Gli articoli precedenti
- Come nasce il capitalismo agroalimentare
- Modernizzazione agricola: «Io sono l’Italia!»
- Per una questione di economia e tecnica agraria
- L’agricoltura ai tempi del Fascismo
Nel maggio del 1948, due esperti della Tennensee Valley Authority (un’agenzia federale statunitense per lo sviluppo economico) studiarono l’economia del sud Italia durante un viaggio di un mese supervisionato dall’agroeconomista Manilo Rossi Doria. La forte dipendenza dell’economia meridionale dall’agricoltura mise in luce col bilancio post-bellico quali fossero le misure d’intervento più appropriate per rilanciare lo sviluppo economico. Mentre al nord la percentuale di coltivazioni distrutte dalla guerra tocca il 12,5%, al sud sfiora il 35%. L’esito dello studio dei due americani riporta: «Agriculture is the most important resource in all the studied areas, and it must be in the future». Tale conclusione tracciò un percorso in seno alla modernizzazione dell’agricoltura – agevolato dagli aiuti del Piano Marshall – che culminò nel 1950 con la Riforma Agraria: una serie di provvedimenti che affrontarono problematiche relative all’agricoltura esistenti sin dai tempi dell’Unità, e la cui applicazione contribuì a definire l’indirizzo politico ed economico che segnò profondamente l’Italia della seconda metà del Novecento.
La rivoluzione contadina
Dalla fine della guerra trascorrono anni di trasformazione economica in cui l’intento è quello di favorire il passaggio da un’economia di sussistenza ad una di mercato. Si diffonde a macchia d’olio – nei partiti di destra quanto in quelli di sinistra – l’idea che il modello di agricoltura a latifondo sia non solo altamente improduttivo, ma soprattutto anacronistico. Inoltre, il lavoro stagionale e senza contratto a cui erano costretti i contadini della penisola sin dai tempi dell’Unità non garantiva buone e costanti condizioni di vita. Pertanto, le numerose proteste dei contadini e dei braccianti (che reclamavano la proprietà della terra che lavoravano, un aumento dei salari e della previdenza) scaturirono nel corso del 1949 nella prima azione di sciopero generale bracciantile, coordinata dalla CGIL di De Vittorio. Le mobilitazioni dei contadini riguardavano l’intera penisola, e non di rado si esaurivano con un epilogo tragico.
L’ondata di scioperi culminata nella grande mobilitazione del ’49 fu la manifestazione del fervore per l’introduzione di grandi novità nella Costituzione della Repubblica, entrata in vigore un anno prima. Oltre alla garanzia della tutela del benessere di tutti i cittadini, in senso agrario già il primo articolo segna la fine definitiva di quella cultura conservatrice manifestatasi con i grandi latifondisti, per poi essere ulteriormente ribadita nella parte riguardante i rapporti economici. Soprattutto al sud, considerare le richieste sociali dei contadini in un contesto tipico del secondo dopoguerra – ovvero la contrapposizione ideologica del modello economico comunista e capitalista – poneva la classe politica di fronte all’urgenza di riformare profondamente l’economia agricola, pena il rischio di veder estendere il consenso comunista già ben radicato tra i ceti rurali.
Mentre infatti nel maggio del ’47 la banda di Salvatore Giuliano apre il fuoco su una manifestazione di contadini durante un comizio del Pci, e mentre la convivenza al governo con i comunisti sembra intollerabile, il Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi vola in America. Quello che sarebbe in seguito diventato noto come “il viaggio del pane” inaugura di fatto gli anni della Ricostruzione, iniziata con un prestito di 100 milioni e aiuti materiali come grano, combustibile e navi (per far ripartire l’industria e il commercio). Gli aiuti del Piano Marshall e la successiva esclusione dei comunisti dalla possibilità di entrare a far parte del governo costituirono il terreno fertile per l’avvio dei progetti democristiani. Durante la stagione del “centrismo”, infatti, il governo ebbe la possibilità di mettere in pratica provvedimenti economici in linea con la dottrina sociale cattolica, secondo la quale un giusto intervento dello Stato nell’economia volto a regolamentarla e a garantire redistribuzione della ricchezza e remunerazione del lavoro fosse indispensabile per lo sviluppo del paese.
