Avete presente i Jetson o Pronipoti – non ho mai capito quale sia il nome corretto – la serie animata di Hanna-Barbera uscita negli anni Sessanta? Questa serie, oltre a renderci edotti che nel prossimo futuro diritti umani e tutele sul lavoro saranno inesistenti, ci mette di fronte a quello che è il luogo comune del rapporto fra datore di lavoro e dipendente: un arcigno e dispotico Capo che a suo piacimento maltratta e/o licenzia per un capriccio il dipendente. Tale visione, in realtà, è tutt’altro che relegata nel mondo animato. Molte persone o, meglio, molti lavoratori credono che venire maltrattati dal proprio datore di lavoro o da altri colleghi sia normale e che le tutele nei loro confronti, in realtà, siano solo un’utopia. Così, però, non è. Gli strumenti offerti dal sistema giuridico italiano,ma anche europeo, sono diversi e lo stesso processo del lavoro è improntato sul favor del lavoratore, un vero e proprio principio generale per cui le norme devono interpretarsi in favore della parte debole, il lavoratore, appunto. Tra le diverse condotte da reprimere e condannare particolare importanza deve darsi al mobbing, un abuso di tipo psicologico-aggressivo di cui in realtà si sente spesso parlare ma senza sapere, nella pratica, in cosa consiste. Occorre innanzitutto precisare che non ogni condotta, rimprovero o dissapore lavorativo costituisce una forma di abuso rilevante e che, nel corso degli anni, giurisprudenza, dottrina, sociologia e soprattutto psicologia hanno delineato in modo chiaro e preciso tale figura.
Cos’è il mobbing
Quanto all’etimologia del termine, questo viene generalmente ricondotto all’inglese “to mob” ossia accerchiare o fare ressa attorno qualcuno anche se il vocabolo ha, in realtà, natura antica derivando dalla definizione latina della plebaglia. Da ciò risulta facile capire le condotte tipiche del fenomeno che, come già detto, avviene sul luogo di lavoro e consiste in una forma di abuso che si compone di umiliazioni, persecuzioni e sottomissione dell’individuo. Anche se la maggior parte delle volte la condotta lesiva viene esercitata da un solo soggetto, generalmente, vi è la compartecipazione di un gruppo passivo che assiste inerme alle vessazioni o comunque appoggia il mobber. Così facendo la vittima si ritrova in uno stato di prostrazione tale da convincersi che la situazione tossica che sta vivendo, in realtà, non è tale o che le angherie subite siano giuste a causa di qualche sua mancanza. Le conseguenze di un simile processo possono variare dal semplice licenziamento fino a veri e propri gesti autolesionistici, anche devastanti, come il suicidio. Per tale ragione la tematica del mobbing vede intrecciarsi profili giuridici di tutela del lavoro, nonché psicologici con riferimento all’individuazione delle condotte vessatorie e alle loro conseguenze. Sul piano giuridico, una specifica definizione del fenomeno deve ricercarsi nella giurisprudenza di inizio millennio mentre, in passato, venivano sanzionate le singole condotte come ad esempio le violenze, le minacce, il trasferimento o il demansionamento ingiustificati. Appunto nel 2005 la Suprema Corte di Cassazione offre una descrizione del fenomeno, condivisa poi negli anni, delineandolo come una situazione lavorativa di tipo conflittuale, in costante progressione, in cui una o più persone sono oggetto di condotte altamente persecutorie da parte di una o più soggetti, con lo scopo di causare alla vittima danni più o meno gravi. Tali condotte, inoltre, devono essere sorrette dall’elemento soggettivo ossia la volontà di provocare l’isolamento e, successivamente, l’allontanamento della vittima dal luogo di lavoro.
La condotta, che si traduce in una persecuzione psicologica, può espletarsi in diverse forme. Si possono verificare comportamenti che tendono a isolare il soggetto mediante ingiurie, offese, attacchi verbali. Comportamenti apparentemente innocui, ma di fatto ostacolanti, come l’assegnamento a mansioni inutili o il divieto di usare attrezzature aziendali, ma anche l’abuso di strumenti normalmente, e legalmente, consentiti come l’invio di visite fiscali, il carico di lavoro straordinario, i trasferimenti aziendali. In ogni caso questi o altri esempi sono parte di un disegno o, che dir si voglia, di uno schema più ampio che diventa elemento necessario dato che, appunto, non tutte le singole condotte sono di per sé illecite. Occorre allora interrogarsi su quali, nella miriade di atti e comportamenti che caratterizzano il rapporto di lavoro, debbano considerarsi rilevanti.
