I quattordici punti di Wilson
«God gave him a great vision. The devil gave him an imperious heart. The proud heart is still. The vision lives.»
– Epitaffio dedicato a Woodrow Wilson da William A. White
Versailles, Francia. È il 18 gennaio 1919. Nella sala dell’orologio del Quai d’Orsay si riuniscono i rappresentanti delle potenze uscite vincitrici dal Primo conflitto mondiale: Giappone, Stati Uniti, Italia, Francia e Gran Bretagna. Da subito si capisce che il Giappone, alleato della Triplice intesa, avrà un ruolo marginale, limitato alla discussione e alla gestione degli affari orientali. Spetta invece ai quattro grandi (Woodrow Wilson, Vittorio Emanuele Orlando, Georges Clemenceau, David Lloyd George) il dibattito sul nuovo assetto politico e geografico da dare all’Europa e al mondo dopo la Grande Guerra.
Il Presidente americano Woodrow Wilson, il primo nella storia degli Stati Uniti a compiere un viaggio ufficiale in Europa, attendeva con ansia la Conferenza di Parigi. Poco più di un anno prima, l’8 gennaio 1918, aveva tenuto un discorso davanti al Congresso in cui aveva illustrato quattordici punti da cui ripartire per creare un nuovo ordine mondiale. Quattordici punti tutti diversi tra di loro, ma incentrati su un tema ben preciso: la pace. Pace che si sarebbe potuta raggiungere, secondo Wilson, soltanto attraverso l’attuazione di quattordici punti, ovvero:
– trattati di pace pubblici, per porre fine alla diplomazia segreta;
– libertà di navigazione marittima, in ottemperanza alle convenzioni internazionali;
– soppressione di tutte le barriere economiche per le nazioni che acconsentiranno alla pace;
– riduzione degli armamenti;
– risoluzione di tutte le rivendicazioni coloniali;
– evacuazione della Russia per permettere l’autodeterminazione del nuovo Stato sovietico;
– restaurazione del Belgio, a cui sarà garantita l’indipendenza;
– liberazione dei territori francesi e annullamento del Trattato di Francoforte del 1871 sull’Alsazia-Lorena;
– revisione delle frontiere italiane in base al principio di nazionalità;
– garanzia dello sviluppo autonomo di Austria e Ungheria per permetterne il reintegro nella comunità internazionale;
– evacuazione di Romania, Serbia e Montenegro e conseguente restaurazione degli Stati nazionali;
– garanzia della sovranità a tutte le regioni dell’Impero Ottomano e apertura dello Stretto dei Dardanelli per le navi commerciali di qualsiasi nazionalità;
– creazione di uno Stato indipendente polacco, i cui confini dovranno rispettare il principio di nazionalità;
– creazione di un’associazione delle nazioni per la risoluzione delle controversie tra gli Stati.
Wilson aveva individuato il freno che aveva impedito alle grandi potenze di portare la politica mondiale su un altro livello. Quelli che lui chiamava i “vizi europei” altro non erano che la negazione dei suoi quattordici punti e la critica nei loro confronti è particolarmente evidente nel primo punto. La sostituzione dei negoziati segreti con quelli pubblici era diventata una necessità, perché «la guerra aveva accresciuto i sospetti verso la diplomazia segreta, attraverso la quale erano stati abitualmente condotti i negoziati internazionali» (Hobsbawm). Il superamento di quel sistema prettamente europeo era stato naturale a causa dei suoi limiti intrinseci. Riproporlo in chiave globale era diventato impraticabile, specie dopo la Prima guerra mondiale, scoppiata proprio per via dei difetti del sistema.
Il Presidente americano pensava di poter creare un nuovo ordine mondiale, ovviamente a trazione americana, basato sull’uguaglianza tra gli Stati; questo era un notevole elemento di novità, che successivamente però si sarebbe rivelato una condanna per Wilson. Gli Stati Uniti avevano applicato la dottrina Monroe del disinteresse per gli affari europei e il perenne coinvolgimento nel cosiddetto “cortile di casa”, ovvero il continente americano, fino agli inizi del Novecento; avevano però cominciato a guardare ad altre regioni del mondo già nel 1853, quando il commodoro Matthew Perry, giunto nella baia di Edo con la sua flotta, aveva minacciato il Giappone di bombardamenti se non avesse posto fine alla sua politica protezionista. Da lì in poi l’intervento degli USA in altre aree periferiche del mondo sarebbe aumentato gradualmente, con alcune battute d’arresto dovute a quell’idea che ciclicamente rispunta nella loro politica estera: l’isolazionismo.
Per Wilson scardinare l’isolazionismo era prioritario ma, come sarebbe stato per Roosevelt durante la Seconda guerra mondiale, convincere il popolo americano del ruolo preponderante del proprio Paese rispetto a tutti gli altri era un compito arduo: a pagarne le spese fu infatti lo stesso Wilson.
Il Covenant, cioè il trattato istitutivo della Società delle Nazioni, era stato cassato dal Senato, così come buona parte del Trattato di Versailles. Gli Stati Uniti stavano rapidamente ripiombando nell’isolazionismo e Wilson stava perdendo la sua più grande battaglia. Il declino prima politico e poi fisico del Presidente, che sarebbe morto nel 1924, ha lasciato un vuoto incommensurabile nella politica americana degli anni Venti.