«Aiutiamoci da noi»
I mutamenti sociali introdotti dalla Costituzione che unirono la libertà d’iniziativa economica e il diritto alla proprietà uniti all’arrivo degli aiuti americani incisero direttamente sulla modernizzazione del settore agricolo. Un contributo indiretto invece va ricercato negli aiuti precedenti l’Europe Recovery Program. Dagli Stati Uniti giunsero anche macchinari per la produzione industriale in serie, che consentirono ad aziende come la Fiat e la Montecatini di aumentare rispettivamente la produzione di trattori e fertilizzanti. L’aumento generalizzato dei redditi e dell’occupazione al nord ridimensionò la domanda dei beni alimentari in modo tale da richiedere indirettamente all’agricoltura del sud Italia dei forti cambiamenti in termini non solo di quantità di produzione, ma anche di che cosa produrre.
Sono numerosi i casi in cui gli agricoltori del sud abbandonano progressivamente la coltura del grano per dedicarsi all’allevamento, settore che richiede meno lavoro e di minor durata, in concomitanza con l’aumento del consumo di carne al nord. In questo contesto lo studio della commissione della TVA con il contributo di Manilo Rossi Doria determina una svolta. In un primo momento, gli aiuti americani verso l’Italia sono focalizzati totalmente sulla ricostruzione e sul progresso industriale. Gli aiuti del Piano Marshall non erano pensati per lo sviluppo rurale, ma la dipendenza economica del sud Italia dall’agricoltura e il suo ruolo centrale nelle dinamiche sociali emerse dallo studio sopra citato dimostrarono quanto lo sviluppo agricolo fosse essenziale appunto per la stabilità economica, sociale e anche politica di quelle regioni.
Aumentare la produzione delle derrate agricole divenne un imperativo, e una volta sanciti il diritto alla proprietà privata della terra e la libertà d’iniziativa economica si iniziò ad intravederlo come prossimo traguardo. Era infatti opinione comune che l’abbandono dei grandi latifondi a favore di piccole-medie aziende familiari sarebbe risultato in un generalizzato aumento produttivo. Ma ciò non poteva realmente verificarsi senza l’uso di adeguati mezzi. L’aumento di produzione di trattori e di fertilizzanti necessitava di una domanda abbastanza estesa da poterlo sostenere. La necessità di rendere più produttiva la terra come accennato prima dava sì buoni propositi perché ciò accadesse. Tuttavia il costo di tali mezzi produttivi rappresentava un limite per una classe lavorativa che non godeva ancora di redditi sufficienti per poterseli permettere. Il loro acquisto e la loro diffusione furono favoriti da agenzie pubbliche che operavano indipendentemente dalla pubblica amministrazione, come consorzi e cooperative. A questo proposito è bene ricordare il contributo portato dall’ENI di Enrico Mattei, che dopo le scoperte dei giacimenti di gas nella Pianura Padana, fece pressione sui vari governi per abbassare il prezzo del combustibile e renderlo più accessibile.
Luci e ombre della riforma
Bisogna ricordare che la riforma agraria del 1950 segnò sì un punto di svolta ma non fu né il primo atto di volontà, né il primo tentativo di sviluppo rurale. Durante la breve parentesi della Repubblica Romana (1848-49) vennero redistribuite le terre confiscate al clero, e già alla fine della Prima Guerra Mondiale il Partito Popolare Italiano (il primo embrione della Democrazia Cristiana) presentò una propria proposta di riforma agraria. Finita la Seconda Guerra Mondiale, il perno del dibattito sul progresso agricolo era la trasformazione fondiaria: redistribuzione dei terreni, opere idrauliche, infrastrutture, assistenza tecnica e accesso al credito. Tutte queste problematiche risalenti ai tempi dell’Unità furono affrontate con tre provvedimenti di legge varati tra maggio e dicembre del Cinquanta che riguardavano la Sila, la Puglia e la Maremma, la Lucania, il Delta padano, la Sicilia e la Sardegna. Tutte aree rurali che, stando alle parole dell’economista Vera Lutz, «non erano semplicemente depresse, quanto arretrate se non sottosviluppate».