Quando è mobbing
Capita, complice il facile accesso alle informazioni in rete o il “sentito dire”, che un lavoratore si senta oggetto di vessazioni in una situazione lavorativa, per così dire, ordinaria. Il mondo del lavoro, in particolare quello subordinato, si caratterizza per la probabilità di generare conflitto dovuta al clima di stress, di convivenza e possibile competitività tanto fra i lavoratori quanto verso i superiori. In quest’ottica, dunque, bisogna necessariamente tenere distinto il semplice conflitto lavorativo, temporaneo e magari dipeso dallo stesso dipendente, dall’aggressione sistematica diretta all’isolamento. Sullo stesso piano, quello dell’irrilevanza giuridica, si posizionano particolari politiche di economia e gestione del lavoro anche se, in realtà, poco diffuse nel nostro Paese. Queste ultime mirano a creare un clima di tensione sul luogo di lavoro al fine di ottenere, a detta di chi le applica, maggiori risultati in termini di prestazioni da parte dei dipendenti. Tali ipotesi, se non sfociano nel danno biologico da stress o in altre forme di danno, sono consentite anche se, di fatto, fallaci. Al fine di delimitare un confine preciso del fenomeno del mobbing, dunque, nel corso degli anni è intervenuta la giurisprudenza fornendo, attraverso diverse pronunce in materia, un minuzioso elenco di punti qualificativi.
Il primo requisito è dato dal tempo: le condotte vessatorie, per considerarsi rilevanti, devono perdurare per almeno sei mesi, in secondo luogo tali condotte devono avvenire in maniera frequente escludendo, così, gli atti sporadici. Un ulteriore requisito è quello descritto in precedenza e inerente alla finalità delle azioni ossia quello persecutorio-psicologico diretto all’esclusione della vittima. Infine, ovviamente, il fenomeno persecutorio deve avvenire nel luogo di lavoro.
Nella pratica, poi, ci sono diverse “strategie” poste in essere dal mobber che potremo definire, per semplicità, condotte tipiche. La prima, e più diffusa, di queste è rappresentata dal demansionamento del lavoratore. Al momento dell’assunzione, infatti, nel contratto viene stabilito in maniera precisa “l’inquadramento” del dipendente ovvero i suoi ambiti lavorativi e le relative mansioni. In particolari casi, previsti dall’art. 2103 codice civile così come modificato dal jobs act, al lavoratore possono essere assegnate mansioni inferiori ma vi sarà, in capo al datore di lavoro, l’obbligo di giustificare detta scelta che dovrà fondare su specifiche ragioni causate da modifiche sugli assetti organizzativi aziendali.
Un’altra pratica che, similmente a quanto appena detto è consentita, è rappresentata dal trasferimento del lavoratore presso una differente unità lavorativa. Il trasferimento dovrà parimenti essere giustificato da ragioni di necessità aziendale ed organizzativa. Di converso, diverrà illegittimo il trasferimento del lavoratore in assenza di giustificazione o di necessità aziendali e potrà, inoltre, essere ricondotto al fenomeno del mobbing.La forma più grave, in ambito lavorativo, è sicuramente quella del licenziamento che rappresenta la forma “ultima” della condotta aggressiva operata dal datore di lavoro, sia questo legittimo o meno. Il licenziamento, infatti, ancorché legittimo può provocare un grave stress al lavoratore nonché porlo in una posizione di umiliazione psicologica se eseguito in modalità poco consone o se lo stesso viene accompagnato da pubblicità e umiliazioni. Qualora, invece, si abbia a che fare con un licenziamento illegittimo, il lavoratore potrà impugnare lo stesso e chiedere le tutele previste ex lege ossia la riassunzione o il riconoscimento di un’indennità (non è possibile, per ragioni espositive, trattare ora in maniera più approfondita il licenziamento).
Giova infine ricordare che il mobbing comporta l’insorgere diverse e gravi conseguenze, che si traducono poi nell’oggetto del risarcimento, di natura psico-fisica. Lo stress, prima conseguenza del fenomeno in esame, oltre a essere rilevante e patologico in quanto tale è responsabile di diverse malattie di tipo cardiaco o relative al sistema intestinale. Oltre a queste e altre patologie fisiche in cui lo stress può sfociare è bene evidenziare la possibilità dell’insorgere di malattie tipicamente della mente quali l’ansia e, soprattutto, la depressione. Quest’ultima costituisce una delle maggiori conseguenze del mobbing e ciò dipende dalla natura di questo particolare fenomeno. Un soggetto, infatti, si vede realizzato come individuo principalmente sul luogo di lavoro e, giocoforza, qualora questo luogo sia rappresentato da un contesto tossico non potrà che influire negativamente sulla vittima, sulle sue prospettive e sulla idealizzazione del futuro.
