«Nessuno ha il diritto di uccidere un ragazzo. L’hanno lasciato agonizzante, poteva salvarsi». La mamma di Marco urla fuori dal tribunale dopo la sentenza: non riesce ad accettare che la Corte d’Appello abbia diminuito da 14 a 5 gli anni di carcere che dovrà scontare l’assassino di suo figlio. Era il 18 maggio 2015, Antonio Ciontoli sparò a Marco Vannini mentre faceva un bagno nella sua villetta a Ladispoli, ma chiamò i soccorsi oltre un’ora dopo e il ragazzo di 21 anni morì. Il 29 gennaio scorso i giudici hanno deciso che quello del maresciallo della Marina militare non è stato omicidio volontario, come deciso in primo grado ad aprile, ma solo colposo. Mentre per la figlia Martina (fidanzata con Marco), il figlio Federico e la moglie Maria Pezzillo, i giudici hanno confermato i tre anni di carcere per omissione di soccorso. La fidanzata di Federico, Viola Giorgini, anche lei presente, è stata assolta.
Per conoscere le ragioni dei giudici sarà necessario attendere le motivazioni, ma la mamma di Marco, Marina Conte, non ci sta e a Mattino Cinque sfoga la sua ira: «Io sono una mamma che da 44 mesi si batte per avere giustizia per mio figlio, continueremo la nostra battaglia. Non mi hanno neanche dato la possibilità di passare gli ultimi minuti con mio figlio». Intanto arriva il sostegno del web, che con una petizione on line, su change.org, raccoglie quasi 190.000 firme per chiedere al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede di riesaminare il caso. Da parte sua Elisabetta Trenta, ministro della Difesa, sul suo profilo Facebook è intervenuta contro il maresciallo della Marina militare: «Non posso entrare nei meriti della sentenza giudiziaria, poiché esula dalle mie competenze e prerogative, ma una cosa la posso fare: il mio massimo impegno affinché al signor Ciontoli non sia concesso il reintegro in forza armata».
I fatti di quel 17 maggio appaiono ancora non del tutto chiari, viste anche le deposizioni discordanti delle persone coinvolte, tuttavia è possibile fare una ricostruzione. Mancano pochi minuti alle 23 di sera quando Marco, a casa dei Ciontoli, chiama i genitori per avvertirli che dormirà da Martina, con cui è fidanzato da tre anni. Poi va a farsi un bagno in vasca. È lì che Antonio lo raggiunge per prendere la pistola d’ordinanza che teneva in marsupio. Il ragazzo, con il sogno di diventare carabiniere, si incuriosisce e chiede al militare di fargliela vedere. Lui per scherzare gli punta l’arma, convinto che sia scarica, e spara. Ma non è un colpo a salve. Un proiettile trapassa la spalla di Marco fino a uscire all’altezza del fianco. Sentito il rumore sospetto, Martina e il fratello Federico vanno in bagno a vedere cos’è successo, ma il padre li rassicura, dicendo che non è nulla di grave e che se ne occuperà lui. I tre prendono il ragazzo, lo asciugano, lo vestono con altri abiti e lo stendono in camera da letto dei genitori.
Dopo 20 minuti però Federico si decide a chiamare i soccorsi. Ma al telefono con il 118 minimizza quanto è successo e alla fine rinuncia a chiedere l’intervento. Dalle registrazioni lo si sente dire: «C’è un ragazzo che si è sentito male probabilmente per uno scherzo, di botto è diventato troppo bianco e non respira più». Subito dopo però spiega che l’ambulanza non serve. Qualcuno della famiglia Ciontoli gli ha detto di troncare la comunicazione. La telefonata si interrompe. Trascorre ancora tempo, e Marco perde sangue. Viene pulito, vestito con abiti non suoi e steso sul letto in camera dei genitori. A mezzanotte i Ciontoli ci ripensano, e Antonio richiama il 118 dicendo che un ragazzo si è fatto male cadendo in casa sua e parla di un «buchino con il pettine».
