattutto la questione – spesso troppo sottovalutata – del rapporto con i propri poteri preesisenti e delle responsabilità che tali poteri comportano, a livello fisico e morale. Split invece, con la sua vena horror-splatter e l’ispirazione quasi scientifica, aveva rinvigorito non solo il pubblico ma la carriera del regista indio-statunitense (da sempre divisa equamente tra prodotti cult ormai riconoscibilissimi e flop catastrofici), trovando al tempo stesso un collegamento a sorpresa con il primo film in questione. Ed è proprio per questi motivi che il rimpianto principale della pellicola sta tutto nella prima parte di essa. Una frazione contraddistinta da una regia sublime e a tratti quasi sperimentale, da tanta carne che aspettava solo di essere cotta ma anche da fili che venivano finalmente collegati, persino con una certa coerenza (cosa oggi fin troppo rara).

La locandina di Glass.

Sfortunatamente, ancora una volta Shyamalan cade nell’errore di sottovalutare la sua arte registica, depotenziandola per affrontare anche la sfida della sceneggiatura (in cui, purtroppo, spesso ha perso, come in questo caso). Così Glass, che poteva diventare un ottimo film sulla comprensione dei superuomini, su un simbolismo rivisto nella figura del superumano o addirittura sulla psicologia che può avvolgere un individuo del genere, si trasforma invece in un vero e proprio film di supereroi, senza che abbiano nomi altisonanti o costumi sgargianti ma ugualmente in grado di sbattere in faccia allo spettatore i soliti stereotipi triti e ritriti. Persino il “colpo di scena” finale arriva in maniera piuttosto letta al pubblico pagante, persino banale se si pensa a cosa invece avrebbe potuto generare una svolta più coraggiosa, matura e forse distopica del film. Glass arriva a perdersi proprio nel momento in cui, da duro, dovrebbe iniziare a giocare, preferendo scegliere il bivio meno tortuoso per arrivare al risultato di un action movie che va a snaturare completamente le componenti thriller/horror precedentemente maturate da Unbreakable e Split e che tanto care sono alla cinematografia di Shyamalan.

 

Qualcosa da salvare

Il cast salva solo parzialmente l’idea del film. James McAvoy è semplicemente gigantesco nella comunicazione fisica del suo personaggio (specialmente e ovviamente nei panni della Bestia) così come anche in quella linguistico-attoriale. Samuel L. Jackson ha un’esperienza tale da riuscire a rendersi un pericolo agli occhi dello spettatore senza nemmeno riuscire a muoversi, mentre invece Bruce Willis ha per tutta la durata del film la stessa espressione che avrebbe una persona costretta a fare qualcosa che non ha la minima voglia di portare a termine, mostrandosi dunque piuttosto spento e sciatto nella sua interpretazione del personaggio. Anya Taylor-Joy si conferma invece un’attrice molto interessante, seppur con un ruolo purtroppo minuscolo e quasi inserito con un pretesto nel corso della pellicola. Sarah Paulson, pur funzionando, man mano che il tempo passa resta vittima di un personaggio chiuso e dai risvolti che riveleranno essere piuttosto deboli.

In generale, Glass è un film che manca di coraggio e che, sostanzialmente, rappresenta qualcosa che non avremmo voluto vedere, semplicemente perché ciò che mostra esiste già (ormai anche da un bel po’). Un film che purtroppo va solo a concludere una mera storia (peraltro arrangiata nel corso degli anni e non facente parte di un originario programma più grande) senza provare a scardinare convizioni, cliché e presunte certezze di un certo modo di fare cinema supereroico. Glass raccoglierà di certo altri soldi, perché è un film che a livello tecnico si presenta benissimo. Non ce la farà, temiamo, a conquistarsi però un posto nella sezione cult, come invece avevano già provveduto a fare i suoi predecessori, consci della loro idea appassionante e volenterosa. Quello su Glass non vuole di certo essere un giudizio brutale, quanto invece una preghiera delusa verso un prodotto che aveva delle premesse esaltanti e che invece è crollato su sé stesso, fondendosi con un mare di banalità.

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Claudio Agave

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