Come difendersi
Il fenomeno fin qui descritto, sebbene conosciuto e analizzato in maniera approfondita da numerosi settori di studio, non trova in Italia una specifica legislazione a livello nazionale. Come già accennato le singole condotte potranno essere perseguite, qualora ne ricorrano i presupposti, sia da un punto di vista penale (si pensi, in questo caso, alle ingiurie, alle minacce ma perfino alle molestie sessuali) sia da un punto di vista giuslaboritisco. La legislazione del lavoro, infatti, delinea in maniera precisa le tutele del lavoratore prevedendo appositi rimedi in caso di provvedimenti illegittimi siano essi trasferimenti, demansionamenti o il licenziamento. Data la particolare natura del luogo di lavoro e dei rapporti che si possono instaurare al suo interno, le più recenti sentenze penali sono arrivate a riconoscere la configurabilità del delitto di maltrattamenti in famiglia in determinati casi. Non è raro, infatti, che nelle realtà aziendali di dimensioni più contenute fra i soggetti possa instaurarsi un rapporto para-familiare, da ciò ne deriva la necessità di tutelare con maggior attenzione il soggetto vulnerabile rappresentato, in questo caso, non dal familiare ma dal lavoratore.
La mancanza di condotte rilevanti sul piano del lavoro e sul piano penale, tuttavia, non può rimanere priva di conseguenze altrimenti si perderebbe il senso di definire e qualificare un fenomeno come quello del mobbing. Il danno subito dal lavoratore, quello finora indicato come lesione psicofisica e, dunque, avente principalmente natura non patrimoniale o, in caso di demansionamenti e trasferimenti natura patrimoniale data dal danno economico o dalla perdita di chance, è suscettibile di risarcimento ai sensi del combinato disposto degli artt.32 e 42 della Costituzione e dell’art. 2087 del codice civile. In particolare, quest’ultimo articolo impone al datore di lavoro di adottare tutte le misure necessarie non solo per legge ma anche secondo la miglior tecnica e conoscenza, al fine di garantire e tutelare la salute dei lavoratori. La norma in questione è espressione diretta dei succitati articoli della Costituzione che vedono, nel garantire il diritto alla salute come inviolabile, un limite alla libera iniziativa economica. Da tale assunto ne deriva non solo un obbligo in capo allo stesso di astenersi dal tenere condotte lesive ma anche un dovere di vigilanza diretto a evitare ed eliminare situazioni pericolose per la salute. Un obbligo di questo tipo, dunque, impone al datore di lavoro di prevenire o interrompere sul nascere fenomeni persecutori anche se lo stesso non ne è parte. Quanto alla natura di questa particolare responsabilità si ritiene, in ossequio a dottrina e giurisprudenza maggioritaria, che abbia origine contrattuale. Oltre a tutte le conseguenze che ne derivano in termini di prescrizione e di prevedibilità del danno, appare particolarmente rilevante, qui, l’inversione dell’onere della prova per cui il lavoratore è tenuto a provare unicamente il danno e l’inadempimento dell’obbligo di tutela in capo al datore di lavoro. A tale tutela si affianca la responsabilità extracontrattuale, prevista esplicitamente dall’art. 2043 c.c. e derivante dall’obbligo generale di non ledere l’altrui sfera giuridica, nei confronti dell’agente. In questo caso, però, il lavoratore dovrà provare il danno, la condotta e il nesso di causalità fra questi oltre all’elemento volitivo in capo al mobber.
La presenza di una duplice tutela così, in realtà, generica è da imputarsi all’assenza di una specifica legislazione nazionale dato che l’intera disciplina fin qui delineata ha natura unicamente giurisprudenziale. Data l’importanza e, ormai, la conoscenza del fenomeno si auspica nella previsione di una legge ad hoc anche se, oltre ad alcune uscite negli anni, il legislatore non si è mai mosso in tale direzione. Un simile intervento donerebbe sicuramente chiarezza in una realtà così frammentata oltre alla certezza di tutela mediante determinate forme specifiche di ristoro della vittima (così come già avviene per i licenziamenti illegittimi). Un intervento in materia, poi, svolgerebbe un effetto preventivo di tali fenomeni agendo per via dissuasiva con certe e sicure conseguenze al verificarsi di fenomeni di mobbing. Tuttavia, al momento, i problemi del Paese sembrano essere altri dunque i lavoratori, ancora una volta, dovranno accontentarsi delle tutele di fatto costruite dal tanto bistrattato sistema giudiziario.