Marco è in condizioni gravissime, ma a causa della chiamata fuorviante sull’ambulanza inviata non c’è nemmeno un medico. Il ragazzo viene portato al Poliambulatorio di Ladispoli. Solo quando è già in viaggio vengono avvisati i suoi genitori: Antonio dice loro al telefono che il figlio si è fatto male cadendo dalle scale. È Federico, il fratello della fidanzata della vittima, a incontrarli all’ospedale e a raccontare loro come sono andate realmente le cose.
Anche Antonio si decide e va dal medico per raccontare la verità: è stato lui a sparare. Marco intanto si aggrava e viene caricato su un’eliambulanza, ma durante il volo ha un arresto cardiaco. I medici provano subito a rianimarlo, ma non c’è più nulla da fare.
Il maresciallo della Marina, però, sembrava più preoccupato per la sua carriera che per il ragazzo agonizzante, tanto da chiedere agli infermieri di tacere l’accaduto, arrivando addirittura a chiedere di cambiare il referto. Già in primo grado, infatti, i giudici avevano dichiarato che il responsabile dell’omicidio scelse consapevolmente «la tutela dei propri interessi (lavorativi) piuttosto che la salvezza del ferito». «Era in lacrime, diceva “guarda se adesso devo perdere il posto di lavoro”», ha raccontato un testimone presente quando Antonio ha confessato al medico dell’ospedale di Ladispoli di aver sparato al ragazzo. Forse è solo con questo moto di egoismo che si può spiegare perché la famiglia Ciontoli non abbia chiamato subito i soccorsi e di aver lasciato Marco morire.
In questa vicenda fatta di versioni contraddittorie dei familiari, omissioni e racconti riveduti, a complicare il quadro ci sono anche delle intercettazioni. In un passaggio di queste, si sente Martina dire: «Era destino, ho visto lui quando papà gli ha puntato la pistola e gli ha detto “la vedi là? Ti sparo”», mentre lui diceva «leva sta pistola». Ma la fidanzata davanti al Pubblico ministero, in primo grado, nega e dice di essere stata presente nel momento dello sparo. Martina spiega poi perché non ha chiamato i soccorsi: «Per me non era grave, l’ho pensato per tutto il tempo». E alle domande del tribunale sulle urla che si sentono di sottofondo nella seconda chiamata al 118, risponde «non me ne sono resa conto».
I vicini di casa dicono di aver sentito delle urla disumane del ragazzo e qualcuno che gli intimava: «Statti zitto, non urlare». Martina dice di aver tenuto compagnia al ragazzo mentre era steso in camera, ma dice di non essersi resa conto che era ferito. Lui forse non parlava, perché sotto choc. C’è anche l’ipotesi, non verificata, che il vero responsabile sia Federico e non Antonio, visto che sul primo sono state trovate 48 particelle di polvere da sparo, mentre sul secondo 10. Ma l’uomo ha spiegato la cosa dicendo che il padre gli aveva chiesto di portare via la pistola e pulirla, così si sarebbe sporcato.
La decisione dei giudici comunque parla solo di colpa, e non di volontà. Ieri la sentenza è stata accolta da parenti e amici di Marco Vannini tra le grida di protesta: «Vergogna», «è uno schifo», «e se fosse stato vostro figlio?», con la mamma, Marina Conte, che urlava: “Hanno lasciato morire mio figlio, tutti devono andare in galera”. Dure anche le parole del sindaco di Cerveteri, Alessio Pascucci: «Da sindaco mi sento di dire che oggi provo un senso di vergogna nell’indossare la fascia tricolore in rappresentanza di uno Stato che non tutela i cittadini e che lascia impuniti gli assassini di Marco. Metterò le bandiere della nostra città a lutto e invito i sindaci di tutta Italia a farlo».
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