Marek Hamsik ha lasciato il Napoli dopo dodici anni di emozioni, (pochi) trofei, (alcune) sconfitte, (tanto) amore. E questo è un fatto. Lo slovacco è andato via come recordman assoluto del club partenopeo, sia a livello di presenze ufficiali che di reti siglate. E questo è un altro fatto. In questo articolo, però, non c’è spazio per le statistiche, i freddi numeri e i fatti. Perché Marek Hamsik ha contato – per un’abbondante generazione di tifosi napoletani – più di quanto si possa immaginare, al di là di ogni logica improntata al rendimento.
A tutti gli effetti, Marek Hamsik è stato il Maradona della storia recente del Napoli. E non solo per averlo superato tanto nei numeri quanto per l’amore che l’intera città gli ha riservato, nonostante avesse natali stranieri e forse persino esotici rispetto a quelli che il golfo partenopeo è abituato ad abbracciare. A differenza di Maradona, Hamsik non è mai stato un calciatore “casinista”, quanto piuttosto un uomo pacato, un leader sereno e silenzioso che ha rappresentato uno strappo netto rispetto alla calorosa torcida emotiva del pubblico partenopeo. Nessun proclamo, tante speranze. Una, purtroppo, rimasta vana: come Steven Gerrard (calciatore a cui spesso è stato paragonato, così come a Frank Lampard), neanche lui è riuscito a vincere il campionato con quella che era diventata, a tutti gli effetti, la squadra del suo cuore. Nonostante questa macchia – di certo collettiva, non specifica né personale – Hamsik non ha mai visto crollare verso il basso la sua reputazione, sottolineata e apprezzata pure dagli avversari, di giocatore non solo forte ma anche corretto, leale, intenso. Un uomo talmente speciale da riuscire a vivere una carriera intera, nella città più scaramantica d’Italia, con addosso il 17, numero “sfortunato” per eccellenza, che ora qualcuno vorrebbe persino far ritirare. Un calciatore tanto atipico da conquistare tutti, senza gesti eclatanti ma solo con il lavoro e il rispetto.
In molti hanno attribuito la volontà dello slovacco di andar via a un sintomo negativo, di mancanza d’amore. L’ipotesi più probabile, invece, resta proprio quella di un troppo amore che ha spinto lo stesso Hamsik a rifiutare – nel corso degli anni – mete europee ambiziose, per poi andare a svernare in Cina in una fase calante della sua carriera. Come ogni icona, Hamsik avrebbe meritato qualcosa in più. Non solo in ambito prettamente calcistico, ma forse anche sotto il profilo umano. Arrivato da sconosciuto, in punta di piedi, Hamsik decide di andar via alla stessa maniera, stavolta da totem. Nessun saluto eclatante, nessun addio strappalacrime (per quello ci sarà tempo), la speranza di poter tornare come dirigente per consentire al Napoli di puntare sempre più in alto.
Perfino per una persona normale, che non ha dunque a che fare con i ritmi forsennati dei calciatori, dodici anni sono tantissimi da trascorrere con le stesse abitudini. Eppure Marek Hamsik ce l’ha fatta, spinto dall’amore e dalla riconoscenza verso una città che lo ha reso uomo, padre, condottiero. E pazienza se qualche volta lo slovacco è stato fischiato, depotenziato, contestato e disprezzato persino dagli stessi tifosi che ora si strapperebbero i capelli per trattenerlo in azzurro. L’amore fa così, bisogna prenderlo per ciò che è, con i suoi spasmi e le sue contraddizioni. Marek Hamsik lo ha capito, lo capirà. Adesso parte, poi tornerà. Come ogni cosa bella che sottolinea i momenti della nostra vita. Il ricordo, però, resterà sempre. Quando, tra trent’anni, verrà chiesto il nome di un calciatore simbolo del Napoli, qualcuno risponderà davvero: «Marek Hamsik». Con silenzioso e lacrimante amore. E con un “grazie” sussurrato, oltre ogni logica.
Io t’ho amato sempre, non t’ho amato mai,
amore che vieni, amore che vai.
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