Tuttavia, l’isolazionismo che pensavano di poter attuare i repubblicani non è mai stato raggiunto completamente. Paradossalmente, a promuovere una vera politica in tal senso fu il democratico Franklin Delano Roosevelt, con gli atti di neutralità degli anni Trenta. Gli Stati Uniti non potevano permettersi di lasciare da soli gli Stati europei a seguito della Prima guerra mondiale: innanzitutto perché il debito interalleato, che ammontava a 1890 milioni di sterline (Di Nolfo), era aumentato a dismisura, ma anche perché il mercato europeo e quello statunitense erano diventati complementari. Sarà infatti la Grande depressione, partita proprio dagli USA dopo il crollo di Wall Street del 1929, a peggiorare la situazione economica in Europa. La questione delle riparazioni e della ricostruzione era dunque un macigno per gli Stati Uniti, che senza Wilson sembravano un Paese disorientato.
Cosa ne è stato dei rivoluzionari quattordici punti annunciati al Congresso appena qualche anno prima? Si potrà obiettare che la parabola del wilsonismo sia stata decisamente discendente a partire dalla vittoria del repubblicano Harding alle elezioni presidenziali del 1920. Bisogna però riconoscere che l’ultimo dei quattordici punti, quello sulla Società delle Nazioni, era riuscito a mettere d’accordo tutti gli altri Paesi. Un organo sovranazionale deputato a risolvere tutte le controversie tra gli Stati e a difenderne l’integrità territoriale era qualcosa di inedito fino ad allora. Purtroppo, la Società delle Nazioni era destinata a fallire nel momento in cui gli Stati Uniti non vi avessero aderito. Le ambizioni e i presupposti che essa poneva (e in cui Wilson credeva ciecamente) avrebbero gettato le basi per la fondazione, dopo la Seconda guerra mondiale, dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, una Società delle Nazioni corretta, funzionale e funzionante, pur sempre con le sue mille contraddizioni.
Un’altra ragione per cui la Società delle Nazioni non ebbe successo va ricercata nell’atteggiamento degli Alleati durante la Conferenza di Parigi. Francia e Italia si erano recate a Versailles per riscuotere il proprio bottino di guerra. I transalpini intendevano annientare la Germania e impedirle di risorgere per scongiurare la rinascita del Reich, mentre gli italiani non pensavano ad altro se non agli annosi compensi territoriali promessi loro a Londra nel 1915. Wilson era stato l’unico dei quattro grandi a riflettere sulle conseguenze a lungo termine che avrebbero avuto i trattati di pace della Prima guerra mondiale. Il suo approccio si era scontrato con quello di Orlando e Clemenceau, “colpevoli” di ragionare ancora in termini continentali e non intercontinentali. Il britannico George, invece, assecondava Wilson, consapevole degli ingenti aiuti concessi dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna, i quali avrebbero posto le fondamenta per quella special relationship di cui ancora oggi sentiamo parlare.
Per Wilson era essenziale riscrivere i principi della diplomazia internazionale sulla base di un principio di uguaglianza. Niente più trattati ineguali, retaggi imperialisti e ostacoli all’autodeterminazione dei popoli, ma concertazioni e negoziati alla pari, anche se in assenza, a quei tempi, di un diritto internazionale generale. La New diplomacy avrebbe migliorato le relazioni internazionali, non risolvendo i conflitti ritenuti ineludibili, bensì risolvendo buona parte delle vertenze che il dispotismo e la megalomania degli Stati avevano generato in precedenza, per superare le divisioni, proprio come erano riusciti a fare gli Stati Uniti dopo la guerra di secessione.
Secondo lo storico americano Lloyd E. Ambrosius, Wilson è stato il primo leader mondiale a parlare del ruolo che avrebbero dovuto avere nel mondo e per il mondo gli Stati Uniti d’America. «Mescolando elementi del liberalismo, della religione ed etnici, Wilson è riuscito a dare un’impronta ideologica al nazionalismo americano, che avrebbe influenzato tutti i suoi successori», sostiene Ambrosius in uno dei suoi saggi sul Presidente. Wilson distingueva tra le qualità proprie del suo Paese e quelle che non lo erano, affermando che lo spirito americano fosse qualcosa che andasse oltre l’antico spirito sassone della libertà, e che gli Stati Uniti si fossero fatti carico del compito, materiale e ideale allo stesso tempo, di sottomettere la natura selvaggia in cui viviamo e di coprire tutte le grandi estensioni di un vasto continente con un unico potere libero e stabile.
Lo straordinario disegno politico di Wilson è ancora vivo e ha plasmato, seppur indirettamente, le relazioni internazionali dal secondo dopoguerra in poi. A lui vanno riconosciuti dei meriti importanti, quali, appunto, la nascita dell’ONU, erede della Società delle Nazioni, e (Donald Trump non lo ringrazierà per questo fardello che gli ha lasciato) la comparsa degli Stati Uniti come attore di rilievo nella politica internazionale.
Questi riconoscimenti esulano però dal personaggio storico di Woodrow Wilson, su cui è ancora aperto il dibattito storiografico. Alcuni storici, visto il background sociale e familiare in cui è cresciuto (suo padre era un pastore segregazionista del Sud), lo considerano un razzista. Sua sarebbe, secondo loro, la responsabilità della rifondazione del Ku Klux Klan e della diffusione di un clima xenofobo negli USA del primo dopoguerra. Come poter dimenticare, ad esempio, la sua promozione del film Nascita di una nazione (1915), una delle pellicole più viste di sempre negli Stati Uniti, nota altresì per la rappresentazione positiva del KKK, in seguito sdoganato dalla società statunitense. Insomma, forse Woodrow Wilson non sarà un santo, ma ha sicuramente cambiato il mondo.