La riforma comportò l’esproprio di tutte le terre sopra ai 300 ettari, per un totale di 749.000 attribuiti a circa 109.000 famiglie di braccianti e mezzadri con possibilità di pagamento a rate. In media, le neonate piccole proprietà non superavano i dieci ettari per famiglia, e il risultato dell’esproprio non fu quello auspicato dalla corrente liberale dell’epoca (rappresentata dalla figura di Luigi Einaudi) che propose invece un esproprio totale delle terre, e con la distribuzione di esse solo in seguito a lavori di bonifica a carico degli espropriati. Gli agricoltori senza terra infatti secondo i dati disponibili al tempo risultavano essere all’incirca sei milioni, e gli assegnatari spesso lamentavano che la terra fosse in uno stato che necessitava di particolari e costose lavorazioni per renderla sufficientemente coltivabile. Inoltre, il bisogno di favorire il passaggio da un’agricoltura di sussistenza ad una di mercato richiedeva l’uso e la diffusione di pratiche proprie dell’agricoltura intensiva.
Uno dei fattori limitanti questo tipo di agricoltura non era solo la possibilità di meccanizzare il lavoro ma soprattutto l’accesso e la distribuzione dell’acqua. Le opere e le bonifiche idrauliche vennero costosamente sostenute dalla Cassa del Mezzogiorno (uno degli enti menzionati in precedenza), creata con la riforma per gestire i crediti internazionali e garantire ai nuovi proprietari terrieri un accesso al credito agevolato per l’acquisto delle nuove tecnologie disponibili. La Cassa del Mezzogiorno si preoccupava essenzialmente di distribuire le risorse materiali comprese nel Piano Marshall, svolgendo oltre al ruolo di intermediario tra privato cittadino e libero mercato anche il compito di allocare risorse pubbliche per il miglioramento delle infrastrutture, in merito sia alle strade, sia alle linee elettriche. L’ente verrà smantellato negli anni Novanta, quasi in concomitanza con i partiti che lo ressero per tutta la seconda metà del secolo.
Le principali critiche provenienti dagli ambienti di sinistra in merito alla creazione della cassa puntavano il dito contro l’obiettivo clientelare della classe politica. Lungi dal voler fare della dietrologia rispetto ai fatti, è innegabile che i provvedimenti presi con la riforma agraria costituirono un enorme successo politico per la DC di De Gasperi. Le rivendicazioni dei contadini nullatenenti furono sempre tenute in considerazione dalla sinistra, e il tempismo di applicazione di quelle leggi a favore di un’agricoltura moderna – si tenga sempre a mente il contesto della Guerra Fredda – non garantirono tanto un significativo aumento dei consensi ai democristiani quanto stabilizzarono e legittimarono ulteriormente l’esperienza centrista del governo, almeno fino all’avvento della formula di centrosinistra alla fine del decennio.
Sottolinea a questo proposito l’agroeconomista Rossi Doria che il consenso comunista delle campagne del sud Italia è riscontrabile soprattutto nell’entroterra, dove l’agricoltura è più povera ed estensiva (ancora legata alla coltivazione di grano favorita dal regime fascista), mentre affacciandosi alle zone costiere, dove la produzione è più diversificata verso l’orticoltura, la frutta ed il vino, il consenso registrato tende all’area democristiana-liberale. Detto ciò, è lecito e logico supporre che migliorare le condizioni economiche dei nuovi conduttori di azienda agricola avrebbe portato ad un maggiore consenso.
