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La favorita: il ghigno beffardo della prevaricazione

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Anastasia Piperno

Dopo Il sacrificio del cervo sacro, continua l’esperienza di Yorgos Lanthimos in terra statunitense con il suo film più accessibile fino ad oggi: La favorita. Rispetto all’originale poetica dell’assurdo del periodo greco di Lanthimos, il regista qui ha smussato le punte acuminate del suo cinema più indipendente e concettuale a favore di un prodotto più diluito e comprensibile da un pubblico di massa. Di conseguenza, ecco che Lanthimos ha acquisito una visibilità inedita negli Stati Uniti: La favorita, insieme a Roma, è il film che negli Oscar 2019 ha ottenuto il più alto numero di nominations, ben dieci. Miglior film, miglior regia, miglior attrice protagonista, miglior attrice non protagonista (categoria in cui sono candidati ben due membri del cast, Rachel Weisz ed Emma Stone), miglior sceneggiatura originale, miglior fotografia, miglior scenografia, miglior montaggio e migliori costumi. Va segnalato inoltre che il film, al di là dell’aver sbancato nei recenti BAFTA, ha vinto già nella scorsa edizione della Mostra del cinema di Venezia il Gran premio della giuria: nella stessa occasione Olivia Colman ha ottenuto la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile (la Colman ha poi replicato la vincita ai Golden Globe).
Non finiscono qua le prime volte, considerando l’approccio di Lanthimos ad un genere mai toccato prima, ovvero il film storico in costume. La favorita infatti è ambientato nei primi anni del XVIII secolo alla corte della regina Anna Stuart (Olivia Colman). Due guerre si svolgono contemporaneamente: una esterna, ovvero la guerra di successione spagnola, e un’altra ben più centrale e interna alla corte, nello specifico una contesa per essere nel favore della regina, combattuta tra Sarah Churchill (Rachel Weisz) e sua cugina Abigail Hill, una giovane caduta in disgrazia e pronta a cercare una condizione migliore tramite l’arrampicata sociale (Emma Stone).

La deformazione dell’umano

Il soggetto è stato covato sin dal lontano 1998 da Deborah Davis, la quale era alla prima esperienza con la scrittura cinematografica. Grazie allo spirito fresco, vivace e non ingessato in una vetrina museale come altri film britannici di costume, lo script viene addocchiato dal produttore Ed Guiney circa dieci anni dopo, il quale si mette in contatto con Lanthimos, riportato ufficialmente come il regista del progetto nel 2015. Viene a mancare il consueto braccio destro della creazione lanthimosiana, ovvero lo sceneggiatore Efthymis Filippou, che aveva collaborato con lui da Dogtooth in poi. La differenza è percepibile: spariscono premesse assurde e costruzioni alternative come quella della gabbia domestica di Dogtooth o della dichiarata distopia di The Lobster per una storia di connotazione grottesca, ma ben più comune, basata inoltre su personaggi esistiti e fatti realmente accaduti almeno in parte. Il punto non è far rivivere fedelmente un periodo storico tramite un’accurata ricostruzione, ma sfruttare le dinamiche in atto per riflettere su temi più astratti e cari al regista greco, che si sviluppano tramite le relazioni interpersonali tra i personaggi. Si gioca persino con il soggetto storico, con l’indossare e l’inscenare i costumi del tempo, elementi che costituiscono un motivo della natura affabile del film agli occhi dello spettatore d’oggi.

Foto: vulture.com.

