Nessuna fine imminente per il Movimento 5 Stelle. È Luigi Di Maio a sottolinearlo in un post sul Blog delle Stelle, a proposito del dislivello fra i risultati delle elezioni locali abruzzesi e quelli delle politiche. Marco Marsilio è senatore di Fratelli d’Italia e adesso anche Presidente dell’Abruzzo. Trionfa il centrodestra con il 48% dei voti, trainato dalla Lega che si conferma il partito più votato, con il 28%. E mentre il centrosinistra unito riesce a superare la soglia del 30%, il Movimento 5 Stelle non sfonda nemmeno la barriera del 20%. Il dato non è così allarmante, rassicura Di Maio, ma lo è quanto basta per ammettere la necessità di fermarsi a riflettere sul futuro del Movimento e sui problemi di fondo che lo vedono scendere anche nei sondaggi politici. All’ombra del gigante leghista, la forza pentastellata sta facendo i conti con il suo primo disincanto.
Un alleato ingombrante
Le elezioni in Abruzzo scaldano i dibattiti per due motivi: una delle due forze di governo – la prima in ordine di consenso popolare, il 4 marzo scorso – è uscita dalle urne mortificata; l’altra ala del governo, al contrario, ne è uscita vittoriosa, presentandosi in blocco con Forza Italia e Fratelli d’Italia, proprio come quel 4 marzo. L’alleanza a zig zag che regge il governo suscita alcuni dubbi, anche all’interno del Movimento 5 stelle stesso: «Spostarsi a destra non paga. Abbiamo lasciato troppo spazio a Salvini, alle sue modalità comunicative. E gli elettori hanno scelto l’originale», dice la senatrice M5s Elena Fattori a Repubblica. La doppia linea di Salvini, che sceglie alleati diversi sul fronte locale e su quello nazionale, non preoccupa invece Di Maio, il quale ribadisce ancora una volta il contratto tra le due forze fino allo scadere dei cinque anni. Non c’è dubbio, però, che qualcosa sia cambiato dalle elezioni dell’anno scorso. I sondaggi ci dicono che i rapporti di forza tra Lega e M5s sono stati ribaltati. La Lega ha ormai sorpassato l’alleato, passando dal 17% del marzo scorso a circa il 30%. Senza dimenticare l’enorme balzo in avanti rispetto al 4% della vecchia Lega Padana. Il Movimento sta invece percorrendo un percorso a ritroso, dal trionfo del 30% a un attuale 20% circa. Salvini è riuscito a portare un partito minore dai palazzetti ai grandi stadi, orientandolo da una prospettiva secessionista e anti meridionale ad una nazionalista, che è quella che paga di più nell’era di una globalizzazione a tratti destabilizzante. Il consenso che gli ruota attorno è un successo studiato e consapevole, che ai 5 Stelle, al contrario, è semplicemente rotolato addosso, come accade a tutte le cose nuove che rompono con la tradizione. Attraverso un processo di iper personalizzazione della politica, Salvini ha saputo concentrare tutto su di sé quel consenso, mentre nel Movimento questo è sparso, conteso tra i vari Di Maio, Conte, Di Battista, Fico e Toninelli, con le loro posizioni non sempre concordanti.
Problemi di posizionamento
Diversamente da ciò che afferma Elena Fattori, il Movimento non si è davvero spostato a destra, ma lì ha semplicemente un alleato. I 5 stelle rimangono nella loro zona grigia, sull’uscio, né dentro né fuori, al contrario della semplice ma chiara visione del mondo di Salvini, che inevitabilmente ispira fiducia e genera consenso. Certo, anche la posizione del segretario della Lega appare poco chiara in termini di alleanze, ma sia ai suoi alleati sia ai suoi elettori il doppio fronte sembra andare bene, dunque il problema non si pone. Si pone, invece, quando Di Maio scrive sul Blog delle Stelle che «il Movimento è l’unico argine a Berlusconi Ministro della giustizia o dell’economia». Per Di Battista, l’ex Presidente del Consiglio «ha contaminato la morale comune di questo paese, la politica, la finanza, l’economia, la pubblica amministrazione, lo sport». Berlusconi, d’altra parte, non ha mai nascosto inimicizia reciproca nei confronti dei 5 stelle, «dilettanti, incapaci, lontani da quel grado minimo di cultura di chi deve governare». Ma se il Cavaliere è un avversario da arginare, in quale misura la Lega può essere un’alleata? E soprattutto, quanti attriti è in grado di sopportare il contratto di Governo, dati i numerosi argomenti di divisione tra i due soci? Se pensiamo alla questione migranti, Salvini ha fatto della prospettiva anti immigrazione il proprio cavallo di battaglia, ma all’interno del Movimento 5 Stelle le opinioni a riguardo sono discordanti e marginali rispetto alla linea dura dell’alleato leghista: ad esempio il presidente della Camera, Fico, non ha mai nascosto la propria opinione, favorevole all’accoglienza. La divisione è profonda invece sulla Tav, la famosa alta velocità Torino-Lione, alla quale i 5 Stelle sono fortemente ostili, mentre per Salvini questa si può realizzare. Incerta la linea di governo anche sul Venezuela: da una parte la neutralità M5s, dall’altra il no a Maduro di Salvini. La perdita di consensi, dunque, non è imputabile alla sola forza carismatica del leader leghista, che pure sta avendo un grande ruolo nel ribaltare la situazione, ma ad un problema di posizionamento: cioè alla difficoltà del Movimento nel concordare la propria linea con quella di un alleato nuovo, e di conseguenza nel non sapersi più definire e collocare in maniera netta nello spettro di colori della politica nazionale e internazionale.
