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Il primo re, le cruente fondamenta di Roma

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Andrea Damiano

L’idea di produrre un film come Il primo re e proporlo al pubblico italiano in questo denso periodo cinematografico, a poche settimane dalla cerimonia degli Oscar, è senza dubbio coraggiosa: la narrazione della nascita di Roma, attraverso il celebre mito di Romolo e Remo, reso qui più umano e totalmente smitizzato, è pregna di azione e violenza esplicita, e, per volontà di realismo, presenta la totalità dei dialoghi in proto-latino con sottotitoli in italiano. Matteo Rovere, dopo l’acclamato Veloce come il vento, porta in scena un dramma pseudo-storico, rappresentante un momento fondante della nascita della nostra società, senza disdegnare citazioni ai massimi esponenti dell’epica cinematografica e seriale.

Colpiti e trascinati dall’esondazione del Tevere, i fratelli Romolo e Remo si ritrovano in un luogo a loro sconosciuto, prigionieri di una tribù intenzionata a sacrificarli alle loro divinità. Grazie alla loro forza e al loro spirito di sopravvivenza riusciranno a liberarsi e, insieme ad altri fuggiaschi, inizieranno un viaggio che li condurrà, come nel mito, all’inevitabile scontro per la supremaziaIl primo re rinuncia completamente alle origini mitiche della fondazione della città eterna, concentrandosi su personaggi e avvenimenti più realistici; Romolo e Remo non sono discendenti di Enea e non sono stati allevati da una lupa, bensì sono semplici mortali vittime di un destino, o del volere di qualche dio, che li farà entrare nella leggenda. Ed è proprio attorno agli dei che si sviluppa il tema centrale del film: le divinità sono sempre presenti nelle parole, preghiere e spergiuri dei personaggi in scena, eppure si confondono, si accavallano dee femminili trine e legate alla terra, tipiche nei culti paleolitici, con quello che invece è l’elemento preponderante nella storia, il fuoco. Si attribuisce proprio a Romolo l’introduzione del culto del fuoco e dell’istituzione delle vestali, vergini destinate al preservare e non far spegnere la fiamma sacra, e infatti è lui ad averne, nella pellicola, un rapporto più fedele e rispettoso, utilizzandone il potere per proteggere, in opposizione al fratello Remo che lo utilizzerà solo per distruggere.

Alessandro Borghi interpreta Remo.

Il primo re non è certo esente da difetti, tra cui la poca e nulla introspezione dei personaggi secondari, il cui ruolo si limita a fornire vittime e vincitori nelle diverse scene di lotta, e di Romolo, interpretato da Alessio Lapice, che, pur essendo coprotagonista e portatore dei valori morali più nobili, non è mai esaltato dalla sceneggiatura e, per gran parte del film, non riesce a esprimere a pieno le proprie convinzioni e il proprio carattere. Di contro, il Remo interpretato da Alessandro Borghi, la cui carriera è in continua ascesa dopo Suburra e Sulla mia pelle, è uno degli elementi più riusciti: da fratello premuroso e giusto subirà una trasformazione repentina e violenta che lo farà scontrare con il fratello e con la fede. Egli peccherà infatti di hybris e andrà a sostituirsi agli dei stessi, perpetrando azioni empie nei confronti della sacerdotessa che aveva profetizzato la sua fine. Nonostante la spirale di crudeltà in cui ricade il personaggio, il suo carisma, dato in particolar modo dall’eccellente prova attoriale di Borghi, permane e, di contro, adombra quello che dovrebbe essere il momento di risalto del fratello. Dopotutto è forse più facile per la nostra società immedesimarsi in chi si oppone al volere divino e al predeterminismo, seppur con fine egoistico, rispetto a chi, come Romolo, si affida e sottostà agli dei, pur essendo una figura più spiccatamente positiva.

La maggior parte delle scene sono girate in esterni, molte anche di notte.

Il maggior pregio de Il primo re è senza dubbio il suo comparto tecnico: Rovere inscena delle ricostruzioni curate e appaganti, lo spazio aperto, le foreste e le paludi immergono lo spettatore in un mondo selvaggio, arcaico e brutale. Le scene d’azione sono ben coreografate e girate in modo chiaro e crudo, raggiungendo gradi di violenza e splatter assenti da anni nel panorama delle produzioni italiane, nonostante l’uso spesso esagerato della slow-motion nelle scene più esagitate rischi di compromettere la serietà portando il tutto sopra le righe. Per il resto, le grandi qualità delle scenografie, dei costumi e del casting dei comprimari e delle figurazioni dimostrano come le esperte maestranze del cinema italiano possano tranquillamente mettere in scena con realismo un film di questo genere, ormai desueto per il nostro mercato. All’immedesimazione contribuisce anche e soprattutto la scelta di recitare per intero in lingua proto-latina, il che comporta una scommessa su più livelli: dal lato stilistico, il lavoro linguistico e filologico dietro a questo linguaggio ricostruito (non esistono scritti o testimonianze originari dell’epoca, perciò la ricreazione è avvenuta a partire dalle iscrizioni e ornamenti superstiti) attribuisce molta originalità al progetto (pochi i film a farlo, tra cui Apocalypto di Mel Gibson, con cui il film di Rovere ha non pochi contatti). La realizzazione del linguaggio arcaico non sembra però perfetta: in diversi casi, l’orecchio allenato allo studio del latino riconoscerà frasi dalla costruzione molto classica, il che rischia di rompere la tanto ben costruita bolla di realismo (è difficile credere che un rozzo uomo del 753 a.C. parli come Cicerone nelle sue Epistulae).

La scommessa della scelta della lingua riguarda anche e soprattutto un altro aspetto: il successo nelle sale. Non è infatti un mistero che il pubblico italiano sia molto meno abituato a seguire film sottotitolati rispetto a gran parte del mondo, secondi probabilmente solo agli anglofoni. Questo deriva dalla grande tradizione e diffusione del doppiaggio nel nostro paese. Dunque, come l’utilizzo di un proto-latino può essere fonte di curiosità e interesse del pubblico nei confronti del film, così può essere un’arma a doppio taglio perché rischia di allontanare qual pubblico generalista non pronto ad un’esperienza “sperimentale”. Il primo re propone dunque una storia cruda, violenta e sottile nel raccontare i suoi temi e i suoi personaggi, risultando un progetto decisamente non perfetto ma comunque godibile. Come altri film di genere usciti in Italia negli ultimi anni, rappresenta una oasi di innovazione e divertimento, per chi lo vede e ancor più per chi lo fa il cinema, e, a prescindere dalla riuscita o meno al botteghino, resterà un esempio di come sia possibile realizzare progetti dal taglio internazionale mantenendo salde le radici alla nostra storia e cultura.

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Andrea Damiano

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