Un fattore principale del film, infatti, è la componente della contaminazione. Fin dal primo atto, intitolato “Questo fango puzza”, l’umano è tutt’altro che elevato, separato dall’animalità e dalla corporeità. La corte, anzi, pare piena di animali: oche, anatre, aragoste, uccelli, conigli, che si fondono metaforicamente con le problematiche dei personaggi umani. Tutta l’ala maschile e prettamente relegata al corpo politico del tempo costituisce uno sfondo simile ad una fiera clownesca, composta da parrucconi e trucchi da “tasso” − come dice Sarah nel film – che invece, curiosamente, non coinvolgono la parte femminile, su cui la costumista Sarah Powell ha lavorato cercando appositamente una maggiore sobrietà nel volto e nel vestiario. Lanthimos lavora ad una fusione uomo-animale: esempio ne è una scena di corsa di oche, dove gli uomini fanno un tifo esagitato alle proprie concorrenti predilette. I loro entusiasmi sono ripresi con l’alterazione del ralenti: l’espressione corporea appare scomposta e idiotica. La voce, deformata nel sonoro, pare fondersi con i versi animali, sovrapporsi a essi fino a una sostanziale e sarcastica indistinzione. Il paragone tra politico ed animale non è nuovo alla storia della cultura, non soltanto del cinema: al di là dei classici come La fattoria degli animali di George Orwell, in Sciopero! (1924) di Ėjzenštejn vi è proprio la sovraimpressione caricaturale, anche più precisa, esatta – e appunto visuale, non sonora, trattandosi di una pellicola muta – tra i volti di alcuni politici e degli animali. Così ancora ne La favorita alcuni riti di seduzione, per esempio tra Abigail e un cortigiano più privilegiato di lei, nella componente studiata, tattica e fortemente fisica, rasentando la lotta letterale, paiono comportamenti che si potrebbero osservare nelle società e nelle abitudini di tante specie, spoglie di un qualsivoglia romanticismo, se non quando accennato come beffa, una sfrontata, ironica recita. Ciò che concerne un rapporto di coppia, appunto, non è quasi mai sentimentale, ma legato all’impulso di soddisfazione del piacere e a una strumentalizzazione del sesso, come fanno Abigail e Sarah, in vista di un qualche privilegio. La contaminazione tocca anche la melma della terra, appunto, su cui sia Sarah che Abigail affonderanno violentemente il volto, considerato lo specchio di tutta la spiritualità più prettamente umana, e liquidi del corpo umano, come il sangue o il vomito (tutte e tre le donne protagoniste vomiteranno almeno una volta nel corso del film). Tutto ciò non può che legarsi ad un’antropologia pessimistica di Lanthimos. Mettendo spesso i suoi personaggi nella condizione di dover esistere in un ambiente particolarmente restrittivo, sopravvivendo al suo interno o cercando di intervenire in esso attivamente per affrancarsi o al contrario dominarlo, Lanthimos cerca di catturnarne una più nuda essenza, spesso mediocre dal punto di vista morale, meschina ed egoista. Se nelle precedenti opere molto era reso anche dalla recitazione de-umanizzata, alienata, meccanica, qui la caratterizzazione psicologica dei personaggi più pronunciata indebolisce questo elemento, mantenendo comunque una dissacrazione di ciò che di più distintivo e nobile può essere attribuito all’umano. L’uomo qui si sporca, nel senso talvolta letterale appunto, ma anche nella soglia di ciò che è accettabile fare in vista di un obiettivo, giocando pericolosamente con il limite della cosiddetta “dignità”, altra categoria dello spirito (e oggetto di un’altra battuta ironica della sceneggiatura). L’idea del sacrificio, di un qualche altare su cui versare un pegno e in cui la degradazione o il piegamento al gesto mostrano un’umanità senza luce o speranza non è affatto nuova a Lanthimos, pensando a The Lobster o Il sacrificio del cervo sacro.

Foto: riotmaterial.com.

Il grottesco come deformazione e distorsione è veramente la chiave di tutto il lavoro registico di La favorita: Lanthimos, non potendo agire pienamente sulla sceneggiatura, riversa la sua cifra stilistica sull’uso della macchina da presa. Spesso sono usati obiettivi grandangolari, volti a comprimere lo spazio di un interno per rendere un senso claustrofobico degli spazi, oppure spia delle storture umane che dilagano in essi. Capita che le figure umane, anche isolate, siano una piccola forma in un ambiente circostante più grande e barocco. Ciò si applica non di rado per la regina, sepolta in questi spazi come un sacco di carne in una palla di vetro. Questa evoluzione artistica di Lanthimos era già iniziata da Il sacrificio del cervo sacro, dove si era osservato l’uso di inconsuete angolazioni e lenti rispetto all’occhio statico di lavori ancora precedenti. Si mantiene, inoltre, un riferimento a Kubrick, ormai modello manifesto. L’uso della luce naturale nelle riprese, talvolta confidando nella sola illuminazione delle candele, non può che far pensare all’analoga operazione di fotografia fatta per Barry Lyndon, altro film storico con la mediocrità umana al suo centro focale, da parte di un autore con una concezione dell’uomo altrettanto disincantata.
Si moltiplicano anche le inquadrature dal basso per articolare gli scambi dialogici tra i personaggi. Usualmente questa posizione della macchina da presa rispetto al volto umano intende esprimere un’attribuita dominanza di un personaggio o un ente, magari rispetto alla percezione di un altro personaggio che se ne sente soggetto. L’uso così frequente di tale angolazione ha però un intento ancor più puramente estraniante per lo stesso spettatore, non soltanto legato a una qualche dinamica di continua prevaricazione tra i personaggi presente nel film.