Un anonimo mediatore
A definirlo con le parole del belga Guy Verhofstadt, il presidente del Consiglio Conte sembrerebbe essere proprio un simbolo dell’incapacità del M5s di prendere posizione. Il parlamentare europeo, leader dei liberali a Strasburgo, in un discorso ha chiesto al premier italiano per quanto tempo ancora sarà il burattino mosso da Salvini e Di Maio. Con un inizio un po’ berlusconiano, sullo stile de «l’Italia è il paese che amo…», Verhofstadt separa sostanzialmente l’Italia in governanti e governati: siamo un bellissimo paese, ma abbiamo un governo che non ci rende giustizia e che ci sta rovinando da più di vent’anni, da Berlusconi a oggi con i veri capi di questo governo, Salvini e Di Maio. Che la forza di questo esecutivo derivi dal carisma dei due vicepremier è indubbio: Giuseppe Conte è un avvocato tolto dall’insegnamento e impiantato a Palazzo Chigi in un secondo momento, quando nessuno sapeva chi fosse. Il suo è un ruolo pacato, di mediazione, di sintesi tra due forze che spesso entrano in rapporti contrastanti. Quando pensiamo a chi dà direzione al nostro governo ci vengono in mente due nomi: nessuno di questi è Giuseppe Conte. Un presidente del Consiglio al quale non eravamo più abituati dopo le esperienze berlusconiane e renziane, ma che, nella teoria, non sta poi sbagliando tanto. La funzione dell’esecutivo è quella di tradurre in decisioni puntuali le scelte generali e astratte del legislatore e, nel dettaglio, il Presidente del Consiglio è colui che dirige e indirizza la politica generale del governo dandogli unità. È questa la teorica pacatezza del premier che, al momento della stesura della Costituzione, ha esorcizzato l’orrore di troppo potere nelle mani di un uomo solo. Dunque l’anonimato di Conte non è affatto un problema, ma può diventarlo nel momento in cui le due anime del governo che è chiamato a ridurre ad una sola saranno troppo opposte per poterle sintetizzare. E come abbiamo visto, i motivi di scissione sono tanti.
Troppi leader
Ribadiamo che Conte è solo una delle tante figure che rappresentano il Movimento, al contrario della Lega, che ha un solo volto e un solo nome: quello di Matteo Salvini. Se Conte è il personaggio più mite, Di Maio, Grillo e Di Battista sono quelli che infiammano i dibattiti e conquistano gli elettori.
Grillo in politica non è mai sceso né si è mai fatto eleggere. È il megafono di alcune confuse e negli contraddittorie rivendicazioni, un simbolo anche un po’ invecchiato, con un carisma che può far ridere ma non conquistare gli elettori o guadagnarne di nuovi. Quello è il compito dei giovani.
Di Maio ha solo trentadue anni e, insieme all’alleato leghista con più anni di esperienza alle spalle, regge in mano l’Italia. Non è battagliero come Di Battista e non è irremovibile come Salvini. Ha la faccia pulita, parla ai suoi sostenitori e ai suoi detrattori con lo stesso sorriso e la stessa calma. Il motto è sempre quello: una politica diversa è possibile, siamo al servizio dei cittadini e lo saremo sempre. Ma l’effetto novità sfuma veloce e la fascinazione suscitata dalla nuova schiera di politici scema in fretta quando si scontra con la fattualità, l’inesperienza e l’inevitabile difficoltà di realizzare tutte le promesse. Sfuma anche l’immagine stessa di Di Maio accanto a quella di Salvini: il leghista è ovunque accolto come una star, e il giovane pentastellato tiene il passo a fatica.
Viene a dargli una mano il compagno e amico Di Battista, tornato in Italia per giocare da esterno, senza alcuna pretesa di tornare nei palazzi romani. Rappresenta la parte più battagliera del Movimento, quella più indignata, quella che può anche fare a meno di Salvini, quella per cui Berlusconi è «il male assoluto». Dal punto di vista dell’alleanza di governo è perfino dannoso. Forte del mito del viaggiatore, dell’uomo che lascia volontariamente la politica per fare reportage in giro per il mondo con compagna e figlio, non ha un ruolo preciso, se non quello di fare opposizione. Il problema è che il Movimento 5 Stelle non è più all’opposizione.
Nemmeno Verhofstadt l’ha capito. Conte non sarà in grado di rappresentare in modo forte il suo governo, ma è espressione di una maggioranza che nel complesso continua ad ottenere più del 50% dei consensi. E il Movimento è ancora la seconda forza più influente del paese. Non c’è nessuna fine imminente, basta vedere i dati. Ma «è chiaro che ci sono alcuni problemi di fondo», scrive ancora Di Maio sul Blog delle Stelle. Problemi che è necessario risolvere, se il Movimento 5 stelle non vuole essere fagocitato dal gigante leghista.