Considerando quanto già detto, la riforma agraria fu un successo? I dati e i risultati in merito in effetti sembrano contrastanti. Secondo quanto sostenuto dal sindacalista calabrese Francesco Caruso negli anni Settanta, la riforma «dal punto di vista tecnico/economico fu un mezzo fallimento, mentre dal punto di vista politico fu un indubitabile successo». Detto in altre parole, i risultati tecnico/economici sul breve periodo furono di gran lunga inferiori rispetto a quelli politici. Infatti, la riforma non impedì nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta l’esodo di meridionali verso l’estero e verso il nord Italia in cerca di migliori opportunità, fenomeno stimolato dal sovraffollamento nelle città e nelle campagne, e dalla disoccupazione indotta da cambiamenti nella produzione nazionale (il grano, che impiega molta manodopera, fu progressivamente abbandonato da molti agricoltori alla fine del Fascismo e della Battaglia del grano).
Nonostante l’impellente necessità di porre rimedio ad un’agricoltura fortemente arretrata, secondo alcuni critici della riforma fu proprio l’eccessiva attenzione nei confronti della redistribuzione della terra ad impedire un’immediata modernizzazione agricola in senso più ampio e generale, ovvero tenendo in considerazione anche la diffusione di nuove tecniche, strumenti e conoscenze scientifiche. Secondo altri, la riforma rappresentò un importante nodo di svolta per lo slancio economico e sociale delle zone rurali, e soprattutto del sud Italia, ma la mancanza di un piano di industrializzazione per il Sud contribuì a ritmi di crescita molto contenuti (di certo non quelli auspicati). Mentre infatti al Nord su 100 lire depositate 73 venivano investite in industria, al sud solo 55 seguivano la stessa sorte. Nonostante tutto, la riforma agraria favorì l’instaurazione di un circolo economico in agricoltura di produzione di prodotti primari per la trasformazione e per l’export, ma il saldo della bilancia commerciale italiana sarebbe rimasto negativo per parecchi anni. Come sempre, i risultati positivi dei provvedimenti in ambito economico e sociale – specialmente quelli che trasformano in maniera così profonda la società – non si possono riscontrare subito nel breve periodo.
Di fatto, l’impiego di nuove tecniche di coltivazione e di tecnologie – che come in ogni processo di modernizzazione liberano manodopera che viene reimpiegata nelle industrie – e l’aumento di produzione agricola in parte dedicata alla trasformazione industriale avrebbero determinato uno sviluppo economico significativo. Inoltre, l’ingresso nella Comunità economica europea garantì nuovi mercati destinati ad acquistare sempre più prodotti agroalimentari italiani, confermando la linea economica mostrata in precedenza che avrebbe portato nel giro di cinquant’anni l’Italia dall’essere un paese agricolo e sottosviluppato ad una delle economie più importanti nel circuito europeo e mondiale. In tal senso, fu proprio in seguito all’entrata in vigore della Costituzione, all’arrivo degli aiuti del Piano Marshall e all’applicazione della Riforma Agraria del 1950 che si verificò il dato più significativo del passaggio da un’economia nazionale prettamente agricola ad una industriale. Solo dopo questi avvenimenti infatti, l’industria superò l’agricoltura nell’incidenza sul mercato del lavoro.
L’eredità agraria dei primi anni della ricostruzione è tutt’ora ben tangibile. L’Italia non gode di estese superfici aziendali, e la loro conduzione risulta essere prevalentemente familiare. Ultimo ma non meno importante particolare degno di nota è l’introduzione in quegli anni del concetto di “zoning” in agricoltura. Si tratta di un metodo di suddivisione delle aree geografiche rurali in modo da garantire un’agricoltura compatibile con la zona e attività extra-agricole che non incidano negativamente su di essa. Essenzialmente, consiste in un primo tentativo di valorizzazione e corretta gestione del paesaggio rurale, tematica oggigiorno centrale per un’agricoltura che intende definirsi sostenibile.
In copertina, Contadini al lavoro, Renato Guttuso, 1950.