Foto: nathanzoebi.com.

La detenzione di dominio passa da Sarah a Abigail, esprimendo due modalità di governo (tentato) diverse, che mostrano anche un pensiero politico. Entrambe sono guerrafondaie disposte a tutto per tenersi stretta la regina, ma vestono maschere diverse. Sarah utilizza il carisma della franchezza brutale, del ricco passato condiviso e della conoscenza della persona acquisita come dimostrazione della propria necessità a fianco della regina. Abigail fa leva sulle carenze più emotive di Anna Stuart attraverso un atteggiamento caloroso, a tratti materno. Le due sono analoghe nelle intenzioni di fondo e complementari nella maniera d’azione, esibendo due lati quasi opposti della stessa medaglia. Orditrici di inganni ai danni della sensibilità della sovrana, un soggetto fragile, rovinato nell’intimo, in verità sono a loro volta ingannate da sé stesse, non rendendosi conto di essere preda di una più beffarda illusione: la possibilità di tenere un qualsiasi concreto, fisso e solido potere. Disgrazia e privilegio sono oscillazioni soggette a una semplice, temporanea fortuna, come rispecchiato nel titolo. Si crede soltanto di aver vinto, prima che un nuovo scacco sia spodestato da una «vuota corona», come si dice nel Riccardo II di Shakespeare. Si tratta di un’altra costante del cineasta greco: il potere è sempre qualcosa che schiaccia, che grava sul soggetto e che non viene mai eluso davvero. Ne La favorita ciò assume il senso più lineare, rispetto ad altre opere, dell’invalicabilità ultima del potere monarchico a dispetto di qualsiasi arrampicata sociale. Nel momento del suo tratto più roccioso e insormontabile, il potere non ha mai un volto concernente una psicologia umana individuale, ma la trascende, facendo scivolare durante lo sviluppo della storia il personaggio che la incarna in un’apparenza distante, non-umana o addirittura sovra-umana (come ne Il sacrificio del cervo sacro), frutto dell’approccio simbolico e concettuale del regista. Così il personaggio della Colman, tenuta da un estremo all’altro della fune delle donne, si articola su più livelli, tra personale e astratto. Infatti passa in selezionati momenti dalla sofferenza scoperta della singola persona a una smorfia più spoglia, più sovrastante e che mette un amaro punto fermo alla vicenda nella scena finale e all’ubris delle due donne. In particolare, qui il potere è a sua volta deformato, piegato dalla malattia: la sceneggiatura sfrutta il fatto storico della gotta di Anna Stuart per alludere a una putrescenza agonizzante del potere stesso. Le piaghe dell’umano sono anche quelle della regina, continuamente mortificata nella sua sfera corporea. La monarca si trova per giunta invischiata in una bolla di solitudine accumulata, di ignoranza dei più stretti affari politici – pur avendo l’ultima, balbettante parola su di essi – che rendono la guerra di entità più estesa, una guerra che si svolge fuori dalle mura del palazzo e che concerne un numero sacrificale di vite umane che echeggia senza alcun reale senso per i cortigiani e per lei, abituati a vivere nel gingillo e nell’ottica ristretta delle proprie mire utilitaristiche.

In ultima istanza, è l’impotenza a livellare tutto e tutti. Una più vasta gente all’esterno la cui vita è decisa, governata dall’arbitrarietà di pochi potenti burattinai, ma anche, negli interni di quest’ultimi, l’impossibilità di un vero controllo della propria sorte. Questo tema non manca di toccare anche la regina come essere umano attraverso la metafora animale dei conigli, che simboleggiano i diciassette figli che ha perduto, un colosso di dolore e di presenza quasi tangibile nella sua isolata quotidianità. Ponendosi in chiave finale, i conigli alludono a tutte le vite umane dei personaggi, a destini che per un motivo o per l’altro non sono mai controllati come può far credere la vanagloria. L’ultima beffa, appunto, di tutti i desideri e pretese umane è ancora senza volto umano, anzi, è trasfigurata tramite un essere animale.

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